LA PAROLA AI PROTAGONISTI: COSA MANCA OGGI AL TEATRO RAGAZZI? – TERZA PARTE

La terza e ultima parte delle conversazioni con i protagonisti del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino raccoglie le risposte a una domanda che tocca alcuni nervi scoperti del teatro destinato al giovane pubblico e non solo.
Per le conversazioni sul rapporto tra teatro e pedagogia: qui la prima parte, qui la seconda parte.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Uno dei disegni dei bambini coinvolti nel progetto laboratoriale precedente la realizzazione di Non ho l’età (dal sito: comune.prato.it)

Credo che nel teatro ragazzi manchi un rapporto più continuo con i suoi destinatari. Questa è una possibilità che noi ci siamo creati incontrando gruppi di bambini prima di pensare all’allestimento dei nostri spettacoli: per noi è stato molto più funzionale che fare uno spettacolo con un tema al quale agganciare un laboratorio. Questa esperienza, secondo noi fondamentale per un artista, non è né prevista né agevolata da molte strutture, infatti in pochissimi casi esistono spazi in cui si possa sviluppare un lavoro che non si limiti alla performance.

Spesso compagnie che producono spettacoli per adulti quando si confrontano con un pubblico di bambini pensano che si debba abbassare il livello, quando invece è il contrario. I bambini sono interlocutori molto attenti, per loro sono importantissimi dettagli che molto spesso agli adulti sfuggono.

Vania Pucci Di segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Risultati immagini per vania pucci
Vania Pucci (dal sito: empoli.gov.it)

Oggi molti dei “grandi vecchi” del teatro ragazzi hanno messo i remi in barca, mentre i giovani spesso, non sapendo cosa c’è stato prima, finiscono per utilizzare linguaggi già superati, prendendoli per nuovi. In teatro non si inventa niente, al massimo si può restituire in maniera personale qualcosa di già sperimentato.

È cambiata molto anche la scuola e il nostro modo di rapportarci con essa: se prima era un buon alleato, ora dobbiamo ritrovare una complicità. Gli insegnanti si trovano di fronte a grandi difficoltà: ragazzi che vengono da culture diverse, genitori che entrano nello specifico del loro mestiere denigrandone il ruolo. È normale purtroppo che in un momento di crisi, il teatro non rientri più nelle priorità di questa istituzione.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui trovate l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, nello stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Molière, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroveremo in un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro.

È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui trovate l’intervista integrale)

Renata Coluccini (dal sito: ilflaneur.com)

Manca sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione in cui fare il punto e chiedersi cos’è oggi quello che facciamo.

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Parte prima

Interrogarsi sul teatro ragazzi significa innanzitutto considerarne il destinatario, lo spettatore bambino, che si trova nel pieno della sua fase di formazione.

Abbiamo approfittato della presenza al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino di attori, registi e drammaturghi che hanno visto nascere l’esperienza del teatro ragazzi o che a esso si sono avvicinati di recente, per domandarci, insieme a loro, in che termini si pone la relazione tra arte e pedagogia in questo contesto spettacolare e se questa relazione sia necessaria. A partire da questa domanda, la discussione si è allargata ai contenuti degli spettacoli e ai linguaggi utilizzati per renderli fruibili allo spettatore. L’utilizzo delle fiabe è una scelta adoperata in moltissime occasioni, ma le modalità di messinscena variano a seconda del valore che le compagnie riconoscono a questi grandi contenitori di archetipi. Lo stesso discorso vale per la scelta dei linguaggi. Abbiamo assistito a spettacoli in cui particolare rilievo era affidato alla parola, ad altri in cui si preferiva evocare la storia o parte della storia, attraverso immagini, ombre, suoni, luci.

La possibilità di confrontarci da una parte con delle
compagnie storiche e dall’altra con artisti approdati al teatro ragazzi in un
contesto storico diverso da quello in cui esso si è sviluppato, ci ha permesso
di riflettere, ascoltando diversi punti vista, sulle eventuali mancanze di cui
oggi il teatro ragazzi soffre e sul cambiamento che esso ha subito rispetto ai
suoi esordi.

