Sotto la linea di terra non c’è niente. Intervista a Patrizio Dall’Argine

Ci puoi raccontare da quali esigenze nasce Teatro Medico-Ipnotico?

Teatro Medico-Ipnotico nasce dopo alcuni anni di riflessione e dalla mia esigenza di volermi definitivamente staccare dalla natura umana. Prima avevo avuto varie esperienze come macchinista, scenografo, scultore e drammaturgo, legate al settore del teatro ragazzi ma a volte anche del teatro per adulti, in cui non utilizzavo solo i burattini ma anche gli attori. Ecco, volevo spostarmi esclusivamente in baracca e lasciare che parlassero i burattini.
Tra l’altro la fondazione di Teatro Medico-Ipnotico è coincisa con un incarico presso il Museo Dei Burattini di Parma, dove è conservata la collezione della famiglia Ferrari (una delle famiglie di burattinai più importanti della storia d’Italia). Durante questo incarico ho iniziato a scrivere storie e a inventarmi personaggi che fossero maggiormente legati alla contemporaneità, mentre la produzione dei Ferrari ricalca di più le orme della tradizione. Così mi sono ritagliato una significativa fetta di pubblico.
La compagnia nasce infatti anche dalla convinzione che i tempi sono maturi perché il teatro dei burattini ritorni ad essere una “abitudine laica” caratterizzata da una forte continuità nel tempo. Il discorso che cerchiamo di portare avanti è proprio quello di voler uscire dalla logica dell’evento, della performance. Solo attraverso la continuità di proposta è possibile uscire dalla logica dell’evento e della sopravvalutazione del lavoro culturale. In Francia, nei teatri Guignol, teatri stabili che si trovano nei parchi di quartiere, esiste questo tipo di programmazione: si va in scena tre giorni alla settimana con uno spettacolo che resta in cartellone un mese e poi cambia.

Qual è dunque la specificità dei burattini sulla scena?

Pensate solo al fatto che il burattino si esibisce in una baracca con il boccascena. Si tratta di un palco naturale, che non crea alcun problema se vuoi esibirti all’aperto. Credo che questa sia una caratteristica fortemente connaturata al burattino: gli esperimenti, nati soprattutto dalla necessità tipica dei ‘70 di destrutturare i linguaggi, di abbattimento della baracca e dell’animazione a vista lasciano secondo me un po’ il tempo che trovano. Alla fine, le questioni creative con cui ti confronti sono le stesse dell’animazione in baracca. È vero: gli orientali hanno una smaccata ed esteticamente interessante propensione all’animazione a vista che nasce però anche da un rapporto con la visione, con l’oggetto e con la luce molto diverso dal nostro. Si tratta delle capacità di rendersi invisibili attraverso la presenza. In occidente, invece, la nostra attitudine è forse più legata alla necessità di creare “meraviglia”.
Ecco, il burattino ti lascia la libertà di essere invisibile, andare in scena rappresenta una sorta di “piccolo suicidio”dell’identità. Non occorre crearsi un’identità perché il burattino ne ha già una propria, e molto marcata. Infatti, è quando ti senti “forte” che lavori male: vai a prevaricare quelle che sono le caratteristiche intrinseche dei personaggi in scena. La baracca accoglie da sempre gli animi più inquieti ma devi essere sincero e devi essere capace di metterti a disposizione dei pezzi che manovri. Mi viene in mente la leggenda dell’homunculus: una creatura che ti “costruisci” e che ti rispetta nel momento in cui anche tu la rispetti a tua volta. Se invece la disprezzi, usandola come fonte di guadagno, ti maledice.


Hai parlato di “meraviglia”. Cos’è la meraviglia oggi, in una società caratterizzata da una grande immersività tecnologica?

