I bambini e la verità del teatro. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 17 maggio 2018 al 20 si svolge fra Bari e Matera la ventunesima edizione di Maggio all’infanzia, una delle rassegne più auterevoli nel panorama del teatro ragazzi. Abbiamo incontrato la sua direttrice Teresa Ludovico, del Teatro Kismet, storica realtà che produce il festival. Con lei abbiamo discusso del programma e degli intenti che lo muovono.

Ci può presentare questa edizione di Maggio all’infanzia?

Si tratta di un’edizione particolare, siamo alla ventunesima, ormai siamo diventati adulti! Ho scelto un concetto guida per muovermi nel labirinto del festival: cammina cammina. Mettersi in cammino perché siamo sempre nel mondo della fiaba, dell’archetipo, perché parliamo d’infanzia e i bambini sono destinati a fare un lungo cammino. Cammina cammina perché gli operatori e le compagnie fanno un lungo viaggio per raggiungerci: noi siamo nel profondo sud! Il festival stesso si è spostato in altri luoghi, prima di tutto già da tempo ha creato un ponte con Matera, una città che amiamo molto e alla quale ci sentiamo molto legati per diverse ragioni; anche in previsione del 2019, Matera capitale europea della cultura, sembrava interessante dialogare con questa città. Un’edizione particolare del Maggio all’Infanzia, dunque, che andrà quasi ad anticipare quello che faremo nel 2019. La seconda novità è che abbiamo introdotto anche delle compagnie internazionali perché, volendo dialogare con Matera, ci è sembrato interessante coinvolgere degli artisti di altri Paesi, altro concetto guida del cammina cammina…

Il motto cammina cammina ha orientato anche la scelta degli spettacoli?

Il criterio importante quando si scelgono gli spettacoli è la qualità. Ovviamente non è possibile imbattersi ogni anno in dei capolavori perché gli spettacoli sono delle creature vive e gli artisti sono persone che cercano. A volte, anche compagnie che da anni ricercano sul tema dell’infanzia possono avere proposte più fragili. L’ambizione del festival, però, non è sempre quella di presentare spettacoli perfetti, ma lavori che abbiano qualcosa di vivo, delle domande, delle necessità. Possono essere proposte compiute o ancora alla ricerca di una strada per definirsi, ci arrivano molti lavori a metà del cammino, abbiamo moltissime prime e spesso non vediamo il prodotto già confezionato, cerchiamo quei percorsi che intercettino un’infanzia in movimento e che non si accontentino di un’idea astratta della crescita. La differenza è proprio tra chi ha solamente un’idea dell’infanzia e chi invece si pone per davvero in contatto con essa.
Ci sono, tra le altre cose, le grandi fiabe scritte e ripensate per i bambini, la sfida di ogni compagnia consiste nel cercare di utilizzare un linguaggio consono ai bambini di oggi. È molto interessante il Pollicino del Teatro della Tosse, che affronta la paura del distacco; o anche Scarpette Rosse di Biboteatro su testo di Emanuele Aldrovandi, uno spettacolo che ho scelto perché mi piaceva l’idea di vedere come un giovane drammaturgo potesse affrontare per la prima volta un testo dedicato all’infanzia. Secondo la sua lettura sono già le scarpe la strada da percorrere per diventare grandi. Un’altra fiaba presente nella vetrina di Bari è il Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale dove il vero protagonista è il lupo, un lupo che non vince ma che non muore nemmeno. Lo spettacolo è quasi senza parole e il regista ha lavorato con attori, acrobati e danzatori pugliesi. Un secondo tema è quello del rapporto con la musica che ritroviamo ne I Musicanti di Brema, uno spettacolo-concerto di Fabrizio Pallara molto stimolante per i bambini e in Concerto Fragile di Antonio Catalano, una proposta dedicata ai piccolissimi in cui gli oggetti quotidiani, messi in relazione con la natura, sono sempre al centro della scena.
In programma troviamo anche spettacoli ispirati a grandi romanzi di formazione: Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini, un viaggio nella foresta che faremo, insieme, attraverso gli occhi di un piccolo lupetto, Le nuove avventure di Bruno lo zozzo, ispirato al romanzo di Simona Frasca, una storia d’amore del Granteatrino proposto con il linguaggio dei burattini e Mio fratello rincorre i dinosauri con Christian Di Domenico, un narratore eccellente. In Molsa della compagnia Thomas Noone Dance, ispirato all’omonimo libro di David Cirici, sulla scena dei danzatori muovono delle marionette abbastanza grandi, mettendo in scena la storia di un bambino e del suo cane separati dalla guerra e che alla fine si rincontreranno. La casa del contemporaneo, invece, porta un testo che di solito propone agli adulti, TomCat, in cui si racconta lo stato d’animo di una ragazzina che sente di essere trattata come una cavia. Tra le “grandi narrazioni” c’è poi uno spettacolo di Flavio Albanese, Canto la storia dell’astuto Ulisse in cui delle sagome molto belle, realizzate da Lele Luzzati, dialogano con le ombre in un misto di linguaggi che prevede anche la narrazione. Questo è quello che accadrà nella vetrina di Bari. A Matera, invece, una città priva di teatri, è stato necessario ospitare spettacoli più agili come come quello del Circo El Grito, una compagnia di circo contemporaneo molto interessante.