In attesa di un racconto più approfondito di alcuni degli spettacoli presenti alla nona edizione del festival e di un ragionamento sui temi emersi nel corso delle nostre visioni, riportiamo la prima parte delle numerose e intense conversazioni raccolte nel corso di queste quattro ricche giornate a Castelfiorentino.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui l’intervista integrale)

Mila Boeri e David Remondini durante una scena di Amici per la pelle

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

Nel caso del nostro spettacolo l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Giusi Merli Pinocchi,Progetti Carpe Diem/La casa delle storie e Il Lavoratorio

Spesso chi realizza spettacoli di teatro ragazzi crede di rivolgersi a un pubblico che capisce poco o niente, per cui produce rappresentazioni che sono solamente divertenti. Questo però non è teatro, è un affronto ai bambini. Il vero teatro invece, come tutta la vera arte, è già di per sé pedagogico perché sa insegnare l’apertura e la ricettività verso i sentimenti e le emozioni. Sono proprio i bambini quelli più pronti a schiudere la mente, il cervello, l’anima davanti all’energia umana che il teatro porta con sé.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di mettere in scena soltanto i primi quindici capitoli di “Pinocchio”, nato come un romanzo a puntate che si concludeva con la morte per impiccagione del protagonista. Non ci interessava molto il fatto che Pinocchio imparasse a comportarsi bene e diventasse un bambino vero, preferivamo far emergere l’umanità e la forza dirompente di questo personaggio, che è ciò che può comunicare di più ai bambini e a tutti gli spettatori.

Compagnia Zaches TeatroCappuccetto Rosso (qui l’intervista integrale)

Amalia Ruocco in una scena di Cappuccetto rosso

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.

Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli insegnanti.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della formazione del pubblico, ciò che ricerco è un effetto di meraviglia e la condivisione di essa. Scrivendo, il mio scopo è quello di creare un ponte tra il palco e la platea e fare sì che sia chi sta in scena che lo spettatore percorrano un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una parte. Per dare luogo a questo incontro è necessario un linguaggio comune, intriso di curiosità e meraviglia.  

Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a cuore a chi la racconta. In questo modo sarà in grado di evocare allo spettatore qualcosa della sua vita o, per un bambino, qualcosa che sia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Vania PucciDi segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno (dal sito: giallomare.it)

Tra chi pensa che il teatro ragazzi non debba avere nessun fine didattico ed educativo e chi considera queste componenti essenziali, io mi colloco nel mezzo. Il teatro ragazzi deve esprimere un contenuto artistico, ma non può ignorare che i suoi destinatari si trovino nel bel mezzo del loro processo di formazione.

Io ho studiato pedagogia e ho lavorato nella scuola dell’infanzia per molti anni prima di arrivare al teatro per bambini, che per me è stato un modo diverso e nuovo di relazionarmi con la scuola e i ragazzi; per questo nei miei spettacoli non posso trascurare l’aspetto formativo. La difficoltà è quella di comprendere i confini tra arte e pedagogia e in che modo coniugare questi due aspetti.

Nello spettacolo di oggi, nato venti anni fa, queste due componenti, quella pedagogica e quella artistica, coesistono ed è evidente già nel titolo: “Di segno in segno”, che si può leggere anche come “Disegno insegno”. L’utilizzo della lavagna luminosa nello spettacolo (che fu una novità all’epoca) ha un valore poetico, offre un momento di visione artistica, ma cerca anche di lavorare sulla creatività, facendo accostare i bambini a uno strumento che non conoscono.

Compagnia MaMiMòLa meccanica del cuore, Centro TeatraleMaMiMò e Teatro Gioco Vita (qui l’intervista integrale)

Una scena de La meccanica del cuore (dal sito: canalearte.tv; ph: Nicolò Degl’Incerti Tocci)

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono.

Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Nella Califano, Michele Spinicci




Verso nuovi immaginari comuni: conversazione con Renata Coluccini

Siamo
a Castelfiorentino, sede insieme a Empoli della IX edizione di Teatro fra le
generazioni, organizzato dalla compagnia residente Giallo Mare Minimal Teatro.
Una delle modalità che abbiamo scelto per raccontare i quattro giorni di
quest’anno (dal 19 al 23 marzo 2019) è una serie di brevi conversazioni con
alcuni dei professionisti presenti, in cui ci concentreremo particolarmente sul
rapporto che l’arte intesse con la pedagogia all’interno del teatro per
ragazzi.

