Essere se stessi, o la rivincita della ferinità

Cosa si cerca in uno spettacolo teatrale rivolto alle nuove generazioni? Quando un adulto porta un bambino a teatro (perché il bambino è portato e non può scegliere di recarvisi da solo come lo psicologo e studioso Giorgio Testa specifica) in base a cosa sceglie quale rappresentazione vedere? Deve essere un titolo classico (una fiaba appartenente al repertorio per l’infanzia…), affrontare un tema caldo per la società odierna (il bullismo o l’utilizzo delle nuove tecnologie…), trattare concetti utili alla crescita personale del bambino (altruismo, comprensione, rispetto…), fargli capire quale sia il suo ruolo nel mondo? Spesso gli adulti chiedono allo spettacolo teatrale una predisposizione alla pedagogia, dove per quest’ultima si intende “la disciplina che studia i problemi relativi all’educazione e alla formazione dell’uomo, avvalendosi dell’apporto di numerose altre scienze allo scopo di indicare i principi, i metodi, i sistemi su cui modellare la concreta prassi educativa” (fonte Treccani). Il teatro diventa quindi un viatico attraverso cui fornire al bambino alcuni strumenti utili che come una bussola possano guidarlo a districarsi nel mondo, lo rendano capace di relazionarsi con le altre persone, di sviluppare un comportamento di rispetto verso se stesso e verso gli altri. Ma non è solo questo – che potrebbe far apparire il teatro come una sorta di semplice stampella in soccorso all’educazione (e forse sembrare didascalico – e in proposito rimandiamo a una piccola inchiesta. Il teatro tocca la sfera emotiva, offrendo allo spettatore (bambino, ma anche adulto) molto di più che questioni su cui apprendere lezioni e interrogarsi, perché lo si vive sulla propria pelle e diventa un dispositivo potente, diretto: passa attraverso un linguaggio prorompente, è un corpo a corpo che arriva prima della stessa parola, si serve di immagini evocative che aprono a un’alterità o ad altri mondi possibili, forse più gentili, in cui la bellezza è un valore aggiunto da rispettare, da invocare.

Al festival Maggio all’Infanzia abbiamo assistito a diversi spettacoli che suggerivano ai più piccoli con quale spirito affacciarsi alla vita. Se da una parte il tema del coraggio e della paura sono stati ampiamente indagati dall’altra parte abbiamo notato come molte compagnie abbiano esplorato il bisogno di spingere i bambini a essere se stessi. Ne Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo, spettacolo indicato dai 4 agli 8 anni, i simpatici pupazzi creati da Lucrezia Tritone, animati da Anna Chiara Castellano Visaggi e Giacomo Dimase, diretti a loro volta da Marianna Di Muro – affrontano in maniera semplice ed efficace, il tema dell’amore. Come tutti i bambini che si rispettino anche il piccolo Bruno pone infinite domande a tutti quelli che lo circondano, i genitori, gli amici e i maialini suoi compagni, per capire come poter essere accettato dagli altri. Utilizza una narrazione lineare – senza troppe sorprese – facendo leva su personaggi leggeri e divertenti che catturano i bambini in sala che ridono, partecipano a accettano alla fine Bruno – come i suoi amici  e soprattutto la sua nuova fidanzatina – nonostante la sua avversione all’acqua e al sapone. Non c’è dentifricio, capelli in ordine né vestiti puliti che tengano se questi piegano e trasformano la personalità: in fondo, sembra suggerirci lo spettacolo, chi ti ama lo fa per ciò che sei e non per ciò che vorresti sembrare. Insomma il messaggio finale di essere se stessi fino in fondo paga sempre, ci dice Bruno che Zozzo era e Zozzo rimane tra i gridolini entusiasti dei bambini che comprendono come l’essere amati vada al di là di ogni apparenza possibile, (nella speranza che non boicottino l’uso della saponetta per emulare il loro nuovo amico pupazzo).

Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo

Si confronta invece con una drammaturgia grottesca Emanuele Aldrovandi che compone Scarpette rosse per BIBOTeatro, con la rigorosa e pulita regia di Andrea Chiodi e le due brave ed esplosive attrici Alessia Candido e Miriam Costamagna. Le due scarpette rievocano la storia che le ha portate a far liberare, in una ragazzina che le aveva indossate, una energia irrefrenabile e incontrollabile senza però considerare le conseguenze negative che questa avrebbe portato alla bambina stessa (costretta a perdere i suoi piedi) e alla persona a lei più vicina (che dopo averla accudita si ritrova a morire in solitudine). E allora qui, in uno spettacolo proposto dai 9 anni, Aldrovandi spinge verso risultati estremi l’essere se stessi a tutti i costi, senza reprimere in alcuna misura le proprie pulsioni. La scrittura del drammaturgo emiliano è, come ci ha abituato anche nei suoi lavori “per adulti”, una scrittura insistente e insistita, qua e là scattante e nervosa, che cade “a goccia” sul palco scavando lo spazio e assumendo come motore interno le contraddizioni della volontà. Repressione contro pulsione, responsabilità contro libertà, riverenza contro autodeterminazione. La bambina, che a livello logico-narrativo è la protagonista della storia, viene ridotta a un pupazzo gigante inanimato mentre le scarpette rosse, i due oggetti, sono impersonate da attrici in carne e ossa. È una sorta di “feticismo scenico”, che giustamente simboleggia un certo incancrenirsi della capacità di giudizio e scelta, la cristallizzazione del percorso di crescita su un solo e unico atto, la danza sfrenata, che piano piano diventa esasperazione, rito macabro, destino tragico.

Perché – sembrano dirci alcuni degli spettacoli di Maggio all’Infanzia – la “scoperta di se stessi” non è certo un pranzo di gala. Si tratta di un processo che libera energie dionisiache, potenzialmente pericolose e disgreganti. Occorre andare sempre contro qualcuno o qualcosa, siano le norme dell’apparenza (Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo) o le rigidità della morale comune (Scarpette rosse). Essere se stessi significa lottare?
I musicanti di Brema del Teatro delle Apparizioni dà a queste suggestioni precisi connotati politici. La storia della sgangherata “combriccola animale”, protagonista della fiaba dei fratelli Andersen, è affidata in scena al duo Bartolini/Baronio, che si incarica di arricchire la narrazione di voci, rumori, versi e loop chitarristici. C’è infatti la sovrapposizione fra racconto orale recitato e forma-concerto, per cui le vicenda e le gesta dei “musicanti” si intrecciano con canzoni live ed effetti sonori. In generale, perlomeno nei momenti più riusciti dello spettacolo, sono proprio due diverse sintassi a fondersi insieme: nel momento in cui gli animali fanno irruzione nella casa dei briganti, una delle scene-madre della fiaba, ecco che viene rotta anche la scenografia in un tripudio di luci e fumo sparato sul palco, come nel più classico “culmine” da concerto-rock. E a partire è la più classica delle canzoni di dissacrazione e ribellione nichiliste: Anarchy in the UK dei Sex Pistols. I padroni della fiaba, dai quali le bestie scappano, diventano allora i “padroni” contro cui si dirige la lotta di classe (verso la fine dello spettacolo vengono proiettate immagini che rimandano alle fabbriche e al mondo del lavoro odierno). Così il viaggio dei musicanti di Brema diventa un gesto politico, un romanzo on the road di stampo se non sessantottino perlomeno che affonda le radici nell’atmosfera beat (Che colpa abbiamo noi?, La mia banda suona il rock sono alcuni dei titoli suonati durante la messa in scena). Qualcosa che, per l’animalizzazione allegorica di vicende Politiche (con la P maiuscola), a tratti potrebbe ricordare due illustri precedenti: il classico La fattoria degli animali di Orwell e l’oramai altrettanto celebre Maus di Art Spiegelman.