Prima parlava dell’infanzia in movimento, un concetto molto affascinante. Come si intercetta? Quali sono le occasioni, i luoghi, dal punto di vista del teatro ma anche della nostra società in generale, per mettersi in ascolto dell’infanzia e capire quali sono le sue domande, i suoi dubbi?

Un’altra caratteristica di questo festival è che oltre alla vetrina ci sono tanti altri spettacoli in tanti altri luoghi e tante altre occasioni per intercettare questa infanzia in movimento. La caratteristica del teatro per l’infanzia, a differenza di quello per gli adulti, è che il bambino non sceglie di andare a teatro, ma c’è qualcuno che è intermediario. Noi cerchiamo tutto l’anno, e anche durante il festival, di coltivare dei rapporti speciali con chi può portare i bambini a teatro. Prima di tutto le insegnanti. Il festival prevede infatti sia spettacoli pomeridiani che matinée, per permettere alle insegnanti di portare i bambini. Chi muove questa infanzia sono appunto i genitori e le insegnanti e per le queste ultime cerchiamo tutto l’anno di costruire dei percorsi di visione attraverso il grande sostegno della Casa dello spettatore con Giorgio Testa e i suoi bravissimi collaboratori. Ogni anno attraverso questo percorso di formazione chiamato Esplorazioni cerchiamo di accrescere nelle insegnanti una maggiore consapevolezza del mondo dell’infanzia, ponendoci domande per noi fondamentali: come guardare uno spettacolo destinato ai bambini? Che caratteristiche ha? Come leggere uno spettacolo da sottoporre ai bambini? E abbiamo un gruppo veramente nutrito: sia pugliese che anche campano, perché anche il Teatro delle Nuvole (che fa parte della Fondazione SAT) fa anche un grandissimo lavoro. Saranno presenti al festival le insegnanti di Napoli, che durante l’anno hanno frequentato i corsi della Casa dello Spettatore e che quindi possiedono già una propria pratica di visione. Si diventa in qualche modo “complici”: gli insegnanti non subiscono più passivamente delle scelte ma ne sono partecipi in tutto e per tutto. Questo è un obiettivo che si sta cercando di raggiungere passo dopo passo. Infatti, quando trent’anni fa il Kismet ha iniziato il proprio percorso legato al teatro ragazzi fin sa subito abbiamo coinvolto gli insegnanti attraverso laboratori a loro dedicati. All’epoca si trattava veramente di iniziative insolite. Con gli anni però si è formata un’intera generazione di insegnanti che è diventata una generazione di veri e propri attivisti, creando associazioni come “Educhiamoci alla pace”. Ora, tutti questi insegnanti sono andati in pensione e noi qualche tempo fa ci siamo trovati nel bel mezzo di un passaggio generazionale senza sapere più con chi dialogare. Tant’è che c’è stato anche un grande calo di scuole che si interessavano al teatro ragazzi. Ecco che abbiamo dovuto reiniziare tutto da capo: ci siamo rimessi in movimento e abbiamo iniziato questo percorso con la Casa dello Spettatore, per ristabilire un contatto con chi lavora nel campo dell’educazione.
Quindi è chiaro che l’insegnante è un intermediario fondamentale. Dall’altra parte ci sono i genitori, che cerchiamo di intercettare in vari modi. Durante ogni spettacolo destinato alle famiglie, per esempio, realizziamo spesso nel foyer eventi, magari piccoli laboratori, che abbiano a che fare con il tema dello spettacolo, cercando di coinvolgere bambini e genitori.
Insomma, se vogliamo che questa generazione di “piccoli” entri in relazione con il linguaggio del teatro occorre preparare la strada. Non è sufficiente “prenderli” e metterli a guardare un’opera dal vivo senza alcuna preparazione. Tra l’altro la grande questione del teatro oggi è che i bambini sono molto abituati all’uso del cellulare, dell’i-pad, etc. sin da quando hanno pochissimi mesi di vita, per cui sono propensi a distrarsi facilmente. Quindi noi come operatori del settore abbiamo il compito di “conquistarli”, inventandoci delle modalità inedite di “teatro vivo”.