La
prima di queste interviste è a Renata Coluccini, del Teatro del Buratto. La
incontriamo al Teatro del Popolo di Castelfiorentino, immediatamente al termine
di Amici per la pelle (il titolo è
ancora provvisorio), una coproduzione Teatro del Buratto e Atir Teatro
Ringhiera di cui è regista. Lo spettacolo, con la drammaturgia di Emanuele
Aldrovandi e Jessica Montanari, apre il secondo giorno del festival. Gli
interpreti sono Mila Boeri e David Remondini.

Lo spettacolo presentato in forma di studio è al suo debutto. Al termine, la Coluccini non manca di domandare ai bambini le loro impressioni. Cosa non hanno capito, cosa li ha resi tristi e cosa li ha fatti ridere. Del resto, come ci dice poco dopo, recepire le reazioni, positive o meno, dei propri interlocutori è il primo passo per cercare nuove strade, per arrivare a un momento di “ridefinizione”.

Come si manifesta in questo spettacolo il rapporto tra arte e pedagogia?

Devo
premettere che per questo lavoro si sono incontrate per la prima volta diverse
persone e diverse realtà: Emanuele Aldrovandi e Jessica Montanari che hanno
scritto il testo, gli attori, Mila Boeri e David Remondini, che vengono
dall’Atir Ringhiera, e io che sono del Teatro del Buratto. Io vengo dal teatro
per ragazzi, gli altri no, o non solo. Perciò durante tutto il percorso, nelle
discussioni sul testo, sulla messinscena, la regia, mi sono trovata spesso a
dire “questo è giusto per i ragazzi, quest’altro non lo è”. In questo modo ho
anche dovuto pormi degli interrogativi sulla questione, dare delle risposte e
motivarle. Non sempre è stato facile, ma certamente è stato utile.

L’educazione
comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto
d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e
chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che
curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è
che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in
scena.

In questo caso l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Ci ha colpito molto l’essenzialità della rappresentazione. È uno strumento per accendere l’immaginazione nel tuo pubblico?

Questo è un punto cruciale. Il teatro, per ragazzi ma non solo, più evoca e meno descrive e meglio è. Solo così diventa un incontro, un momento comunitario tra chi lo mette in scena e chi partecipa da spettatore allo spettacolo. Se porti il pubblico a mettere la sua carne, il suo pensiero, il suo cuore nello spettacolo, senti di costruire dei paesaggi immaginari comuni, che cambiano a seconda di dove vai e degli spettatori che incontri. È una delle cose più affascinanti del teatro per ragazzi, il pubblico ti fa davvero cambiare lo spettacolo.

L’ho detto anche ai miei attori per questo spettacolo: se riuscite a prendere i ragazzi per mano e a fare un viaggio con loro, una volta terminato, sarete cambiati anche voi. Certo, è un’esperienza che dura poco, 50 minuti, ma ogni volta è tangibile e differente, ogni volta si incontrano nuove reazioni e si creano nuovi immaginari.

L’essenzialità poi aiuta a fare emergere le parole – e in questo spettacolo ce n’erano di particolarmente belle – ma anche il silenzio. Di immagini direi che forse siamo anche saturi.

La presenza così forte di silenzi potrebbe essere una sfida rispetto ai tempi frenetici della contemporaneità?

Sì, come anche la presenza di dialoghi lunghi e complessi. Ci ha sorpreso quanti concetti “difficili” o “da adulti” sono arrivati con forza ai ragazzi e li hanno colpiti.

Cosa pensi che manchi oggi al mondo del teatro per ragazzi?

Sicuramente
lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e
teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si
concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei
contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade
conosciute, e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione, in cui chiedersi cos’è oggi quello che facciamo, in cui fare un punto.