Scarpette rosse

Essere se stessi non significa dunque guardarsi dentro, ma costruire delle alterità, proiettarsi verso un altrove utopico ma possibile. Anche se sembra paradossale, la “solitudine” (leggi: individualismo) è d’ostacolo, non d’aiuto, all’introspezione e alla scoperta di sé. Il filo concettuale di questi tre spettacoli pare dirci infatti che solo nell’incontro con l’altro, o meglio nella radicale spinta a volerlo “abbracciare” e comprendere, risiede il principio dell’essere se stessi.
Eppure, di quale Altro stiamo parlando? E in che modo esso viene evocato sul palco? Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo, Scarpette rosse e I musicanti di Brema sono proposte per certi versi antitetiche. La prima concepisce il diverso da sé come semplice relazione affettiva e interpersonale, facendo leva su una totale trasparenza e perfetta intelligibilità dell’approccio drammaturgico; le altre due rimandano invece a una dimensione oscura e inafferrabile dell’animo umano, che per Aldrovandi diventa un’energia irrefrenabile e scomposta con cui far “esplodere” gli elementi scenici in un processo parossistico, mentre per il Teatro delle Apparizioni è quasi la negazione dell’umano, nemmeno l’animalità ma una ferinità caotica e istintuale, che trova il proprio corrispettivo formale nella confusione di livelli e piani narrativo-scenografici (concerto rock, racconto, recitazione onomatopeica, etc.).
In generale, si intravede il rischio che procedimenti siffatti non riescano a reggersi da soli. Se, come accennavamo all’inizio, per pedagogia si intende appunto “bussola”, capacità di fornire al bambino strumenti per orientarsi, sembrerebbe che nel caso degli spettacoli di Marianna Di Muro, ma soprattutto di BIBOteatro e Fabrizio Pallara una tale istanza “educativa” non sia presente in scena ma venga rimandata a un momento del tutto “extra-teatrale”. Si evoca la sporcizia e il caos, si fanno riferimenti a immaginari politici abbastanza precisi e precisamente “schierati” che difficilmente risuoneranno nella mente di un bambino, lasciando però che tali elementi diventino preponderanti e non si risolvano nell’andamento generale del racconto. O, se lo fanno (come magari nel caso de Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo), restano comunque parzialmente ambigui rispetto al “valore” che noi spettatori dovremmo attribuirgli. Dicevamo che lo spettacolo mostra come l’amore vada al di là di ogni apparenza. Vero, ma ciò non toglie che Bruno sia rispetto alle convenzioni sociali un “diverso”, volendo anche un filo emarginato per via di questa sua diversità (che è, nella levità del racconto, la semplice abitudine di non lavarsi). Che farsene di questa abitudine, una volta che si è riscattati dall’amore e si viene accettati? Ribadire la propria diversità con orgoglio in quanto scelta oppure proclamarne l’insignificanza rispetto ad altre caratteristiche che ci accomunano? Similmente, pensando a Scarpette rosse, come consideriamo il coraggio della ribellione nel momento in cui ci viene mostrato che questo coraggio viene punito dall’autorità o dal “destino”?
Ma, d’altronde, dicevamo anche che un bambino viene portato a teatro, ed è forse giusto che uno spettacolo si assuma il rischio di rimanere aperto, di sottrarsi a una comprensione immediata demandando appunto ai vari “attori della mediazione” (scuola, genitori, operatori…) il compito di riempire dubbi e vuoti con ulteriori domande. Ricordandoci che non sempre trionfa il bene e che esistono situazioni in cui l’umano ha bisogno di soccombere alla “rivincita della ferinità” per rigenerarsi (e, pensando allo strano connubio di fiaba, animali e musica a tutto volume che è I musicanti di Brema, non è appunto il rock una delle massime e più scandalose rivincite della ferinità della storia?).
Ricordandoci che, infine, dobbiamo a volte guardare con sospetto al sentirci troppo “soddisfatti” e rasserenati a teatro. Per citare Walter Siti (e rimandando a un concetto di cui abbiamo parlato estesamente), «se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensione dell’eros contro il grigio della rinuncia?»