Da questo punto di vista, il contesto pugliese ti pare un “terreno fertile”?

Io penso che il teatro Kismet, proprio perché è una delle realtà teatrali più vecchie di tutto il meridione e d’Italia a lavorare attorno alle domande del bambino, in Puglia abbia fatto scuola. È quindi bello vedere come dall’esperienza del Kismet siano fiorite tantissime compagnie, che hanno fatto proprie le nostre modalità di relazione e coinvolgimento. Adesso esistono anche altri festival che si sono generati per “gemmazione” e che creano una molteplicità di occasioni d’incontro in tutta la regione, non solo da noi a Bari come poteva essere una volta. Ci sono insomma una miriade di attività che pongono grandissima attenzione all’infanzia, quindi i bambini sempre e ovunque, o la mattina attraverso i programmi scolastici o le domeniche pomeridiane o durante tutte le feste comandate, hanno l’occasione di praticare il linguaggio del teatro sia come spettatori che come partecipanti attivi, visto che tutti noi proponiamo corsi di ogni tipo dagli 0 anni fino all’adolescenza.
Tra l’altro il 13 maggio abbiamo realizzato Unduetrè/La cicogna naturale, una giornata particolare che abbiamo dedicato ai piccolissimi che ha coinvolto oltre ai bambini anche tutte le famiglie. Abbiamo offerto dunque la possibilità di trascorrere una giornata intera con laboratori di arte, musica, teatro, letture con momenti di confronto, riflessioni sulla genitorialità e l’educazione, di attraversare una molteplicità di domande legate all’infanzia e di farlo insieme. Il 15 maggio abbiamo costruito un grande corteo di apertura, che ha attraversato le vie della città dedicato ai “Mostri marini” con la partecipazione di 500 bambini che hanno sfilato in centro. Fra questi ultimi, circa un centinaio provenivano da scuole materne. Capite bene come dietro al festival ci sia un lavoro che si sviluppa lungo il corso di tutto l’anno, che lo rende un momento di grande coinvolgimento e di festa collettiva per la città intera (processo che stiamo cercando di portare anche a Matera). L’idea non è dunque quella di una vetrina, ma è una concezione più ampia che viene nutrita in ogni momento con varie iniziative che hanno nel Maggio la propria conclusione.
In fondo, questi 500 bambini che ne sanno del Maggio all’infanzia. Sanno che per tutto l’anno preparano qualcosa che ha un suo compimento, dopodiché andranno a teatro. Assoceranno dunque il lavoro prolungato con quello che gli spettacoli che verranno a vedere, creando una specie di continuum e facendo del festival anche un risultato del loro lavoro.

Parlava della necessità di dover coinvolgere spettatori – i bambini – abituati a modalità di fruizione sempre più rapide e veloci. Forse una chiave sta nell’ironia e nel divertimento, che ci sembrano centrali nel Teatro Ragazzi. Ma come evitare che scadano in mero intrattenimento?

