Semplice o semplicistico? Terza istantanea da Maggio all’Infanzia
Ventidue spettacoli in quattro giorni, distribuiti in diversi spazi (Teatro Kismet, Teatro Abeliano, Casa di Pulcinella e la Libreria Svoltastorie), ma Maggio all’Infanzia non è tutto qui.
Tra uno spettacolo e l’altro, il giallo foyer del Kismet è popolato di bambini, con le voci che si sovrastano l’un l’altra; a sala riempita, le sedie blu rimangono vuote, tirate da un lato, pastelli a cera e fogli mezzi disegnati abbandonati sui tavolini.
Alla Casa di Pulcinella il pubblico arriva e può godersi la bella mostra dedicata a Emanuele Luzzati, con burattini e pupazzi in pezza, legno e gommapiuma, ma i più piccoli si misurano anche con la costruzione di figure di carta, sacco e pop-up nel Laboratorio di Pulcinella. Così come c’è modo, per gli studenti delle scuole superiori, di misurarsi con grandi temi contemporanei, nel laboratorio curato da Graziano Graziani attorno alla Costituzione e all’Utopia.
Questo per dire che abbiamo notato anche una grande attenzione alla dimensione dello “stare” del pubblico, una cura ricondotta alle pratiche della relazione, all’accoglienza di scuole e famiglie come incubatori dell’immaginario dei giovani spettatori.
Un’attenzione e una cura messe intorno a una programmazione che, soprattutto a confronto con quella di altri festival, si presenta però densa e concentrata. Se ci si sofferma sul cartellone, un calendario così serrato – che non sempre lascia a chi voglia seguirlo tutta il tempo per metabolizzare i pensieri – risponde di certo alla pluralità di esigenze introdotta da vent’anni di cittadinanza sul territorio ma, di conseguenza, pone la questione della qualità media delle produzioni.
Un aspetto su cui ci si è molto interrogati tra foyer e tragitti in pullman è il ruolo fondamentale assunto, in un festival di “teatro ragazzi”, dalla composizione della platea. Assistere all’intera vetrina con occhi adulti – appartengano essi ad artisti, critici o operatori e operatrici – rischia di tramutarsi in un atto limitante se quegli occhi non hanno modo di dotarsi, sempre, della presenza dei giovani spettatori. Soprattutto in quelle opere che misurano ritmi e snodi drammaturgici sulla percezione e sull’immaginario dell’infanzia, sarà per l’adulto difficile entrare se non “accompagnato” da un bambino. È stato il caso di La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, nel quale gli adulti hanno da un lato individuato alcune fragilità soprattutto nel passaggio da una sequenza all’altra di questo viaggio iniziatico, dall’altro riconosciuto l’impossibilità a vestire comodamente i panni del target per cui lo spettacolo era pensato. Perché, in parte minore o maggiore, sempre questo passaggio richiede una sponda di percezione in più, non necessariamente condivisa da tutti gli adulti in sala. In altre parole, di fronte a uno spettacolo ad essa indirizzato, la presenza di una collettività di bambini sarà sempre e comunque il termometro essenziale per stabilire la temperatura di una visione.
E tuttavia abbiamo anche abitato platee in cui l’adulto era “in minoranza”, confrontandoci con linguaggi che, programmaticamente, ordinavano i propri elementi in funzione di una fruizione infantile. Lorenzo Donati ha già parlato qui del paradigma del rispetto, su cui ci sembra di dover tornare nell’analisi delle forme di alcuni lavori.
L’arca di Silvia Civilla e Marco Alemanno (Terramare) ha proposto una volta di più lo stereotipo dell’adulto che scimmiotta il bambino, sintetizzando quest’ultimo in una creatura che si muove con grandi gesti didascalici, piange battendo i piedi e agitando i pugni e sgrana gli occhi per mostrare meraviglia. In questa fiaba originale i due, in un lungo sogno, soccorrono dal diluvio un’arca piena di peluche e dialogano con Noè. Il messaggio ambientalista contro lo spreco dell’acqua si innesta in un’odissea fantasiosa per superare la lontananza dai genitori: lo sforzo di magia scenica è però ridotto ai minimi termini, non riesce a proporre alcuna tridimensionalità e anzi scompone i passaggi di senso in quadri frontali su una scenografia immobile sotto alle (coloratissime) luci a led. Il rapporto con l’oggetto-peluche, che pure potrebbe portare a un interessante transfert e affrontare davvero i concetti di accudimento e protezione, è reso in una manipolazione poco curata e che dunque fallisce il salto verso una vera e propria animazione, perdendo più volte il contatto con lo spettatore (dai 3 anni).