Marzio Badalì, Nella Califano, Michele Spinicci




Tanti linguaggi che parlano una sola lingua, quella del teatro

C’è una delle scene finali di Kill Bill, in cui il “cattivo” che dà titolo al film discetta della filosofia alla base dei fumetti sui supereroi. Uno in particolare sembra discostarsi da tutti gli altri: «Quando Superman si sveglia al mattino, è Superman. Il suo alter-ego è Clark Kent. […] Quello che Kent indossa, gli occhiali, il vestito da impiegato, è il suo costume. È il costume che Superman usa per adattarsi a noi. Clark Kent rappresenta il modo in cui Superman vede noi umani».
Superabile della compagnia Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, proposta del Festival Segnali tra l’altro vincitrice di un premio Eolo, sembra utilizzare un meccanismo simile, sembra mettere in atto un ribaltamento di sguardo che chiama subito in causa una certa idea di normalità e di “potere”, nel senso di capacità di agire nel quotidiano. I quattro personaggi dello spettacolo, di cui due in carrozzina, sono immersi proprio in un mondo da fumetto, in vere e proprie strisce disegnate (fatte scorrere su una lavagna che le proietta su di un grande schermo sul fondo del palco), scenario delle loro azioni. Con ironia lieve ma spesso anche caustica, ora rivolta verso se stessi ora verso chi non è portatore di una disabilità comunemente intesa, ci raccontano di gesti, sentimenti, difficoltà e frustrazioni che abitano la loro vita di tutti i giorni. E ci indicano il perché non è una vita “normale”: fintanto che la società ci spinge al restringimento di tempi e ritmi, a considerare il lavoro e le relazioni come delle performance, non ci sarà mai “luogo” per la diversità.
È significativo che il fumetto e il disegno, discipline che in maniera forse più immediata di altre rivelano il loro carattere di rappresentazione personale e fittizia, si facciano strumenti per ragionare di temi che paiono invece incarnarsi nelle fibre più concrete dell’individuo: libertà, coraggio, amore. E lo fanno appunto ponendosi in contrasto visivo e stilistico con i corpi vivi, in qualche modo teatralmente pesanti, degli attori. Skreek – a comic revolution, una produzione di Dascollectiv con la regia di Giovanni Jussi: un vertiginoso gioco di scatole cinesi, che rompe in continuazione tutte le quarte e le quinte pareti possibili. Ad accoglierci in sala è infatti un video che mostra delle riprese in tempo reale dell’esterno del teatro. Poi vediamo la protagonista in carne e ossa entrare dalla porta laterale e dirigersi verso il bordo del palco, dove è apprestata una “sala di comando” fatta di cavi, mixer e microfoni. Da lì lei, la “Creatrice”, si mette in comunicazione con Jean Luke, materializzatosi sullo schermo in un altrove in bianco e nero che ha tutte le fattezze di un comunissimo appartamento, trasfigurato però da linee e oggetti disegnati a mano, ancora una volta vicini a un’estetica da graphic novel. Chi è Jean Luke? È un personaggio virtuale, pare frutto dell’immaginazione della Creatrice, un “supereroe andato in pensione”, un ragazzo che vuole salvare il mondo, ma non sa come farlo. Tantomeno sa bene cosa sia il “mondo”, visto che è confinato fra le quattro mura dell’appartamento, immagine nata dalla mente di colei che lo ha creato. Eppure da lì vuole scappare, reclama la propria libertà. A un certo punto, per compiacerlo, la Creatrice chiama un volontario dal pubblico, che dovrebbe andare a far compagnia a Jean Luke. Si alza Davide, un ragazzino che viene condotto dietro le quinte e infine risucchiato nello schermo, dentro l’appartamento del supereroe il quale, dopo aver brevemente tentato di fare conoscenza, lo prende in ostaggio e si “compra” così la propria fuga dal mondo virtuale: mentre un video finalmente a colori ci mostra Jean Luke uscire dal teatro per le strade di Milano, Davide rimane invece imprigionato nel monocromatico appartamento, in un loop drammaturgico che segna la fine dello spettacolo.
«La felicità consiste nella libertà, e la libertà nel coraggio» recita il libretto di scena di Skreek di Dascollectiv, riprendendo Pericle. Eppure, la chiusura ambigua e amara delle vicende sembra suggerirci che la nostra libertà è quasi sempre a spese di qualcun altro.

