La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Seconda parte

Pubblichiamo il seguito delle nostre conversazioni con alcuni dei protagonisti della nona edizione del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino. Ci interroghiamo sul rapporto tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi e sulla scelta dei contenuti e dei linguaggi negli spettacoli da destinare al giovane pubblico. (qui la prima parte)

Simone Guerro Il grande gioco, Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata

Fabio Spadoni e Simone Guerro fuori dal Teatro del Popolo di Castelfiorentino, durante l’intervista per Planetarium.

Per noi il pubblico dell’infanzia non è mai un pubblico di bambini, ma un pubblico di persone, con la loro sensibilità e la loro complessità. La prima questione che mi pongo è quella del linguaggio, che significa essere all’altezza di quel pubblico, che è esigente e ti chiede verità, e non abbassare il livello o adoperare delle semplificazioni. Occuparmi di teatro ragazzi mi permette anche di fare teatro politico: credo, infatti, che oggi il vero teatro politico sia proprio questo perché il pensiero pedagogico è un pensiero politico.

Nello spettacolo “Il grande gioco” la morte è un pretesto per parlare della vita, perché della morte non c’è nulla da dire. Per parlare della vita occorre confrontarsi con il fatto che esiste un inizio e una fine, un tema che cerco di far emergere spesso. È nata così l’idea di due fratelli per i quali la morte diventa la possibilità di fare le cose importanti, di stare insieme, di volersi bene, perché non c’è più tempo da perdere.

L’altro tema fortemente politico di questo spettacolo sta nel fatto che in scena c’è un attore disabile, Fabio Spadoni, considerato dalla società un debole, una persona da accudire e per la quale provare compassione (un’idea che non mi appartiene per niente!). Nello spettacolo, invece, è proprio Fabio, affetto da sindrome di Down, ad avere il ruolo della persona forte, che prova a risollevare il fratello malato. La forza di Fabio sta nella sua gentilezza, nella sua allegria, lui non è mai cattivo e questa forza è quella che ritroviamo nello spettacolo. Far stare in piedi questo ragionamento è arte, è politica. Il tema che mi interessa di più è come una cosa delicata possa avere una forza prorompente: bisogna difendere la delicatezza mostrandone la forza.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Non ho l’età (dal sito:campsiragoresidenza.it)

Da diversi anni costruiamo i nostri spettacoli a partire dal materiale raccolto nei percorsi laboratoriali che facciamo insieme a gruppi di bambini di tutta Italia in presenza degli insegnanti, e che sviluppiamo intorno a un tema specifico. “Non ho l’età” ad esempio si interroga sul concetto di tempo.

Abbiamo incontrato bambini dai 6 ai 10anni e con loro abbiamo ragionato sul presente, sul passato sul futuro e su tutti gli aspetti legati allo scorrere del tempo, come la memoria, il ricordo, le esperienze che si fanno a seconda delle fasi della vita, il rapporto con i nonni e con gli anziani e il rapporto con la morte. Ogni incontro veniva suddiviso in due parti, una prima in cui con un registratore raccoglievamo gli spunti delle discussioni collettive e una seconda in cui a partire da quella discussione iniziavamo a elaborare fisicamente il tema proposto attraverso giochi, esercizi teatrali corporei e percettivi e, infine, attraverso l’espressione artistica (disegni, manipolazione della creta e dell’argilla…).

Questo processo per noi è fondamentale perché ci permette di costruire lo spettacolo con consapevolezza, a partire dalla percezione che il bambino ha sul un certo tema. Per noi l’importante è lavorare a tutto tondo, senza prefissarci degli obiettivi pedagogici, ma creare suggestioni, mettere un tema in campo e lasciare la possibilità ai bambini di svilupparli. Grazie ai bambini si possono aprire delle piste rispetto ai temi trattati, che a volte sono considerati tabù dagli adulti.

Parlare di morte a bambini di sette anni significa riportarli a un’esperienza che molti di loro in qualche modo hanno già vissuto, bisogna solo trovare la chiave giusta per affrontare questi temi, ma non rimuoverli, perché loro sanno bene che esiste una fine della vita. Certo sono temi delicati, per cui ci siamo chiesti quali mmaginari, quali parole, quali ritmi utilizzare per veicolarli. Questo richiede sempre un grande sforzo, per cui spesso ci siamo trovati a dover ricalibrare lo spettacolo a seconda delle reazioni dei bambini.