Il colorato esperimento del Teatro Vascello su La Gabbianella e il gatto (adattato e diretto da Manuela Kustermann) sconta in parte la stessa criticità. Sul grande palco del Teatro Abeliano scenografie dipinte e ritagliate su pannelli di legno, appaiate in maniera poco chiara con fotografie proiettate sul fondale, non riescono a definire lo spazio, che finisce per essere occupato da parate e schiere di attori in costumi carnevaleschi, portati da un testo troppo verboso (a fronte della sintesi poetica del plot) a scivolare su stereotipi dialettali e su una scurrilità ripulita. L’inserimento delle canzoni e della musica, poi, non riesce a creare un vero e proprio contrappunto (su cui Schiaccianoci Swing, ad esempio, era in grado di fondare un’intera drammaturgia quasi senza parole). Anche stavolta, dunque, l’attenzione si perde, forse eccessivamente bombardata da dialoghi che non lasciano respiro alla riflessione.
Che cosa accade, invece, agli spettatori di Le 12 fatiche di Ercole del Teatro della Tosse? Ancora una volta sullo sfondo di una scena dominata dalla bidimensionalità, il divertimento si trasforma in intrattenimento frontale. Il fondale di legno che ospita un tabellone da gioco dell’oca diventa una teca dove, casella per casella, ospitare i trofei delle prove superate dall’eroe greco. Ma il tono generale, che nella sfida finale esplode nel goffo tentativo di coinvolgere l’intera platea di una domenicale, è vicinissimo all’animazione da villaggio vacanze. Se non si presta sufficiente attenzione al controllo delle forme, anche il contenuto si distorce: così incasellati, i simboli dell’antagonismo messi in fila dal mito arcaico si appiattiscono all’insegna della logica dell’affastellamento propria dei format televisivi. Nonostante il gran dispendio di energie dei due “conduttori” – perché mai la loro presenza si definisce in una pur distaccata mimesis attoriale – il messaggio si disperde e a essere sconfitto è il ragionamento del bambino, costantemente tirato per la giacchetta da un fuoco d’artificio all’altro.
Abbiamo però visto anche esperimenti più raffinati, come Vassilissa e la Babaracca di Kuziba, che in una scena cupa e ambrata organizza una meditazione sulla dualità tra accettazione e rifiuto. A partire dalla leggenda slava della Baba Jaga, la strega dei boschi che nella fiaba slava schiavizzava Vassilissa la bella, prende forma una sorta di “preferirei di no” bartlebyano usato come forma di redenzione a una totale remissività. Pur scontando qualche affanno nella gestione della corporeità dei due interpreti (divisi dalla baracca mobile che da elemento di meraviglia si trasforma presto in ingombrante architettura), la regia di Raffaella Giancipoli compone una guida originale verso un’iniziazione all’età adulta. Che infatti raccoglie e posiziona bene l’attenzione, con pochi segni e molta semplicità.
Sulla semplicità si fonda anche Il re clown di Pietro Naglieri (Skèné), una favola quasi patafisica che sembra fare il verso all’Ubu Roi – a sua volta caricatura del dramma moderno – per consegnare ai bimbi dai 5 anni un messaggio chiaro sulla creatività, sul potere dell’arte, sulla condizione di emergenza degli artisti, sulle distorsioni del potere. Uno spettacolo che potrebbe stare in una piazza come in un salotto, perché ben piantato su codici scarni, leggibili e rispettosi della fantasia dello spettatore. La qualità sta anche qui, nel saper condensare in una struttura rigorosa le potenzialità del divertimento, l’interazione e dunque la collaborazione tra palco e platea nella costruzione di un immaginario che non senta il bisogno di storpiare accenti, ritrovando invece nella caricatura la scintilla della satira culturale per tutte le età.
Più che con una diretta intenzione di critica negativa, certi esempi portati qui servono a individuare una possibile chiave, forse proprio quella di proporre, in forza di un “diritto del bambino al rispetto”, una feconda semplicità. Mettere a punto un sistema di segni che abbia il coraggio di porre domande e di lasciare aperta – nei ritmi e nelle forme del teatro, più che mai malleabili – la via per una risposta imprevedibile.
Sergio Lo Gatto