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




teatrodelleapparizioni e Bartolini/Baronio. Racconti dal futuro

FIABE DA TAVOLO

Lungo un lato della Sala Squarzina, il foyer al primo piano del Teatro Argentina di Roma, un tavolo basso è sistemato davanti a una sedia vuota; accatastate accanto ci sono quattro vecchie valigie; a vegliare su questa composizione un unico faro che getta brevi ombre. Davanti, la piccola platea ospita genitori e figli, questi ultimi raccolti a gambe incrociate su dei cuscini stesi a terra. Fabrizio Pallara guadagna la scena e spiega la natura errante della fiaba, parla di storie che fanno il giro del mondo. Poi siede, aziona con un tocco un invisibile interruttore e una musica ci accompagnerà nel viaggio.
Fiabe da Tavolo è un solo della compagnia romana teatrodelleapparizioni, inserito nel focus monografico Ritratto d’artista, che il Teatro di Roma dedica ad alcune compagnie del territorio ma attive a livello internazionale. Lo spettacolo sta facendo il giro del paese a raccontare favole antiche e moderne, celebri e nascoste, di fronte a un’attenzione davvero cristallina, sollecitata da un voto totale alla semplicità. Come già splendidamente in Il tenace soldatino di piombo – anch’esso incluso in questa monografica – Pallara innesta il compito dell’aedo in una sessione di gioco individuale, ma sempre attenta allo sguardo dello spettatore. Dalle valigie estrae piccoli oggetti, figurine in scala e materiale da costruzione, per comporre di fronte agli occhi di bambini e adulti un racconto animato gentile e però approfondito.

Il pesciolino d’oro di Puškin arricchisce la vita del povero pescatore e di sua moglie, esaudendo i desideri di lei che vorrebbero una casa più grande, poi un palazzo, poi un castello. Una struttura di mattoncini si monta sull’altra ingigantendo la prospettiva e lasciando i due omini sempre più piccoli. Hansel e Gretel lasciano vere molliche di pane, l’attore se le mangia facendo la parte degli uccelli, la casa di marzapane è un sacchetto colmo di caramelle e marshmallow che fa venire l’acquolina in bocca. Ma se i fratellini, scampati alla strega, troveranno la ricchezza vendendo dolciumi, ai bambini in sala viene offerta una singola pralina di cioccolato, per insegnare la misura.
L’atto di “pescare” dal repertorio tradizionale è funzionale a un’educazione dell’attenzione, che risolve in sottili ellissi di senso i nodi cardine della cultura popolare. Su questa operazione regna dunque un’atmosfera sommessa, divertita ma magica, il confine tra apologo e morale non è mai delineato in maniera didascalica e, soprattutto, alla lezione facile si preferiscono problematiche vivide, un’argomentazione retorica che stimola lo spirito critico.

Un religioso silenzio domina la platea, fino a quando, ad applausi già scrosciati, una bimba chiede che cosa contengano le altre due valigie. Pallara concede un bis – Tre porcellini quasi del tutto ritratti per immagini, con un mazzo di cartoline a descriverne il viaggio; paglia, bastoncini di legno e mattoncini a costruire le case; un baffo di cartone e il soffiare forsennato a materializzare il lupo – ma lascia chiusa la quarta valigia valigia, attorno a essa la curiosità di tutti. È tempo di andare. Qualcun altro, chissà dove, aprirà una nuova scatola, per ascoltarne la voce.

Sergio Lo Gatto

 

I MUSICANTI DI BREMA

È sempre stata una di quelle favole conosciuta a memoria dall’inizio alla fine, per quella consueta trasmissione orale e per le inconfondibili illustrazioni, ma tuttavia poco sorprendente per i bambini, il cui disinteresse è attribuibile, chissà, alla mancanza dell’elemento fiabesco, rappresentato da principi e principesse, streghe e mostri.
I musicanti di Brema è ora diventata occasione per l’incontro di due compagnie romane molto vicine l’una all’altra per poetiche similitudini, coincidenti nell’intendere il teatro come spazio di narrazione condivisa, di lettura del presente per la scrittura di storie proiettate al futuro, che si vorrebbe passibile di cambiamento per gli spettatori di domani, grandi e/o piccoli che siano. Fabrizio Pallara dirige lo spettacolo omonimo alla favola dei Fratelli Grimm pensato insieme al duo Bartolini/Baronio, portando nella sala del Teatro India la vivacità chiassosa e incuriosita dei tanti bambini che riempiono la platea, dove capita di riconoscere anche famiglie di artisti e operatori. Tra cassette della frutta di colore blu scuro, impilate una sull’altra, vestiti con tuta e caschetto, Michele Baronio alla chitarra e Tamara Bartolini si presentano come due operai. L’una lavora, l’altro canta, entrambi raccontano – lei come voce narrante, lui voce degli animali – la storia dell’asino, del cane, del gatto e del gallo, lavoratori anche loro ma ormai in procinto di essere cacciati, o addirittura uccisi, dai padroni, perché lenti e inabili al mestiere e ora risoluti nell’intraprendere il viaggio verso Brema per diventare musicanti.