Katarina Janoskova e Paolo ValliLa gazza ladra, Compagnia L’asina sull’isola

Katarina Janoskova e Paolo Valli durante una scena de La gazza ladra

Nel teatro di figura si opera sempre uno spostamento di senso. Nel caso dell’ombra, quello che ci interessa è la possibilità di proiettare in quella macchia nera tutto ciò che si ha nella testa: non si tratta di una forma definita e questo aiuta i bambini, abituati oggi a immagini già pronte all’uso, a utilizzare l’immaginazione. Questo succede in tutto il teatro di figura perché non c’è il limite del corpo che ha l’attore fatto di carne e ossa. Gli spettatori, sia adulti che bambini, hanno tutto un mondo da investigare, un altrove evocato grazie alla magia dell’artigianalità. I bambini stanno
perdendo la manualità e lo stupore, per cui è necessario riportare la loro attenzione sulle cose semplici: questi antichi saperi sono in grado di farlo e in questo si manifesta decisamente una forma di pedagogia.

Simona GambaroPollicino, Teatro del piccione e Teatro della Tosse

Paolo Piano e Simona Gambaro durante una scena di Pollicino (dal sito: teatrodelpiccione.it)

L’intenzione nel nostro modo di fare teatro è quella di muovere delle domande: non vogliamo insegnare qualcosa, ma lasciare emergere delle questioni sulle quali tutti si possano interrogare. Il linguaggio che scegliamo di utilizzare è certamente calibrato perché possa essere compreso dai bambini, ma la fiaba già di per sé parla a ognuno di noi. Io non faccio uno spettacolo se non sento un fuoco dentro e anche la forma, l’immagine, che curiamo molto, sono sempre al servizio di questo fuoco, di una domanda esistenziale. Ogni volta che il teatro si manifesta, diventa esperienza e smuove qualcosa.

Io sono specchio degli spettatori e tramite insieme a loro di un incontro e in mezzo avviene qualcosa che lascia delle domande. Quando recito in Pollicino sono dentro a questo riverbero e ogni volta ritrovo nello spettacolo un pezzetto di me,della mia vita. Ne “La grammatica della fantasia” Rodari scriveva che le storie sono come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici:anche se tu non lo vedi, questo riverbero,questo cerchio che si allarga nell’acqua fa muovere tutto il resto, i bordi dello stagno,il filo d’erba e così via. In questo spettacolo noi non mettiamo il pubblico in una condizione di agio,ma di movimento, sperando che qualcosa riverberi ancora e ancora.

I formatori come i genitori e gli insegnanti hanno tra le mani una materia calda informe. Sicuramente dallo spettacolo scariruranno delle domande. Ci si butta insieme. I registi ci hanno detto di affidarci totalmente alla fiaba senza paura,di non aggiungere altro, ma di tenere dentro tutta la vita della fiaba più siamo fedeli e più lasciamo aperture, meno tentiamo di interpretare più lasciamo che quel bosco rappresenti per ognuno di noi un attraversamento diverso

Riccardo RombiVulcania, Compagnia Catalyst

Rosario Campisi e Giorgia Calandrini in una scena di Vulcania

«Il teatro è civile per definizione. I bambini sono pronti a recepire il messaggio che vogliamo trasmettere in modo immediato
con spettacoli come Vulcania, che tratta dei principi della nostra Costituzione Per loro è ovvio e intuitivo che ai diritti corrispondano i doveri. Tra loro non ci sono differenze, si rispettano profondamente, non distinguono le persone per il colore della pelle o per la provenienza. Sono gli adulti che non credono più nei principi della Costituzione e che in nome del realismo sono sempre pronti a porre ostacoli tra loro e i loro doveri. Il teatro oggi può e deve aiutare i bambini a diventare cittadini e persone libere».