Frankie

C’è, in questa ambiguità e amarezza, un ribaltamento anche formale. Fumetto, disegno e illustrazione, che a prima vista potrebbero essere considerati come un “porto sicuro” dell’evasione e della fantasia, si fanno invece segno di una certa componente oscura, quasi distopica. Invece di lanciarci verso nuovi universi e avventure, paiono costringere e racchiudere in microcosmi asfittici. Tale è la gabbia domestica in cui è confinato Jean Luke. Similmente, la quotidianità dei protagonisti di Superabile di Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt assume dei tratti claustrofobici, rivela dei confini difficili da forzare. L’essenzialità del disegno, in particolare se in bianco e nero e “a pennarellone” come succede in buona parte di questi spettacoli, assume quindi una funzione per così dire “espressionistica”. Tesa cioè a espungere dalla realtà le sfumature, per rimarcarne al contrario gli elementi più perturbanti e stridenti. Ma tesa soprattutto, come accennavamo in precedenza, a reclamare per la presenza dei corpi attoriali in scena uno statuto di verità che in qualche modo si sporga oltre il teatro, si affacci con il busto e il volto fuori dalla scena, pure restandovi dentro con i piedi ben ancorati. «Siete sicuri di essere reali?» ci chiede la protagonista di Skreek, mentre i due personaggi in sedia a rotelle di Superabile si guardano l’un l’altro e si domandano: «Che cosa vedi?» «Due occhi, un naso con un neo, un volto…».
Le componenti smaccatamente rappresentative e finzionali esprimono il punto di vista e i sentimenti dei personaggi, oggettivizzandoli nel fumetto, mentre i loro corpi e i pensieri che da quei corpi provengono procedono più vicini a noi, per una sorta di “sbalzo percettivo”. Ecco dunque che l’utilizzo di linguaggi altri, la messa in campo dei nuovi media sulla scena, serve in fondo a ribadire il più antico dei linguaggi teatrali: la compresenza di attore e spettatore, impegnati quasi in egual misura in un comune processo di partecipazione emotiva. Con il dubbio, però, che i ruoli siano saltati, perché gli attori sul palco diventano praticamente spettatori di se stessi, dei propri flussi mentali che scorrono sullo schermo. E noi in poltrona ci sentiremmo chiamati a intervenire, visto che, lasciati così come sono, gli sviluppi di Superabile e Skreek così come quelli di Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto sembrano faticare a procedere, ingolfarsi, entrare in strani loop…  Perché è il nostro punto di vista sulla diversità, sul potere, sul coraggio a dover cambiare, per dare alle storie un altro esito. Potremmo essere dei potenziali deus ex-machina, e restiamo inchiodati al nostro posto. Ma, via via che gli spettacoli ci pongono di fronte alle nostre responsabilità, è un posto sempre più scomodo.
Il pubblico è testimone quindi e, per essere testimoni, è necessario rendersi consapevoli, come scriveva Ubersfeld, della dinamica di “denegazione”. Senza rinnegare la realtà che avviene sul palco, il pubblico deve accettarla come altra, accogliendone la profonda veridicità e la responsabilità etica ad essa connessa: lo spettatore deve poter andare fino in fondo, non essere mai estraneo, nonostante il gioco finzionale e la distanza rispetto a ciò che vede sul palco.
Come per l’oscuro spettacolo Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto, che, attraverso un’estetica da primo cinema muto, grazie anche a quello schermo velato, filtro della visione e concreta parete da superare, racconta una storia – su fondo nero – in cui il pubblico non può far altro che immergersi, ma prendendo una posizione. Non si esce dallo spettacolo senza un’opinione. Il racconto senza parole di un figlio, marionetta creata da Mariella Carbone, abbandonato sempre più a se stesso a causa degli impegni dei genitori, è tutto contemporaneo. Le movenze ripetute, alienanti, da pupazzo di legno appartengono però più ai vivi che alla marionetta stessa. Sarà un disegno a riconsegnare al figlio la possibilità di sognare un mondo altro, reso vivo da un essere immaginato e immaginario, quel mostruoso Frankie alla Mary Shelley che si rivela l’unica opportunità di fuga da una realtà buia, ripetitiva e claustrofobica. Un finale aperto, il ritrovarsi della famiglia oltre la cortina del velo, al confine con la platea, che lascia spazio a interpretazioni anche opposte, nasconde in sé la responsabilità dello spettatore.
Il teatro, con il mistero e il celato che gli concedono vita e sostanza, può risalire al suo essere evento in dialogo con la natura umana più profonda proprio grazie all’unione di differenti linguaggi. Non un’unione sintetica o pacificata, ma, seguendo Artaud nel suo Sul teatro libanese, una sorta di fusione che metta l’accento sull’interferenza tra segni significativi ed espressivi diversi. Che si tratti di fumetti, tecnologie all’avanguardia, immaginario cinematografico, nella programmazione della XXIX edizione di Segnali gli spettacoli che uniscono forme espressive diverse in scena lo fanno per metterle in contrasto con il dispositivo teatrale, giocando sull’interferenza e non sulla sintesi di linguaggi, rimarcandone la mancanza di identità.