Se prendiamo anche gli ultimi film della Disney, notiamo come si è arrivati al un punto in cui tutto è finto. La meraviglia oggi si nutre in realtà di mere apparenze, di immagini virtuali appunto. Di fronte a un tale “parossismo” il teatro ha alcune carte da giocarsi, che sono quelle della magia, dell’incanto, della “vivida verità” di certi elementi: il rumore del legno, l’odore del borotalco, i suoni forti la consapevolezza di essere dentro a una sala… l’invisibile, soprattutto. Fare teatro significa secondo me avere coscienza di lavorare con l’invisibile, sapendo che il palco è appunto il luogo in cui questo invisibile deve manifestarsi. Non sempre è così: esistono tanti spettacoli che strizzano in continuazione l’occhio a quello che c’è fuori, invece il teatro dev’essere qualcosa che ti costringe a entrare dentro. Quando animi i burattini evochi qualcosa. Il burattino è un simulacro, un fantasma (“fantasma” in greco significava infatti “immagine”). Si avvicina alle statue che nell’antichità erano poste sopra nelle tombe: la loro funzione non era quella di essere viste dai vivi, ma quella molto più oscura di trattenere lo sguardo dei morti per evitare così di scongiurare che i morti tornassero, una delle paure più ataviche dell’essere umano.
Ecco allora che, rispetto alla meraviglia, il teatro ha dalla sua la capacità evocativa e la capacità dunque di immaginare, di “vedere” l’invisibile. È un punto centrale in un momento storico in cui la finzione è diventata più reale della realtà…ma cosa c’è dietro questa magnificenza? E’ così con il teatro in voga oggi: un teatro di idee. Come diceva un grandissimo, è meglio invece avere un’idea di teatro.

Che differenze osservi fra il pubblico bambino e quello adulto? Forse che tale meraviglia si diffonda un po’ per contagio…

Venire a vedere uno spettacolo di burattini è credere a questo patto: sotto alla linea di terra della barra non c’è niente. È anche un discorso sulle profondità: io che faccio pure il pittore ho sempre cercato la profondità, il rapporto figura-fondo. Ricreare questi elementi nel teatro di burattini è molto divertente: l’illuminotecnica ti offre ampie possibilità con pochi ed economici mezzi tecnici.
Inoltre il teatro di burattini così come la rappresentazione in generale hanno a che fare con l’infrazione di un divieto. È quello che ho cercato di esplicitare col mio spettacolo su Modigliani. Modigliani e i pittori dell’Ècole de Paris erano ebrei e si confrontavano dunque con una proibizione religiosa verso la rappresentazione della figura umana. La volontà di rompere dei divieti è da sempre uno dei “carburanti” principali per gli artisti. Oggi non c’è più niente da rompere e questo rende forse più stimolante provare a creare spettacoli per tutti. Io sono uscito dal teatro ragazzi proprio perché non ne potevo più di fare spettacoli di settore e oggi alle nostre rappresentazioni vengono molti adulti da soli, che non accompagnano bambini. Per raggiungere un tale risultato, occorre saper calare i canovacci classici del teatro di burattini nella contemporaneità. E occorre anche saper seguire il “perturbante intrinseco” degli oggetti inanimati: il volto di Guignol, in fondo, è modellato sulla forma di un teschio, è il volto della morte.

(ph: Thea Ambrosini)

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Come avviene il processo di creazione dei testi?

Intanto, il nome Teatro Medico-Ipnotico è tratto dal film di Bergman Il volto. Ammiro i lavori di Jean Renoir e di Nicholas De Stael. La pittura e il cinema sono, con la realtà, le mie fonti di ispirazione primarie. Lo stesso Cappello a cilindro deriva dalla visione di Liebelei di Max Ophuls. In effetti, penso che il teatro di burattini assomigli molto al cinema classico: una ricerca di equilibrio e di armonia. I miei spettacoli di repertorio nel tempo vengono calibrati, si asciugano e semplificano. Il classico è un’opera fuori dal tempo, una dimensione difficilissima da raggiungere, in cui l’autore si eclissa a favore dell’opera
Insisto, quando scrivo io ho il cinema in testa, cerco di raccontare per immagini. Per me un campo lungo vale più di un intreccio drammaturgico di Molière.