Io penso che dipenda unicamente dalla professionalità degli artisti che lo praticano. Un buon artista è una persona con delle competenze, che è in contatto con il mondo e ha specifiche missioni: io faccio l’artista perché, in qualche modo, voglio testimoniare il mio sguardo sul mondo di oggi. Abbiamo una grande responsabilità quando facciamo spettacoli per bambini, perché i bambini sono gli uomini, le donne e i cittadini del futuro. Quindi il divertimento è una condizione: quando si va a vedere qualcosa ci si predispone già a uno stato di godimento, io vado a teatro perché voglio avere il piacere dell’incontro. Come ne uscirò da questo incontro non lo posso sapere e quelli che dicono a prescindere “io lo faccio per divertire” indicano già qualcosa di stereotipato; cosa significa far divertire qualcuno? Parliamo di idea del divertimento. Il teatro è qualcosa che accade lì, c’è un artista – una persona che ha passione per quello che sta facendo, che si impegna quotidianamente e che è consapevole dei propri mezzi – c’è una storia da raccontare, un linguaggio specifico, e c’è un’attenzione particolare verso chi fruisce lo spettacolo. Dovendo parlare di un pubblico bambino credo che il linguaggio della semplicità, del rigore e della perfezione sia importante: bisogna utilizzare in maniera chiara e precisa i simboli, perché quando ci rivolgiamo ai bambini noi contattiamo degli archetipi che, se confusi e mal gestiti, possono fare male; ogni elemento muove qualcosa. Di fronte alla confusione il bambino si distrae e quindi qualcosa non sta funzionando. Ho visto centinaia di spettacoli e mi sono fatta questa idea: non esiste un pubblico “difficile”, esiste un pubblico che non è abituato. Però se uno spettacolo è ben costruito nella sua semplicità, nel suo rigore, nella sua autenticità, funziona, è recepito e accolto; ciò che accade sulla scena deve essere autentico, non deve essere una presa in giro, non deve essere infantile, bambinesco: se tutto questo c’è, anche il bambino c’è, l’aura tra il bambino che è lì e l’artista che è dall’altra parte è un filo vero. Loro sono animaletti, nel senso buono della parola: quando c’è qualcosa di vivo lo acchiappano. La nostra responsabilità è di metterli nelle giuste condizioni.

Ritornando al concetto del buon artista, che esprimendosi in maniera autentica rende lo spettacolo vivo e quindi capace di catturare il pubblico, pensiamo ai suoi spettacoli tout public. Si può dunque realizzare uno spettacolo “per” bambini e ragazzi ma che, pur tenendo conto del proprio destinatario principale, possa arrivare a un pubblico di tutte le età?

Uno spettacolo fatto bene è uno spettacolo per tutti. I francesi dicono tout public, in realtà noi diciamo per tutti. Come dovrebbe essere. Uno spettacolo di Peter Brook, per esempio, è veramente uno spettacolo per tutti. Verso la metà del suo percorso lui invitava i bambini alle prove perché li considerava gli unici in grado di restituire agli attori la verità su quello che stavano facendo. Se lo spettacolo reggeva la comicità del bambino funzionava; a lui non interessava invitare gli intellettuali, per me capire questo è stata una grande lezione. Il bambino è lì e sei tu a dovere entrare in relazione. Inoltre Brook ha sempre utilizzato la semplicità: una cosa semplice non è una cosa banale, ma chiara; la cosa importante è costruire i livelli. L’ultima produzione che abbiamo realizzato in Giappone, Pinocchio, è uno spettacolo stratificato che a Tokio viene proposto sia la mattina per le scuole che la sera con un pubblico esclusivamente adulto.
In Italia tendiamo a sezionare molto (teatro ragazzi, teatro infanzia)… Certo i destinatari devono essere individuati e infatti uno spettacolo per adulti di un certo tipo forse non è sempre il caso di proporlo a un bambino. Il tema della morte, per esempio, si può affrontare con i bambini, ma attraverso un linguaggio consono, piuttosto che sottoporli a qualcosa di violento o feroce. La differenza sta nel tipo di linguaggio che si utilizza per portare in scena una storia universale. Quindi uno spettacolo per tutto il pubblico è quello in cui si propone una grande storia costruita su vari livelli: il bambino ne coglie un primo (noi lo sappiamo, le grandi storie hanno ampia profondità), ma anche l’intellettuale, se fa uno sforzo, può trovare in uno spettacolo come Pinocchio delle domande, degli stimoli, insomma qualcosa che abbia a che fare con un momento della propria vita.

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali 




L’universo è un materasso. Il tempo del teatro

Per Maggio all’Infanzia 2017 , al Teatro Kismet di Bari abbiamo visto L’universo è un materasso, di Francesco Niccolini, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Recensione.