Nella Califano, Michele Spinicci




Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Tre domande per tre Pollicini. Conversazione con Teatro Paraìso, Eco di Fondo e Teatro del Piccione

Una fiaba oscura, cruda, inquietante, spesso nemmeno raccontata ai più piccoli, entra come fil rouge nella XXIX edizione del Festival Segnali, che ha visto ben tre Pollicino nella sua programmazione. Dal Pulgarcito di Teatro Paraìso (Tomás Fdez. Alonso, Ramòn Monje, Inaki Rikarte, Inaki Salvador) una delle proposte internazionali della rassegna, passando per l’anziano Pollicino di Eco di Fondo (Giacomo Ferraù, Giulia Viana, Libero Stelluti, Andrea Pinna) e concludendo con la fedele versione proposta da Teatro del Piccione (Simona Gambaro, Paolo Piano) e Teatro della Tosse, con regia e drammaturgia di Davide Doro e Manuela Capece, il celebre racconto di Perrault viene messo in scena da differenti angolature.
Abbiamo intervistato le tre compagnie per scoprire da dove venga la spinta e quali siano le scelte fatte per raccontare una fiaba solo in apparenza tanto senza speranza.

Perché avete deciso di mettere in scena Pollicino?

Tomás Fdez. Alonso (Teatro Paraìso): Semplicemente ci sembrava un testo stimolante e desideravamo metterlo in scena. Per prima cosa lo abbiamo proposto al regista, che ci ha pensato sopra e se ne è uscito con la proposta di far diventare il personaggio di Pollicino un anziano. Questo è stato sostanzialmente il nostro punto di partenza. Il resto è stato costruito attraverso l’improvvisazione: da lì si sono create altre situazioni, che hanno innescato ulteriori intuizioni, da cui infine sono nate le scene e i conflitti presenti nello spettacolo. In più, ci siamo posti come condizione di non utilizzare alcuna ambientazione che non fosse quella di una normale stanza d’appartamento: tutte le vicende si sarebbero dovute svolgere negli spazi e con gli oggetti che si possono comunemente trovare in una normale camera. Questo, che potrebbe sembrare una limitazione, si è infine convertito in uno dei punti di forza dello spettacolo. Ci ha infatti permesso di trasformare tanti oggetti di uso quotidiano in qualcosa di diverso, a volte addirittura di farli diventare dei personaggi (come nel caso dei calzini che a un certo punto “impersonano” le figlie dell’Orco della fiaba), oppure di rendere più interessanti ed evocativi elemento che a tutta prima non sembrerebbero così centrali, come gli stivali delle sette leghe che vanno a dare senso a quasi tutto lo spettacolo.

Simona Gambaro, Paolo Piano (Teatro del Piccione): Pollicino è già entrato a far parte di nostri altri spettacoli, ad esempio con Piccoli Eroi. Nonostante si tratti di spettacoli diversi, c’è un’urgenza comune che parte dalla fiaba di Perrault. Nel Pollicino messo in scena qui a Segnali, centrale è l’elemento della paura, quel saper trovare le proprie risorse per affrontare una sfida. Questa paura e questa audacia accomunano Piccoli Eroi e Pollicino, sono l’urgenza che diventano un invito ad avere coraggio e fiducia.
Nel caso di Pollicino, la scelta drammaturgica e registica di Manuela Capece e Davide Doro è stata di mantenere un’assoluta fedeltà alla fiaba, messa in scena senza dare interpretazioni o doppie letture. La scelta, forte, è stata quella di essere nudi e crudi proprio come la fiaba, elementari nell’uso dei suoi simboli, della sua costruzione narrativa e dei personaggi. Una fiaba buia, truculenta, la cui crudezza abbiamo voluto trasmettere anche attraverso una scena che è uno spazio vuoto in cui vivono soltanto parole e personaggi. Paradossalmente però questa fiaba è anche un inno alla vita, al saper andare dentro e oltre le cose: lo spettacolo accade in teatro, un luogo di per sé buio, e i bambini vivono un’esperienza di paura, di inquietudine, che si fa strada, anche concretamente, tra il pubblico. La conquista del tesoro da parte di Pollicino, solo evocato e mai sul palco, nel finale è anche la conquista che il pubblico fa arrivando alla fine dello spettacolo: noi torniamo in scena come genitori e diciamo: «bravi bambini, ce l’avete fatta, siete stati coraggiosi». Questo è il nocciolo di Pollicino che, declinato per un’altra età, era in Piccoli Eroi.