Il mondo dei burattini non è così conosciuto ai più. Come mai? Cosa dovrebbe cambiare affinché guadagni una maggiore attenzione?

Spesso l’ambiente dei burattini è un ambiente chiuso, eccessivamente accademico. Per questo se ne parla poco e la maggior parte delle volte male. Esiste però una sorta di “movimento dal basso”: Paolo Parmiggiani, per esempio, è un ricercatore che ha scritto testi importanti e che consiglia di unificare il complesso e ricco panorama del teatro di animazione italiano con il nome di Teatro di Pupazzi, dando così un respiro più internazionale e popolare a quello che solo in Italia viene chiamato Teatro di Figura. Questo genere, ormai dominato soprattutto dalla figura umana, ha un po’ il fiato corto e non mi sembra che dimostri grosse capacità di rinnovarsi. Spesso si assiste a psico-drammi legati al rapporto tra l’animatore e l’oggetto animato…limitando tutto ad un rapporto di potere. E poi diciamo la verità: il nome “figura” non ha appeal, da trent’anni viene proposto e non ha attaccato nell’immaginario. A me sembra che il Teatro di figura in Italia oggi si sia ridotto ad essere una maschera usata dal teatro ragazzi per farsi un po’ più bello di quello che è.
Parmiggiani è tra i pochi studiosi che conosco che ha la capacità di immergere il burattino nella contemporaneità pur mantenendone il suo mistero antico e la sua leggera e nello stesso tempo perturbante identità di oggetto-giocattolo. Ma una visione obbiettiva e storica è censurata da chi vuole mantenere il burattino tra le polveri ottocentesche e le ormai retro-avanguardie del novecento. E’ di nuovo un problema legato all’Accademia che celebra ciò che è finito e non quello che è vivo, e il burattino è molto vivo. Poi certo, c’è anche una specificità italiana che deriva dal conflitto generazionale del nostro paese. C’è insomma un vuoto generazionale nelle posizioni di potere e questo fa sì che il contesto si rinnovi molto lentamente o che si vada avanti con espedienti legati più alla comunicazione piuttosto che ad un linguaggio complesso e affascinante come quello dei pupazzi.

Francesco Brusa, Lorenzo Donati




L’essenza misteriosa della poesia. Leonce und Leona di Teatro Medico Ipnotico

Sotto l’egida di una donna dagli occhi chiusi, forse sognante o forse una Medusa che attende di aprire gli occhi per trasformarci tutti in pietra, sul palco troneggia un teatro per burattini fatto di stoffa e pareti dipinte. Siamo davanti al Teatro Medico Ipnotico che ha proposto per il Festival Teatro fra le Generazioni di Castelfiorentino Leonce und Lena, un lavoro crepuscolare e magico capace, come la luce del tramonto, di far svanire i contorni delle cose sciogliendole le une nelle altre. Uno spettacolo di burattini per adulti o, più semplicemente, uno spettacolo di teatro che racconta una storia usando personaggi fatti di legno e carne.

Stupefacente è infatti la maestria di Patrizio Dall’Argine e Veronica Ambrosini, aiutati da Thea e Virginia Ambrosini, nel trasformare i personaggi inanimati in creature vive che offrono le loro vicende alla poesia e ai lazzi del testo e, a volte, anche a quelli del nostro tempo. Leonce und Lena racconta la storia di un principe e di una principessa di due regni vicini, obbligati a un matrimonio politico. I due giovani decidono di ribellarsi al loro destino e di fuggire, ma durante la fuga si incontrano in una locanda e si innamorano, senza conoscere le loro vere identità. La vicenda si conclude con un matrimonio proprio nel giorno della cerimonia ufficiale, voluta ugualmente dal re nonostante l’assenza dei due promessi, prontamente sostituiti da due automi. Il principe e la principessa riassumono le loro identità e trasformano le nozze politiche in un matrimonio d’amore.