Con le videoproiezioni a cura di Maddalena Parise e la musica punk suonata dal vivo da Baronio (da Anarchy in the UK a La mia banda suona il rock passando per Seven Nation Army) il duo da un lato rende la favola una meraviglia visiva e sonora per i bambini, che si divertono a tenere il tempo mentre vengono affascinati dai giochi di luci e video; dall’altro invitano l’adulto a leggervi come sottotesto significante l’urgenza politica insita non solo nello spirito di ribellione dei quattro animali ma anche nel viaggio, inteso non come meta ma tensione conoscitiva, apertura mentale in grado di contenere orizzonti da spostare sempre più in là. Una musica, questa, che i quattro protagonisti animali non smetteranno di suonare, e poco importa se non arriveranno mai a Brema per fare i musicanti; a contare sarà la loro ribellione: una favola meravigliosa con una morale concreta di azione. Cammina, cammina, cammina…

Lucia Medri

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

FIABE DA TAVOLO
di e con Fabrizio Pallara
produzione teatrodelleapparizioni

I MUSICANTI DI BREMA
uno spettacolo di Bartolini/Baronio e Fabrizio Pallara
regia Fabrizio Pallara
con Tamara Bartolini e Michele Baronio
musiche Michele Baronio
immagini a cura di Maddalena Parise
produzione teatrodelleapparizioni




Il diritto del bambino al rispetto. Seconda istantanea da Maggio all’Infanzia

Un attore sul palco indossa un abito dai colori spenti, tutto lo spazio è suo, lo guardiamo raccontare la storia di Don Lorenzo Milani, la sua voce è amplificata da un microfono ad archetto, la voce interrompe il silenzio, il campo visivo è tutto aperto, la sua figura sta al centro di un piccolo boccascena. Racconta da attore rivolgendosi a noi spettatori, a tratti interpreta “cadendo” nel personaggio, secondo gli essenziali pauperitstici e ricorrenti stilemi della performance epica di narrazione. Racconta di Lorenzo mettendo in luce soprattutto i suoi burrascosi rapporti con la chiesa, la cacciata da Calenzano, gli strali dei cardinali, con i tentativi di isolamento che finirono per aumentare la risonanza dell’azione del parroco, almeno nel tempo successivo alla sua morte. Tratteggia velocemente il suo “fare scuola”, dove a turno si diventava maestri e allievi perché la sapienza appartiene a tutti, dimostrando che dal confronto e scontro e dialogo “vero” con i bambini non possiamo che imparare tutti, quotidianamente. Guidare qualcuno e che nessuno resti indietro, ci ricorda Don Milani nel racconto appassionato dello spettacolo Cammelli a Barbiana di Inti / Thalassia (di e con Luigi D’Elia, scritto insieme a Francesco Niccolini e diretto da Fabrizio Saccomanno). Il primo passo necessario è guardare a noi, al nostro rapporto con i bambini, alle parole che usiamo per parlare con loro, ai discorsi e alle immagini che mettiamo loro di fronte agli occhi. Se “fare scuola” è un modo per “liberare”, allora raccontare attraverso il teatro dovrebbe essere un tentativo di liberazione con altri mezzi. Ogni opera d’arte che affermi di voler dialogare con bambini e ragazzi dovrebbe avere da qualche parte un nocciolo che lavora per “liberare” i più giovani, almeno dai gorghi uniformanti dell’intrattenimento che spegne ogni domanda sulle bruttezze del mondo, dalla solitudine innescata dall’uso solipsitico dei social media come surrogati delle relazioni (famigliari, in primis), ma anche dalla tensione fruitiva frammentata imposta dai mille “tasks” dei nostri dispositivi, quando predomina il lato che disincentiva la capacità di autonomi procedimenti di simbolizzazione e interpretazione. Che senso ha, un’arte per l’infanzia, se almeno in parte non prova a coltivare questo spirito?