Eco di fondo: Pollicino nasce proprio in un filone della compagnia, teso a indagare miti e fiabe. Da un lato, i miti sono maggiormente dedicati a un teatro per adulti, mentre le fiabe sono riservate ai più piccoli. Tuttavia spesso si mischiano anche perché miti e fiabe hanno delle radici molto comuni, lavorano su paradigmi potentissimi che si possono declinare in qualsiasi modo.
Come sempre, abbiamo sempre prima pensato al tema, di cosa avevamo urgenza di parlare anche a livello personale. È  un periodo della nostra vita in cui, com’è normale, ci dobbiamo assumere maggiori responsabilità, in cui stiamo diventando “genitori dei nostri genitori”. Inoltre, in questo momento stiamo anche portando avanti degli incontri con l’università di Milano incentrati sui caregiver. Quindi, abbiamo subito pensato a Pollicino in quanto fiaba dell’abbandono per eccellenza, assieme a Hansel e Gretel, con cui speriamo di confrontarci prima o poi.
In scena si vede una casa di riposo. Cosa si può dire delle case di riposo? Tutti abbiamo su di esse un’opinione personale, che però non rispecchia un’universalità. È qualcosa di molto specifico, che varia da persona a persona. Nel caso di Pollicino, il protagonista le vede come un inferno ma è chiaro che per molti altri non sia questa la realtà. Siamo stati in delle case di riposo, ne abbiamo osservato il funzionamento, con i bambini infine abbiamo realizzato delle prove aperte che ci aiutano a “rodare” lo spettacolo. Fino all’ultimo ci siamo interrogati se arrivare al punto in cui Pollicino diventa così piccolo da scomparire, avevamo dei dubbi su come potesse essere recepito dai bambini… ci è sembrato che il doppio piano di narrazione funzioni bene. Ai bambini arriva il lato più divertente e divertito, mentre gli adulti si identificano di più con le responsabilità connesse alle scelte da prendere nel momento in cui i propri genitori invecchiano.

Nonostante questi temi di fondo, negli spettacoli c’è anche un uso molto diffuso dell’ironia…

Simona Gambaro, Paolo Piano: Sì, è un doppio registro contraddittorio. Come siamo contraddittori noi in quanto persone lo sono anche i personaggi della fiaba e di conseguenza i nostri ruoli. Ci si completa. I due genitori che noi incarniamo si dimostrano dei disgraziati abbandonando i loro figli. È necessario notare come l’abbandono dei figli sia un fatto che accade oggi, magari lontano dai nostri occhi, ma accade. I genitori di Pollicino, come nella realtà, non sono univoci, non sono cattivi. Sono dei disgraziati che non possono fare altro, o non riescono a immaginare cos’altro potrebbero fare. Quando l’abbandono avviene nella realtà forse è proprio l’unico tentativo di soluzione immaginabile per chi lo mette in atto. Quindi essendo una realtà difficile non abbiamo potuto fare altro che restituirla nella sua complessità. In questi personaggi, in questi ruoli c’è anche la nostra inadeguatezza come esseri umani, la nostra necessità di cercare degli spiragli di felicità anche nella disperazione. È per questo che fanno capolino ironia e leggerezza.
Inoltre l’ironia assume un ruolo importante anche dal punto di vista drammaturgico. Per quanto i personaggi della fiaba siano tagliati con l’accetta, non abbiano nomi – sono il Padre, la Madre, un Boscaiolo e sua Moglie, l’Orco e l’Orchessa – siano monolitici insomma nella loro funzione, portandoli sul palco acquisiscono una rotondità. Tale rotondità e tale ambivalenza mettono “in moto” il pubblico, lo costringono a non restare passivo di fronte allo spettacolo. Se i personaggi fossero piatti, come schizzati su un foglio, saremmo noi come artisti a dare la nostra chiave di lettura, imboccando il pubblico, ma non è ciò che desideriamo per gli spettatori. Pollicino gioca molto sulla soglia, sul confine. Il linguaggio è chiuso, noi siamo immersi nella nostra storia, ma la soglia è permeabile e l’ironia è una delle chiavi d’accesso.