È proprio vero che quando ci si diverte il tempo trascorre più in fretta e quando ci si annoia non c’è modo di mandare avanti le lancette. Il teatro ci insegna, volta per volta, anche questo, che il tempo che ci prendiamo per assistere a uno spettacolo è di certo sottratto ai ritmi e alle logiche del vivere quotidiano, riorganizzato dentro codici e sistemi che sono e resteranno misteriosi. Invece di adeguarsi alle frenesie del presente, il teatro conserva l’opportunità di un’alternativa, uno iato che permetta di respirare, voltarsi indietro, perdersi. E a volte ritrovarsi.
È successo con L’universo è un materasso (e le stelle un lenzuolo), scritto da Francesco Niccolini per la regia e la potente presenza scenica di Flavio Albanese. La Compagnia del Sole (di cui avevamo parlato anche qui) ha la grande capacità di attraversare i generi in maniera orizzontale, tenendo vivo quell’artigianato della scena che si compone di pochi e vincenti elementi.

Lo spazio del Teatro Kismet di Bari si offre a una platea gremita di adulti e bambini, in una delle giornate della ventesima edizione di Maggio all’Infanzia diretta da Teresa Ludovico. Gli spalti rumoreggiano, le teste dei più piccoli si voltano di qua e di là in un buio che rende tutti sagome. Ma da quando luce si accende a quando si spegnerà per l’ultima volta, l’attenzione è tutta per Flavio Albanese.
L’attore pugliese indossa un completo scuro su una maglietta, bianca come i sottili guanti che vestono le mani. La folta barba castana macchiata d’argento e i lunghi capelli mossi lo disegnano nei panni perfetti di un personaggio della mitologia. Eppure non è solo questo. Per parlare del tempo, la scrittura rapida e precisa di Francesco Niccolini si fa bacchetta magica che tramuta costantemente l’unica figura sul palco: ora è narratore puro, presto diverrà Crono, messo “sotto processo” da tutti coloro che, nei secoli, si sono posti le grandi domande sul mondo.

Il racconto si snoda in quattro capitoli: dalla Teogonia di Esiodo attraversa l’epoca aristotelica, quella copernicana e infine approda a quella contemporanea, in cui calcoli irrazionali sembrano riportare nella mente degli scienziati lo stesso caos che aveva spinto Crono a separare la madre Gea dal padre Urano, dividendo finalmente la terra dal cielo. Alla grande razionalità di questa struttura drammaturgica si mette al servizio un vero e proprio mattatore, in grado di percepire le minime frequenze di attenzione del pubblico, di far dialogare fino a quattro personaggi grazie a minuscole variazioni nel registro della voce e di disegnare nel vuoto interi pezzi di universo.
L’immagine del materasso e del lenzuolo, allora, non è solo un modo per spiegare che il tempo ci può avvolgere, ma risuona nella grande elasticità di questa prova scenica, basata – ancor prima che sulla didattica – su una relazione di divertimento. Niccolini e Albanese non mettono a punto un’opera di puro intrattenimento, ma collaborano nel racchiudere una quantità (forse addirittura eccessiva) di informazioni dentro la vitalità del corpo in scena, ben sostenuto dalla semplice scena di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto, una trapunta nera che – come scandendo scena per scena – si illumina come un puntaspilli di stelle.

Il grande pregio di questo lavoro sta nella sapienza con cui i mezzi del teatro vengono impiegati in un’operazione di accompagnamento rispettoso dei ritmi e dell’immaginario del bambino e, insieme, dell’adulto. Il viaggio – pur così ampio nel raggio cronologico e a volte complesso negli snodi essenziali – procede senza alcuna concessione alla concitazione esagerata né all’esasperazione di pose e macchiette, correndo piuttosto una maratona eccezionalmente regolare, che porta quasi di sorpresa alla constatazione finale.
Le nuove frontiere della fisica quantistica e della teoria della relatività sono in grado, tramite il pensiero umano, di uccidere ogni dio e, forse, ogni tiranno, restituendo il controllo di un caos generativo alla capacità umana per eccellenza: la fantasia. In questo appassionante viaggio interstellare, allora, il teatro è la forma delle forme, lo spazio dove tutto compare e tutto scompare. «Le cose esistono solo se le fai esistere; le cose si vedono solo quando le illumini».

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

Teatro Kismet, Bari – per Maggio all’Infanzia 2017.