Grazie al meritorio lavoro delle Edizioni dell’Asino, negli ultimi anni è stato riscoperto un fondamentale testo del medico e pedagogo Janus Korczak, vissuto durante la persecuzione razziale e morto in campo di sterminio. Il “diritto del bambino al rispetto” è una delle sue formule più note, presenti in scritti dove si afferma che “piccolo” non può né deve essere sinonimo di minore, o mancante, o debole (qui si possono trovare diversi materiali di approfondimento, come una lettura del testo di Moni Ovadia in mp3). Citiamo Korczak perché alcuni spettacoli del cosiddetto teatro ragazzi sembrano dimenticare il principio del rispetto, ma anche le generali idee di liberazione di Don Milani, producendo linguaggi non all’altezza della grande sfida dell’infanzia. Si potrebbe descrivere così questo principio: siamo a teatro insieme a bambini e ragazzi, quello che vediamo riguarda noi come loro, ci entreremo con domande diverse ma il mistero del teatro, la sua alterità, la sua ricerca di senso devono investirci ugualmente. Fate vedere ai bambini quello che vorreste vedere voi, diremmo con una massima quasi evangelica. Tenendo anche presente l’universo audiovisivo nel quale siamo tutti immersi, prodotto maturo dell’ideologia dei nostri tempi, il consumo, per il quale conta prima di tutto intrattenersi, divertirsi, cazzeggiare e mai fermarsi a pensare e dubitare.
La coppia di bambini raccontata in Fratellino e sorellina di Ruotalibera mostra una condizione infantile scimmiottata da due attori adulti con mossettine del corpo e vocine sottili, un fingersi bambini senza giocare a farlo. I due si riprendono con una telecamera “del padre” che rimanda un fondale sbiadito per carenze tecniche; lo spazio è delimitato con semplicistiche linee verdi sagomate dalle luci del palco, ogni tanto le azioni sono inframezzate con canzoncine televisive che risultano fuori tempo massimo, dalla D’Avena a Happy Days. Perché presupporre che al bambino basti così poco? Infatti nessuno ci crede e la sala rumoreggia senza sosta.

Arabesk è la produzione del Teatro Abeliano, per la regia di Vito Signorile, lavoro dove la schematicità narrativa si basa sulla stessa mancanza di rispetto aggravata da un’enfasi didattica. La nonna sul lato cuce i fili del tempo scenico, dentro a un ruolo di narratrice che semplifica l’arte del racconto come se chiunque potesse dire: “ora ti racconto una storia!” e risultare credibile, facendo comparire attori che mimano personaggi sbozzati, trattati come macchiette. Ci sono gli animali di Pierino e il Lupo, nella prima parte, con le peripezie fiabesche e con il lupo che grida gracchiando di essere cattivo, il gatto che parla un inglese maccheronico, l’oca cicciottella che cinguetta con la voce stridula, l’uccellina che sorride come se il mondo fosse bello roteando le braccia contenta, con Pierino paffuto, le gote rosse, illuso e sorridente e molleggiato. La nonna è impegnata a spiegare la corrispondenza fra le tracce audio di Prokof’ev e i diversi personaggi, in una lezioncina che corre parallela alle vicende. Tutti sappiamo come andrà a finire e chi verrà mangiato, capiamo da subito che entreranno in scena i cacciatori e risolveranno vicende narrate assecondando un registro recitativo semplificato, smaccatamente ironico, quasi autoparodico. È questo mondo narrativo che stiamo preparando per i nostri bambini? Staranno dentro a questa melassa dove tutti fanno battute e nessuno fa ridere, dove il lupo è cattivo perché è la fiaba che lo prevede (ma a ben vedere è buono anche lui, suvvia), dove il teatro si confonde con uno show televisivo che scimmiotta il musical, come nella seconda parte giustapposta alla prima e introdotta dalla nonna? Probabilmente sì, ed è un grande problema. Il secondo tempo cambia ambientazione ma non registro, è un fantasy ispirato a L’apprendista stregone, attori e attrici entrano nei panni di indispettite scope che allagano le stanze rispettando una maldestra formula magica del mago apprendista, e ci chiedono di credergli perché indossano bizzari costumi e si muovono a scatti senza nessuna invenzione corporea.