Francesco Brusa, Camilla Fava




Uno sguardo mai fermo. Conversazione con Renata Coluccini e Giuditta Mingucci al festival Segnali

Dal 2 al 4 maggio saremo presenti come osservatorio critico al Festival Segnali di Milano, fra i principali appuntamenti nazionali di teatro ragazzi. Una rassegna giunta alle ventinovesima edizione, che ha spesso saputo coniugare un particolare sguardo sulle compagnie del territorio con una vocazione internazionale. Abbiamo conversato con le direttrici del festival, Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, provando a ragionare sul presente e sul futuro della scena per l’infanzia.

Ci potete presentare l’edizione di quest’anno e le scelte compiute? In generale, quali domande si pone o si dovrebbe porre chi organizza un festival di teatro ragazzi?

Giuditta Mingucci: Il lavoro di direttrici artistiche è sempre interessante: ricevere tante proposte consente di avere il polso di quello che sta succedendo in giro per l’Italia nel settore del teatro per ragazzi e individuare una serie di tendenze. Non abbiamo ovviamente la pretesa di avere il controllo di tutto, molte compagnie hanno presentato i loro lavori in altri festival e altre non sono rientrate nei nostri tempi di programmazione. Una grossa parte delle novità però confluisce certamente sotto il nostro sguardo. Restituire questa complessità è per noi una grossa responsabilità, da una parte verso le compagnie e dall’altra verso gli operatori che frequentano il festival con l’obiettivo di capire dove sta andando il teatro ragazzi e di trovare proposte interessanti da programmare. Tale criterio di responsabilità ci guida sempre nella selezione.
Da questo punto di vista, cerchiamo dunque di includere proposte di nuovi gruppi o nuove formazioni ma anche di osservare come stanno procedendo le compagnie con una storia più lunga alle loro spalle, nel tentativo di mostrare come proposte un tempo dirompenti abbiano poi inaugurato percorsi consolidati, che si evolvono continuamente dalle premesse iniziali. Anche quest’anno c’è inoltre la presenza di due compagnie internazionali: è sempre più frequente infatti la collaborazione tra artisti e/o istituzioni di paesi diversi all’interno dell’Europa. Sono elementi di novità che rispecchiano tra l’altro direzioni secondo noi assolutamente auspicabili per il teatro ragazzi.

Renata Coluccini: Quando ci troviamo davanti alla scelta degli spettacoli per Segnali, un pensiero che ci attraversa sempre e che dà adito a interessanti discussioni è capire quando uno spettacolo è da festival e quando è da programmazione. A volte le cose coincidono e a volte no, ma crediamo che nel festival debbano trovare spazio lavori che, per tema o linguaggio, osano un po’ di più e che proprio per questo possono avere più difficoltà di programmazione. Il festival è il luogo giusto per dargli voce.
Rispetto al programma del 2018 si può sottolineare la presenza di diversi “Pollicini”, fatto che ci ha incuriosito e ci ha spinto a interrogarci sull’importanza del tema del perdersi e del ritrovarsi. Tra le proposte che abbiamo ricevuto ce n’erano appunto tre legate alla fiaba, molto diverse tra loro: ci sembrava interessante allora proporre un Pollicino al giorno, anche come stimolo alla riflessione su come una stessa fiaba possa essere trattata in modi e con linguaggi diversi.

GM: Per quanto riguarda proprio i linguaggi, quest’anno ne toccheremo diversi: avremo un’orchestra, circo, esperimenti ad alto tasso di tecnologia e altri ad alto tasso di tradizione, e anche due spettacoli senza parole.

Avete menzionato il tema della perdita e dell’abbandono come uno dei possibili fil rouge trasversali al festival: come affrontare temi difficili e fino a dove si può spingere il teatro, e l’arte in generale, nell’affrontare temi complessi senza spaventare un pubblico giovane? Quanto e come osare?