L’UNIVERSO È UN MATERASSO (E LE STELLE UN LENZUOLO)
Diretto e interpretato da Flavio Albanese
Scritto da Francesco Niccolini
Collaborazione artistica e Luci Marinella Anaclerio
Scena da un idea di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto
Assistente alla regia Vincenzo Lesci
Foto e Video DIANE Ilaria Scarpa­ Luca Telleschi
Consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti
Consulenza musicale Roberto Salah-addin ReDavid
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: Piccolo Teatro di Milano, Ammirato Culture Club House, Santarcangelo dei Teatri, Alcantara Teatro e Marta Marrone




Il diritto del bambino al rispetto. Seconda istantanea da Maggio all’Infanzia

Un attore sul palco indossa un abito dai colori spenti, tutto lo spazio è suo, lo guardiamo raccontare la storia di Don Lorenzo Milani, la sua voce è amplificata da un microfono ad archetto, la voce interrompe il silenzio, il campo visivo è tutto aperto, la sua figura sta al centro di un piccolo boccascena. Racconta da attore rivolgendosi a noi spettatori, a tratti interpreta “cadendo” nel personaggio, secondo gli essenziali pauperitstici e ricorrenti stilemi della performance epica di narrazione. Racconta di Lorenzo mettendo in luce soprattutto i suoi burrascosi rapporti con la chiesa, la cacciata da Calenzano, gli strali dei cardinali, con i tentativi di isolamento che finirono per aumentare la risonanza dell’azione del parroco, almeno nel tempo successivo alla sua morte. Tratteggia velocemente il suo “fare scuola”, dove a turno si diventava maestri e allievi perché la sapienza appartiene a tutti, dimostrando che dal confronto e scontro e dialogo “vero” con i bambini non possiamo che imparare tutti, quotidianamente. Guidare qualcuno e che nessuno resti indietro, ci ricorda Don Milani nel racconto appassionato dello spettacolo Cammelli a Barbiana di Inti / Thalassia (di e con Luigi D’Elia, scritto insieme a Francesco Niccolini e diretto da Fabrizio Saccomanno). Il primo passo necessario è guardare a noi, al nostro rapporto con i bambini, alle parole che usiamo per parlare con loro, ai discorsi e alle immagini che mettiamo loro di fronte agli occhi. Se “fare scuola” è un modo per “liberare”, allora raccontare attraverso il teatro dovrebbe essere un tentativo di liberazione con altri mezzi. Ogni opera d’arte che affermi di voler dialogare con bambini e ragazzi dovrebbe avere da qualche parte un nocciolo che lavora per “liberare” i più giovani, almeno dai gorghi uniformanti dell’intrattenimento che spegne ogni domanda sulle bruttezze del mondo, dalla solitudine innescata dall’uso solipsitico dei social media come surrogati delle relazioni (famigliari, in primis), ma anche dalla tensione fruitiva frammentata imposta dai mille “tasks” dei nostri dispositivi, quando predomina il lato che disincentiva la capacità di autonomi procedimenti di simbolizzazione e interpretazione. Che senso ha, un’arte per l’infanzia, se almeno in parte non prova a coltivare questo spirito?

Grazie al meritorio lavoro delle Edizioni dell’Asino, negli ultimi anni è stato riscoperto un fondamentale testo del medico e pedagogo Janus Korczak, vissuto durante la persecuzione razziale e morto in campo di sterminio. Il “diritto del bambino al rispetto” è una delle sue formule più note, presenti in scritti dove si afferma che “piccolo” non può né deve essere sinonimo di minore, o mancante, o debole (qui si possono trovare diversi materiali di approfondimento, come una lettura del testo di Moni Ovadia in mp3). Citiamo Korczak perché alcuni spettacoli del cosiddetto teatro ragazzi sembrano dimenticare il principio del rispetto, ma anche le generali idee di liberazione di Don Milani, producendo linguaggi non all’altezza della grande sfida dell’infanzia. Si potrebbe descrivere così questo principio: siamo a teatro insieme a bambini e ragazzi, quello che vediamo riguarda noi come loro, ci entreremo con domande diverse ma il mistero del teatro, la sua alterità, la sua ricerca di senso devono investirci ugualmente. Fate vedere ai bambini quello che vorreste vedere voi, diremmo con una massima quasi evangelica. Tenendo anche presente l’universo audiovisivo nel quale siamo tutti immersi, prodotto maturo dell’ideologia dei nostri tempi, il consumo, per il quale conta prima di tutto intrattenersi, divertirsi, cazzeggiare e mai fermarsi a pensare e dubitare.
La coppia di bambini raccontata in Fratellino e sorellina di Ruotalibera mostra una condizione infantile scimmiottata da due attori adulti con mossettine del corpo e vocine sottili, un fingersi bambini senza giocare a farlo. I due si riprendono con una telecamera “del padre” che rimanda un fondale sbiadito per carenze tecniche; lo spazio è delimitato con semplicistiche linee verdi sagomate dalle luci del palco, ogni tanto le azioni sono inframezzate con canzoncine televisive che risultano fuori tempo massimo, dalla D’Avena a Happy Days. Perché presupporre che al bambino basti così poco? Infatti nessuno ci crede e la sala rumoreggia senza sosta.