Un esempio di “rispetto” lo si è visto a nostro parere in La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, una scrittura di Fabrizio Pallara e Valerio Malorni, con quest’ultimo in scena. L’attore interpreta un uomo che racconta del se stesso bambino, e del suo “sprofondamento” nel bosco, un al di là dello specchio topos di diverse peripezie fiabesche, come accade per esempio nella versione animata “boschiva” di Hayao Miyazaki in Il mio vicino Totoro. Dobbiamo entrare in un bosco, ci dice l’uomo, invitandoci a sospendere l’incredulità, insieme, bambini, ragazzi e adulti. Lui sta in una scena che odora di resine e che sparge effluvi, riempita di ceste, latte, tronchi, ramazze, cappelli, pentole, ganci, taniche, radio. Ha uno strano accento sudamericano, dentro al bosco incontrerà spiriti maligni che daranno il via a nuove avventure e visioni, dietro a un velo appariranno fantasmi, animali fantastici, occhiacci di fuoco, udiremo gufi e vedremo gorilla, il tutto in uno spazio a portata del nostro sguardo, concreto e tangibile eppure trasfigurato, mentre un percussivo quasi costante riempie l’ambiente sonoro. Qui stiamo tutti (grandi piccoli e medi) di fronte a un rito di passaggio sciamanico, in ascolto di un romanzo di formazione magico, rapiti da quella presenza, scordandoci a volte delle tappe narrative, degli incontri, delle prove, insomma della “storia” che si dipana di fronte a noi. Ed è forse qui l’unico nodo che può essere sciolto del lavoro, anche se i nodi forse non vanno mai del tutto districati.

 

Lorenzo Donati




Un minuto di vita, una giornata a teatro: ultima istantanea dal festival

Ogni volta che si va a teatro con dei ragazzi, o meglio ancora con dei bambini, arriva sempre l’attimo in cui si spengono le luci, scende il buio fittizio che apre lo spettacolo e immancabilmente quel buio crea un mormorio di sorpresa, una promessa di inaspettato, un brivido di mistero, se non di vera e propria paura.
Per Across the Universe, il lavoro che inaugura la giornata di oggi, il buio non è solo quello siderale dello spazio, ma anche quello della condizione odierna di un mondo adulto confinato in un divenire senza potenziale che, come gli astronauti dello spettacolo, corre per raggiungere un qualcosa al di là della sua portata: il confine dell’universo.
Daniele Bonaiuti e Chiara Renzi, autori-attori dello spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, scelgono l’immensità dell’universo per portare in scena l’infinita ricerca di senso dell’essere umano, infinita e imprendibile come la complessità del cosmo. La scena procede per sketch ed episodi affiancati tra loro e cuciti insieme dal filo dell’esplorazione spaziale, ma in realtà coesi dall’urgenza delle domande, prima fra tutte quella sul senso della vita. Non la vita in generale: proprio la nostra, episodica, mesta, infinitesimale davanti allo spettacolo delle stelle.
La scoperta del cosmo è scoperta di sé, la conoscenza è anche un saper diventare, ma questo richiamo dell’infinito è sia ammaliatore che terrificante e i due astronauti, alla vigilia della missione, si fanno attanagliare dall’ansia: dubbi e crisi di inadeguatezza divorano la parata mediatica approntata per l’occasione. L’opera ricorda nel linguaggio l’esperienza dei Sotterraneo, con cui gli attori hanno collaborato proprio in un lavoro rivolto all’infanzia (La repubblica dei bambini, sempre una produzione delle Briciole), e avvicina spot e lustrini, “edutainment” e reality show, dichiarazioni d’amore e eventi sportivi in un susseguirsi serrato di scenette e musiche, come in uno zapping contemporaneo.
L’ironia e la levità con cui Across the Universe costruisce il discorso non addolcisce l’inevitabile nichilismo che il futuro dispiega innanzi: l’impossibilità di diventare adulti, di avere un lavoro, una famiglia, una pensione, tutto raccontato sullo sfondo di pratiche del benessere tanto di moda oggi, dallo yoga alla cura di sé, quasi fossero escamotage per sfuggire alla lama delle inquietudini. Queste tornano ancora e ancora, camuffate nell’ipertrofia del narcisismo e dei fenomeni di divismo, come nell’intervista alla star del momento, il sole, che sembra uno dei tanti psicologi da social media quando raccomanda di essere se stessi e di continuare a bruciare sempre.
“Che senso ha la mia vita?”, chiede il Teatro delle Briciole al suo pubblico adolescente. Risposta non c’è, rimane un minuto di vita, da passare sotto un riflettore, continuando a porre domande.