RC: Credo che il problema non sia del pubblico giovane. Gli spettacoli rivolti all’infanzia o agli adolescenti possono trattare qualsiasi tematica, se lo fanno con il giusto linguaggio. Il problema spesso nasce da chi decide per i ragazzi se possono vedere o meno uno spettacolo, ovvero dagli insegnanti. La paura è adulta: i temi non sono tabù per il pubblico di riferimento, ma sono gli insegnanti che, a monte, hanno paura di attraversare questi stessi temi con i ragazzi. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso a Segnali con Racconto alla rovescia, che trattava il tema della morte: non c’è stato nessun problema nella ricezione.
I temi cosiddetti tabù (la morte, l’abbandono, la sessualità…) d’altra parte sono temi importantissimi per tutti noi, al di là dell’età, e credo che ogni artista sviluppi urgenze espressive legate a essi. È allora giusto che li attraversi: quando il teatro (in special modo quello rivolto all’infanzia) parte da urgenze sincere, e autentiche, funziona.

GM: Toccare temi tabù è molto importante, ma non deve rimanere un pensiero astratto, didattico nel senso deteriore del termine. La sorgente artistica è quella che ti consente di trovare la strada giusta per parlare di qualunque cosa. Senza dubbio è necessario un ulteriore lavoro da parte di chi produce per veicolare questo messaggio e perché gli spettacoli arrivino dove devono arrivare. Abbiamo a che fare con un pubblico che è inevitabilmente mediato e un lavoro di mediazione è quindi necessario. Capita spesso che spettacoli importanti non richiamino pubblico a causa del titolo o del tema, nel confronto con determinate fasce di età, ma tutto dipende da come questi contenuti vengono trattati.

Giuditta Mingucci

Segnali compie ventinove anni e con il Festival è cambiato anche il pubblico: cosa chiedono oggi come spettatori giovani e adolescenti che vengono a teatro?

GM: Mi viene in mente un’esperienza che abbiamo vissuto come compagnia insieme ad altre realtà europee di produzione per questa fascia d’età: dalla Finlandia la richiesta dei giovani che partecipavano al progetto era rivolta a un teatro che non parlasse più di bullismo o anoressia. Questo è un indicatore importante di come ci poniamo nei confronti del teatro ragazzi in quanto adulti. Spesso, infatti, ci concentriamo su problematiche che gli adolescenti vivono diversamente rispetto a noi. È per questo che è fondamentale mantenere un dialogo aperto e, come molte compagnie fanno, lavorare partendo da laboratori in cui i ragazzi partecipino, dunque da un confronto molto diretto con loro ancora prima di andare in scena.

RC: Il cuore della questione credo stia nel non fare degli spettacoli solo “per” adolescenti, ma “con” loro. Lavorare con i ragazzi mi mette in crisi ogni volta, in una crisi positiva che si trasforma in crescita e in mutamento di prospettiva.
Da anni come compagnia di produzione stiamo portando avanti un progetto con adolescenti e preadolescenti che ci permette di avere un contatto diretto con loro. Se noi leghiamo il loro essere adolescenti al fatto di avere dei problemi giusto perché sono in una fascia d’età complessa la loro reazione sarà sempre: “perché devo sopportare questo carico?” È perciò necessario costruire dei percorsi insieme a loro prima di andare in scena. Il modo di “rappresentarli” e di parlare di loro poi può variare: dalla provocazione, perché no, alla radiografia.

A tal proposito, quali aspetti della “vita adulta” vengono messi in crisi dallo sguardo adolescente e bambino?

GM: I ragazzi vanno all’origine delle cose, sono capaci attraverso domande semplici di trovare il cuore dei problemi. Chiedono le ragioni di ciò che vedono e di ciò che accade facendo domande importanti e puntuali senza giocare, come magari capita a noi, con la superficie. Il rischio per noi adulti è infatti dare troppe cose per scontate perché pensiamo di averle ormai metabolizzate. Invece la comprensione che abbiamo acquisito necessita di essere interrogata: si scade nella banalità se si cessa di porre e porsi domande. Diviene così fondamentale essere riportati all’origine delle cose con quella purezza, quella percezione della novità e anche dell’eccezionalità dell’ordinario che è cifra distintiva di un pubblico di ragazzi. Anche al livello della teatralità, le reazioni che ha il pubblico più giovane rivelano una curiosità e una passione nei confronti del teatro in sé, anche nei suoi aspetti tecnici, che per noi sono ovvie o poco interessanti. È uno sguardo altro, che stimola in quanto diverso. Per ricollegarsi alla XXIX edizione di Segnali, per noi è importante che ci siano due proposte internazionali, che danno un’altra prospettiva sulla realtà che ci circonda. Avere la possibilità di spostare lo sguardo è sempre un grande vantaggio, non tanto per cambiare ciò che siamo, ma per approfondire la coscienza e la percezione della propria identità in relazione con ciò che è altro da noi. Questo confronto non deve trasformarsi necessariamente in condivisione di punti di vista o visioni sul e del mondo, ma è assolutamente necessario per spingersi più lontano.