Eco di fondo: Ci siamo divertiti a ironizzare sul concetto del rimpicciolimento, per cui ogni gesto o azione diventa estremamente faticoso da compiere per una persona che si fa via via sempre più piccola (processo che ovviamente allude all’invecchiamento). In questo senso, il mondo delle fiabe è un’ambientazione che facilita a evadere dal realismo, che dunque ci aiuta a percepire le problematicità evidenti ma senza renderle evidentemente drammatiche. Ciò che avviene è dunque una decontestualizzazione delle problematiche concrete, per trasporle in un’ambientazione diversa. Di conseguenza abbiamo preso ispirazione dal ruolo che nella versione di Perrault hanno i genitori di Pollicino, che sono due boscaioli. Da lì è nata la nostra idea di raccontare un boscaiolo, che dunque nel contesto odierno potrebbe essere un progettatore di case e capanne, etc. e la moglie del boscaiolo che si presume invece trascorra più tempo a casa e da lì “assiste” i personaggi delle fiabe, offrendo loro un supporto per via telefonica.

Tomás Fdez. Alonso: Credo che i bambini abbiano molta capacità di resilienza. Nel momento in cui ancora stavamo costruendo lo spettacolo, ci siamo accorti di come Pollicino sia in realtà un testo veramente terrorizzante: parla di genitori che da quanto sono poveri sono costretti a prendere la decisione di abbandonare i propri figli nel bosco, per non vederli morire fondamentalmente. Sono situazioni tragiche, truculente…  Allo stesso tempo però sono storie che appartengono all’immaginario collettivo e la cui origine si perde nella notte dei tempi, sono un patrimonio della cultura occidentale. Come si possono raccontare a bambini piccoli? Durante le prove dello spettacolo, abbiamo conversato con degli psicologi, che ci hanno spiegato come non ci sia problema per i bambini a recepire queste storie, per loro il carattere terrorifico e truculento non ha nessuna importanza. I bambini si identificano con Pollicino, che è un bambino piccolo come loro, che come loro parla poco e ascolta molto, e che ha il coraggio e la forza per uscire dalle situazioni di massima difficoltà. È questo il valore delle fiabe per i bambini. Ecco perché i bambini nel vedere le vicende di Pollicino si divertono mentre gli adulti si concentrano su gli altri elementi maggiormente conflittuali. L’importante è riuscire a inserire nello spettacolo sufficienti “stratificazioni” e livelli, cosicché ciascuno spettatore possa entrare nella dimensione di narrazione che sente più vicina a lui.

C’è la sensazione di una sovrapposizione fra infanzia e vecchiaia (negli spettacoli di Teatro Paraìso e di Eco di Fondo, Pollicino è a tutti gli effetti un anziano)… che cosa hanno in comune queste età della vita? In generale, oggi, le fiabe parlano a tutti?

Tomás Fdez. Alonso: Credo che esistano opere universali, da cui derivano semplicemente letture diverse. L’isola del tesoro, E.T. o il cinema di Charlie Chaplin sono opere per bambini o per adulti? Allo stesso modo, Pollicino è una fiaba che appartiene all’immaginario occidentale.
Un nonno e un bambino hanno molto in comune. Il primo si trova all’inizio della vita e il secondo alla fine, rappresentano insieme il circolo della vita. Perché i bambini e gli anziani si intendono così facilmente? Perché in realtà dal punto di vista psicologico sono molto simili: gli anziani non vivono le cose in un modo così pesante come gli adulti e, di conseguenza, capiscono meglio i bambini.
Pensiamo alla maschera del clown, di cui si dice essere “il bambino che tutti siamo stati da piccoli”. Chi sono, di solito, i clown migliori nel circo? Sono quelle persone anziane, gli acrobati o i giocolieri che non possono più esercitarsi e che quindi diventano clown. Anche lì, come nella vita reale, chi è alla fine della vita o della carriera riesce a parlare meglio a chi invece sta nel punto iniziale del circolo. Il nonno si comporta a tutti gli effetti come un bambino: non vuole togliersi il pigiama, fa i capricci, nasconde cibo nelle tasche… azioni che spesso fanno anche i bambini, i quali dunque sono quelli che ridono di più osservando i nonni.