Arabesk è la produzione del Teatro Abeliano, per la regia di Vito Signorile, lavoro dove la schematicità narrativa si basa sulla stessa mancanza di rispetto aggravata da un’enfasi didattica. La nonna sul lato cuce i fili del tempo scenico, dentro a un ruolo di narratrice che semplifica l’arte del racconto come se chiunque potesse dire: “ora ti racconto una storia!” e risultare credibile, facendo comparire attori che mimano personaggi sbozzati, trattati come macchiette. Ci sono gli animali di Pierino e il Lupo, nella prima parte, con le peripezie fiabesche e con il lupo che grida gracchiando di essere cattivo, il gatto che parla un inglese maccheronico, l’oca cicciottella che cinguetta con la voce stridula, l’uccellina che sorride come se il mondo fosse bello roteando le braccia contenta, con Pierino paffuto, le gote rosse, illuso e sorridente e molleggiato. La nonna è impegnata a spiegare la corrispondenza fra le tracce audio di Prokof’ev e i diversi personaggi, in una lezioncina che corre parallela alle vicende. Tutti sappiamo come andrà a finire e chi verrà mangiato, capiamo da subito che entreranno in scena i cacciatori e risolveranno vicende narrate assecondando un registro recitativo semplificato, smaccatamente ironico, quasi autoparodico. È questo mondo narrativo che stiamo preparando per i nostri bambini? Staranno dentro a questa melassa dove tutti fanno battute e nessuno fa ridere, dove il lupo è cattivo perché è la fiaba che lo prevede (ma a ben vedere è buono anche lui, suvvia), dove il teatro si confonde con uno show televisivo che scimmiotta il musical, come nella seconda parte giustapposta alla prima e introdotta dalla nonna? Probabilmente sì, ed è un grande problema. Il secondo tempo cambia ambientazione ma non registro, è un fantasy ispirato a L’apprendista stregone, attori e attrici entrano nei panni di indispettite scope che allagano le stanze rispettando una maldestra formula magica del mago apprendista, e ci chiedono di credergli perché indossano bizzari costumi e si muovono a scatti senza nessuna invenzione corporea.

Un esempio di “rispetto” lo si è visto a nostro parere in La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, una scrittura di Fabrizio Pallara e Valerio Malorni, con quest’ultimo in scena. L’attore interpreta un uomo che racconta del se stesso bambino, e del suo “sprofondamento” nel bosco, un al di là dello specchio topos di diverse peripezie fiabesche, come accade per esempio nella versione animata “boschiva” di Hayao Miyazaki in Il mio vicino Totoro. Dobbiamo entrare in un bosco, ci dice l’uomo, invitandoci a sospendere l’incredulità, insieme, bambini, ragazzi e adulti. Lui sta in una scena che odora di resine e che sparge effluvi, riempita di ceste, latte, tronchi, ramazze, cappelli, pentole, ganci, taniche, radio. Ha uno strano accento sudamericano, dentro al bosco incontrerà spiriti maligni che daranno il via a nuove avventure e visioni, dietro a un velo appariranno fantasmi, animali fantastici, occhiacci di fuoco, udiremo gufi e vedremo gorilla, il tutto in uno spazio a portata del nostro sguardo, concreto e tangibile eppure trasfigurato, mentre un percussivo quasi costante riempie l’ambiente sonoro. Qui stiamo tutti (grandi piccoli e medi) di fronte a un rito di passaggio sciamanico, in ascolto di un romanzo di formazione magico, rapiti da quella presenza, scordandoci a volte delle tappe narrative, degli incontri, delle prove, insomma della “storia” che si dipana di fronte a noi. Ed è forse qui l’unico nodo che può essere sciolto del lavoro, anche se i nodi forse non vanno mai del tutto districati.

 

Lorenzo Donati