C’è, nella cornice offerta alla commedia di Büchner un riferirsi alle vicende dell’oggi, non tanto nella forma dell’attualità ma in quella universale dell’esperienza umana. In fondo, come declamano i tre diversi imbonitori all’apertura del sipario, in questa storia possiamo leggere ciò che preferiamo: un dramma sociale, che parla delle nostre vite prigioniere di percorsi già tracciati; un dramma morale; o forse niente di tutto questo, la storia di poveri diavoli come noi, né santi né eroi.

Tuttavia Dall’Argine non rinuncia ad allusioni e battute che colpiscono l’oggi con sagace precisione e che vengono dosate in una mistura scenica capace di unire la poesia con la vocazione popolare, il mondo lunare e misterioso del teatrino con quello, assai meno affascinante, che ci aspetta al di fuori del teatro. È proprio questa sapiente dosatura di poesia e arte popolare, unita alla raffinata bellezza di ogni dettaglio, di ogni minimo elemento proposto sulla scena, e alla gestione dello spazio e del tempo scenico a trasformare uno spettacolo di burattini in un’opera d’arte al di là di ogni categoria.

Il mastro burattinaio sfonda i confini dello spazio, davanti e dietro, dentro e fuori, in un’ossatura ritmica dello spettacolo che coreografa le parole del dramma e i movimenti delle creature di legno, arrivando anche a irrompere sulla scena per il monologo del re, quando il capocomico, evasi i confini del suo teatrino e seduto in proscenio di tre quarti, indossa una marionetta e un guanto, per “ricordarsi di pensare per i suoi sudditi”. Una presenza inattesa, prosaica eppure ambigua come un sussurro, un momento di estrema intimità con gli spettatori, come a svelare un mistero, un trucco che già dimenticavamo di conoscere.

Tutto nella messa in scena è rapinoso, dai fondali, a volte quasi espressionisti, poche pennellate decise solcate da cromatismi violenti, alle scenografie oltremondane fatte di alberi pallidi, e di nuvole diafane che si illuminano d’oro al variare della luce, alla musica, creata per lo spettacolo da Marco Amadei e Luca Marazzi. Patrizio Dall’Argine, pittore e scultore, riversa tutto il suo talento nella creazione dei burattini. Ogni minuzia conta, e ogni personaggio ha la sua fisicità, i suoi dettagli unici, persino il suo tipo di legno. Alcuni burattini sono mobilissimi con gambe per danzare, la testa dura da sbattere per terra e mascelle per divorare polli arrosto, altri invece sono ieratici, eleganti, apparizioni quasi spettrali dall’anima di legno. Lo scenario abitato dalle marionette amplia la visione, richiamando nel formato lo schermo cinematografico e l’attenzione all’immagine creata è quasi fotografica, con la sua trama di luce e ombre, di colori e offuscamenti. Il lavoro sui movimenti dei personaggi, sul ritmo delle apparizioni, sull’abitare lo spazio scenico è quello di una danza, mentre le voci ci portano dal canto alla risata, dalle domande esistenziali al puro intervento comico. La scrittura scenica, a sua volta, attraversa un caleidoscopio di esperienze e di saperi e alterna lirismo e commedia fino a strizzare l’occhio al teatro contemporaneo come nell’intervallo tra i due atti, quando la presenza interlocutoria e abissale delle due ragazze con una maschera di legno si manifesta davanti al pubblico, mentre una voce fuori campo recita una lezione di tedesco, cedendo solo al nettare di un canto che a un certo punto si leva.

Sul finale, come uno squarcio su un mondo passato, la copertura inferiore del teatrino si solleva e ci rivela gli artisti di questa Baracca, in un momento di riposo dopo aver appeso i burattini ai loro sostegni. Un’immagine a ritroso, che condensa il tempo nell’arco di un instante mentre ci racconta una storia perduta. Il teatrino è finito ma la magia rimane, ed è quella di un’arte complessa, fatta di artigianato e dell’essenza misteriosa della bellezza che il Teatro Medico Ipnotico sa distillare come pochi altri.

Lucia Oliva