Eco di fondo: L’idea  del nostro spettacolo è stata anche quella di, attraverso il gioco e attraverso un immaginario comune, pop, ma anche con tutto il tatto possibile, guidare adulti ma soprattutto bambini a prendere consapevolezza delle diverse fasi della vita. Diventare anziani è un po’ come ritornare bambini, si diventa sempre più fragili, sempre più piccoli e si va in un altrove, proprio come i personaggi delle fiabe. Nelle fiabe c’è scritta la parola fine ma si sa che queste storie continuano da qualche altra parte, forse e chissà come.
Credo che questo sia un atteggiamento profondamente infantile: i bambini non capiscono la fine del gioco, però capiscono la trasformazione. Cioè, non smettono mai di giocare ma tu gli puoi proporre un altro gioco e loro ti seguiranno, perché intuiscono che non c’è fine ma c’è solo un’altra forma. Allora il gioco di correre diventa facciamo il gioco del silenzio e viene preso all’istante però cambia forma e non può diventare un’interruzione. È qualcosa che ci ha guidato anche a livello stilistico: nello spettacolo utilizziamo diversi linguaggi, dal cinema alla musica, da riferimenti ad altre fiabe agli oggetti, proprio come mischiare i linguaggi è alla base del gioco infantile. Il bambino fa dialogare mondi che non hanno a che fare l’uno con l’altro, e li fa dialogare per una sua scelta totalmente arbitraria.

Simona Gambaro, Paolo Piano: Purtroppo la fiaba ha perso il riconoscimento della sua funzione perché non è stata più utilizzata per lo strumento potentissimo che è. Pollicino è talmente truculenta che, per esempio, non è nemmeno stata presa in considerazione da Disney, ma la tendenza generale è quella di rendere le fiabe “a misura di bambino”, con poco rispetto invece per lui e per la sua capacità di comprensione. Calvino, nell’Introduzione a Fiabe italiane, dice che le fiabe sono il catalogo dei destini dell’uomo. In ogni fiaba sono raccontati i passaggi essenziali della vita, per cui un Pollicino parlerà in un modo diverso in base a chi lo ascolta, alla sua età, al suo vissuto.
Nello specifico questa fiaba è veramente oscura, spaventosa, contiene il peggio dell’animo umano: dall’abbandono alla povertà, dall’assassinio, anche di bambini, al cannibalismo. Eppure, ci abbiamo visto uno strumento da mettere nelle mani dei bambini con la consapevolezza che con i più piccoli si possa davvero affrontare qualunque discorso. Ci siamo resi conto che i giovani spettatori riconoscono immediatamente la possibilità di utilizzare un racconto come mezzo per se stessi, per la propria vita di ogni giorno, traducendolo in opportunità. Inizialmente abbiamo fatto resistenza alla volontà di Manuela Capece e Davide Doro di non fornire al pubblico alcuna interpretazione ulteriore della fiaba, pensavamo fosse necessario uno sforzo in più. Invece, quando abbiamo accettato questa pulizia, ci siamo resi conto che lì, in questa fiaba, e nella fiaba in generale, c’è tutto. Ci siamo fidati e affidati alla fiaba.

di Francesco Brusa, Agnese Doria, Camilla Fava, Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti

a cura di Francesco Brusa, Camilla Fava




Semplice o semplicistico? Terza istantanea da Maggio all’Infanzia

Ventidue spettacoli in quattro giorni, distribuiti in diversi spazi (Teatro Kismet, Teatro Abeliano, Casa di Pulcinella e la Libreria Svoltastorie), ma Maggio all’Infanzia non è tutto qui.
Tra uno spettacolo e l’altro, il giallo foyer del Kismet è popolato di bambini, con le voci che si sovrastano l’un l’altra; a sala riempita, le sedie blu rimangono vuote, tirate da un lato, pastelli a cera e fogli mezzi disegnati abbandonati sui tavolini.
Alla Casa di Pulcinella il pubblico arriva e può godersi la bella mostra dedicata a Emanuele Luzzati, con burattini e pupazzi in pezza, legno e gommapiuma, ma i più piccoli si misurano anche con la costruzione di figure di carta, sacco e pop-up nel Laboratorio di Pulcinella. Così come c’è modo, per gli studenti delle scuole superiori, di misurarsi con grandi temi contemporanei, nel laboratorio curato da Graziano Graziani attorno alla Costituzione e all’Utopia.
Questo per dire che abbiamo notato anche una grande attenzione alla dimensione dello “stare” del pubblico, una cura ricondotta alle pratiche della relazione, all’accoglienza di scuole e famiglie come incubatori dell’immaginario dei giovani spettatori.

 

Un’attenzione e una cura messe intorno a una programmazione che, soprattutto a confronto con quella di altri festival, si presenta però densa e concentrata. Se ci si sofferma sul cartellone, un calendario così serrato – che non sempre lascia a chi voglia seguirlo tutta il tempo per metabolizzare i pensieri – risponde di certo alla pluralità di esigenze introdotta da vent’anni di cittadinanza sul territorio ma, di conseguenza, pone la questione della qualità media delle produzioni.

Un aspetto su cui ci si è molto interrogati tra foyer e tragitti in pullman è il ruolo fondamentale assunto, in un festival di “teatro ragazzi”, dalla composizione della platea. Assistere all’intera vetrina con occhi adulti – appartengano essi ad artisti, critici o operatori e operatrici – rischia di tramutarsi in un atto limitante se quegli occhi non hanno modo di dotarsi, sempre, della presenza dei giovani spettatori. Soprattutto in quelle opere che misurano ritmi e snodi drammaturgici sulla percezione e sull’immaginario dell’infanzia, sarà per l’adulto difficile entrare se non “accompagnato” da un bambino. È stato il caso di La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, nel quale gli adulti hanno da un lato individuato alcune fragilità soprattutto nel passaggio da una sequenza all’altra di questo viaggio iniziatico, dall’altro riconosciuto l’impossibilità a vestire comodamente i panni del target per cui lo spettacolo era pensato. Perché, in parte minore o maggiore, sempre questo passaggio richiede una sponda di percezione in più, non necessariamente condivisa da tutti gli adulti in sala. In altre parole, di fronte a uno spettacolo ad essa indirizzato, la presenza di una collettività di bambini sarà sempre e comunque il termometro essenziale per stabilire la temperatura di una visione.

E tuttavia abbiamo anche abitato platee in cui l’adulto era “in minoranza”, confrontandoci con linguaggi che, programmaticamente, ordinavano i propri elementi in funzione di una fruizione infantile. Lorenzo Donati ha già parlato qui del paradigma del rispetto, su cui ci sembra di dover tornare nell’analisi delle forme di alcuni lavori.
L’arca di Silvia Civilla e Marco Alemanno (Terramare) ha proposto una volta di più lo stereotipo dell’adulto che scimmiotta il bambino, sintetizzando quest’ultimo in una creatura che si muove con grandi gesti didascalici, piange battendo i piedi e agitando i pugni e sgrana gli occhi per mostrare meraviglia. In questa fiaba originale i due, in un lungo sogno, soccorrono dal diluvio un’arca piena di peluche e dialogano con Noè. Il messaggio ambientalista contro lo spreco dell’acqua si innesta in un’odissea fantasiosa per superare la lontananza dai genitori: lo sforzo di magia scenica è però ridotto ai minimi termini, non riesce a proporre alcuna tridimensionalità e anzi scompone i passaggi di senso in quadri frontali su una scenografia immobile sotto alle (coloratissime) luci a led. Il rapporto con l’oggetto-peluche, che pure potrebbe portare a un interessante transfert e affrontare davvero i concetti di accudimento e protezione, è reso in una manipolazione poco curata e che dunque fallisce il salto verso una vera e propria animazione, perdendo più volte il contatto con lo spettatore (dai 3 anni).