Di sapore radicalmente opposto, e dedicato a un pubblico assai più giovane, L’albero di Pepe di AGTP – Teatro Pirata, racconta una favola di amicizia e collaborazione, portando in scena la storia di una bambina, Pepe, che per avere un po’ di tranquillità e di ascolto si rifugia su un albero, e lì rimane, novella barone rampante, fino a che l’arrivo dell’inverno non la mette in contatto con l’infinito mutamento delle cose, mentre l’irrompere della guerra la aiuterà a ritrovare il fratello. Passato l’orrore, l’amato albero, ormai giunto al termine del suo ciclo vitale, si trasforma in casa per accogliere la nuova vita dei due fratelli. Una favola raccontata con canzoni e pupazzi di animali, in una messa in scena più consueta ma capace di accogliere nella sua trama l’entusiasmo dei bambini che rispondono alle domande sia implicite che esplicite degli attori, e sono pronti a segnalare con risate e interventi ogni accadimento, l’arrivo di un nuovo animaletto sull’albero, i rimbrotti degli adulti “assenti”. Uno spettacolo che nella semplicità del racconto include, con leggerezza, lo sguardo del suo pubblico, pronto ad assecondarlo, a divertirlo, a dargli spazio, mettendo davanti a ogni altra questione la piacevolezza del tempo che i bambini trascorrono a teatro.

Ancora favole, questa volta imbandite in solitaria da Fabrizio Pallara per Fiabe da tavolo del Teatro delle Apparizioni. Sono racconti in valigia pronti a essere trasportati ovunque, mondi in miniatura che già vivono nell’immaginario di grandi e piccini. Non c’è sorpresa, non c’è trasformazione narrativa, il giovane pubblico sa già cosa accadrà, ma c’è la magia di una restituzione delicata e immaginifica che, con pochi semplici segni e con la virtuosità interpretativa e affabulatoria dell’intervento attoriale, prende vita pronta a depositarsi nella memoria e nell’esperienza degli spettatori. Boschi di sughero e carta, coriandoli come prati fioriti, personaggi-dita riconoscibili da un semplice indicatore cromatico, oppure una sfilata di cartoline per un viaggio intorno al mondo, paglia, legno e mattoncini per le casette in miniatura, baffoni neri per l’irresistibile lupo: questa volta sono state raccontate le fiabe di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini, ma viene da chiedersi quali altre invenzioni, e quali altre magie, contengano le borse da viaggio di Pallara. Non resta che aspettare, come una volta si aspettavano i cantastorie girovaghi, per un’altra ora di fantasia e incanto.

Lucia Oliva

Se fossimo adulti sapremmo individuare certi riferimenti a Il lago dei cigni, avremmo vita facile a goderne la  suggestione. Se fossimo adulti cadremmo facilmente nella trappola di rivivere la fiaba seguendo certi antichi ricordi, troppo flebili per rintracciarla davvero, troppo coscienti per davvero assecondare un’emozione purificata dalla nostalgia per l’età infantile. Se fossimo adulti troveremmo utile questo ricorso al vissuto, ma non lo siamo. Siamo bambini di fronte al Diario di un brutto anatroccolo, fiaba scritta da Hans Christian Andersen e tradotta per la scena dalla mano gentile di Tonio De Nitto con Factory Compagnia Transadriatica. Siamo nella fiaba per un pretesto coraggioso di indurre domande difficili sul tema della diversità, dapprima deficit di inclusione, infine punto di forza di un’elevazione imprevista. Con i tre attori-danzatori (Ilaria Carlucci, Fabio Tinella, Luca Pastore) che sviluppano una relazione molto stretta, trovando cioè il legame con cui farsi comunità, in scena è chi soffre l’esclusione, l’anatroccolo (Francesca De Pasquale) che non riesce a inserirsi secondo i canoni riconosciuti dal gruppo e vive l’emarginazione in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nell’illusione d’amore. De Nitto affronta il tema con delicatezza e decisione, sfrutta del teatro la possibilità che l’incanto non sovrasti una necessaria problematizzazione e compie così l’intero arco della creazione soprattutto dedicata all’infanzia: dispone con cura e pulizia espressiva gli elementi della scena perché fuori, in questo caso gli adulti, sappiano ricondurli a fini educativi. Certo, colto ognuno da quella impressione di meraviglia, a trovarne di adulti in sala.

Simone Nebbia