Il colorato esperimento del Teatro Vascello su La Gabbianella e il gatto (adattato e diretto da Manuela Kustermann) sconta in parte la stessa criticità. Sul grande palco del Teatro Abeliano scenografie dipinte e ritagliate su pannelli di legno, appaiate in maniera poco chiara con fotografie proiettate sul fondale, non riescono a definire lo spazio, che finisce per essere occupato da parate e schiere di attori in costumi carnevaleschi, portati da un testo troppo verboso (a fronte della sintesi poetica del plot) a scivolare su stereotipi dialettali e su una scurrilità ripulita. L’inserimento delle canzoni e della musica, poi, non riesce a creare un vero e proprio contrappunto (su cui Schiaccianoci Swing, ad esempio, era in grado di fondare un’intera drammaturgia quasi senza parole). Anche stavolta, dunque, l’attenzione si perde, forse eccessivamente bombardata da dialoghi che non lasciano respiro alla riflessione.

Che cosa accade, invece, agli spettatori di Le 12 fatiche di Ercole del Teatro della Tosse? Ancora una volta sullo sfondo di una scena dominata dalla bidimensionalità, il divertimento si trasforma in intrattenimento frontale. Il fondale di legno che ospita un tabellone da gioco dell’oca diventa una teca dove, casella per casella, ospitare i trofei delle prove superate dall’eroe greco. Ma il tono generale, che nella sfida finale esplode nel goffo tentativo di coinvolgere l’intera platea di una domenicale, è vicinissimo all’animazione da villaggio vacanze. Se non si presta sufficiente attenzione al controllo delle forme, anche il contenuto si distorce: così incasellati, i simboli dell’antagonismo messi in fila dal mito arcaico si appiattiscono all’insegna della logica dell’affastellamento propria dei format televisivi. Nonostante il gran dispendio di energie dei due “conduttori” – perché mai la loro presenza si definisce in una pur distaccata mimesis attoriale – il messaggio si disperde e a essere sconfitto è il ragionamento del bambino, costantemente tirato per la giacchetta da un fuoco d’artificio all’altro.

Abbiamo però visto anche esperimenti più raffinati, come Vassilissa e la Babaracca di Kuziba, che in una scena cupa e ambrata organizza una meditazione sulla dualità tra accettazione e rifiuto. A partire dalla leggenda slava della Baba Jaga, la strega dei boschi che nella fiaba slava schiavizzava Vassilissa la bella, prende forma una sorta di “preferirei di no” bartlebyano usato come forma di redenzione a una totale remissività. Pur scontando qualche affanno nella gestione della corporeità dei due interpreti (divisi dalla baracca mobile che da elemento di meraviglia si trasforma presto in ingombrante architettura), la regia di Raffaella Giancipoli compone una guida originale verso un’iniziazione all’età adulta. Che infatti raccoglie e posiziona bene l’attenzione, con pochi segni e molta semplicità.

Sulla semplicità si fonda anche Il re clown di Pietro Naglieri (Skèné), una favola quasi patafisica che sembra fare il verso all’Ubu Roi – a sua volta caricatura del dramma moderno – per consegnare ai bimbi dai 5 anni un messaggio chiaro sulla creatività, sul potere dell’arte, sulla condizione di emergenza degli artisti, sulle distorsioni del potere. Uno spettacolo che potrebbe stare in una piazza come in un salotto, perché ben piantato su codici scarni, leggibili e rispettosi della fantasia dello spettatore. La qualità sta anche qui, nel saper condensare in una struttura rigorosa le potenzialità del divertimento, l’interazione e dunque la collaborazione tra palco e platea nella costruzione di un immaginario che non senta il bisogno di storpiare accenti, ritrovando invece nella caricatura la scintilla della satira culturale per tutte le età.

Più che con una diretta intenzione di critica negativa, certi esempi portati qui servono a individuare una possibile chiave, forse proprio quella di proporre, in forza di un “diritto del bambino al rispetto”, una feconda semplicità. Mettere a punto un sistema di segni che abbia il coraggio di porre domande e di lasciare aperta – nei ritmi e nelle forme del teatro, più che mai malleabili – la via per una risposta imprevedibile.

Sergio Lo Gatto