RC: Quando incontri i ragazzi accade davvero che il tuo sguardo si sposti in un duplice movimento: verso l’interno e verso l’esterno. Inizi a guardare la società e il te stesso più profondo da un’angolazione leggermente diversa riscoprendo aspetti che davi per scontati o per acquisiti. Questo confronto penso ti mantenga vivo, attento, critico. Credo che sia nostro dovere di adulti stimolare negli adolescenti un spirito critico che è parte di ognuno di noi, che deve solo essere “risvegliato”. Nel momento in cui i ragazzi riescono a tirare fuori questo sguardo critico sulla realtà modificano anche il nostro di adulti.

Negli ultimi tempi assistiamo a molte compagnie di ricerca che si misurano con spettacoli per ragazzi…

RC: Quando ho iniziato a occuparmi di teatro ragazzi, le compagnie di teatro ragazzi si mescolavano molto con quelle di ricerca. I due ambienti erano molto prossimi, ci si incontrava, si parlava, si discuteva. Dopodiché c’è stata una separazione. Il fatto che qualcuno che fa teatro di ricerca per adulti abbia voglia di misurarsi con i più giovani per me è qualcosa di molto “organico”, di molto coerente. Di fatto i ragazzi ti spingono a non stare fermo, non puoi dire “ho trovato il linguaggio della mia vita e farò sempre questa cosa”. Loro cambiano e tu devi cambiare di conseguenza, anche andandogli contro. Come per noi che facciamo teatro ragazzi è sano misurarci con altri pubblici di riferimento, così mi sembra altrettanto sano e necessario il percorso inverso. I ragazzi rappresentano uno stimolo eccezionale per mettere in gioco ciò che ritieni già acquisito e provare a misurarti con percorsi, linguaggi e tematiche nuove.

GM: Peter Brook stesso, in particolari fasi della preparazione dei suoi spettacoli, portava i propri attori nelle scuole per mettere, diciamo, “sotto stress” il lavoro fin lì compiuto attraverso la relazione con i ragazzi. Non mi stupisce questa esigenza delle compagnie di ricerca.

Renata Coluccini

Provando a fare uno sforzo di immaginazione, cosa chiedereste al teatro ragazzi del futuro?

RC: Penso che il teatro ragazzi in questo momento per svilupparsi abbia bisogno di essere sostenuto in maniera seria, anche economicamente. Non può vivere solo dello sbigliettamento, perché una politica che voglia intercettare esigenze e desideri dei ragazzi è costretta a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. Riempire le sale non è qualcosa di positivo a priori, il teatro ragazzi dovrebbe a volte sperimentare misure e dimensioni diverse, anche piccole… Mi piacerebbe che si potessero creare davvero delle reti fra le realtà che già stanno operando sul territorio: un aspetto fondamentale, su cui stiamo lavorando già in vari modi. Infine vorrei che ci si potesse concedere dei margini di errore, perché penso che la ricerca passi anche da questo. A volte il rischio è ritrovarsi presi da doveri produttivi di tempi, di ritmi, di dati ministeriali e non, che impediscono di concederti quella che è una ricerca che sbaglia per trovare la strada… come Pollicino, appunto. Questa è la mia utopia. La mia utopia sarebbe un festival dell’errore, dove portare tutti i propri percorsi sbagliati ma da cui trovare, poi, delle strade.

GM: Aggiungerei anche che il teatro-ragazzi è un ambito che merita un ulteriore approfondimento critico, ed è per questo che ci sforziamo di unire la qualità artistica in quanto tale con approcci e stimoli che definiscano un riferimento per il pubblico giovane. Rispetto al teatro “per adulti”, il teatro ragazzi è forse un po’ meno studiato e approfondito dall’esterno. Sarebbe molto importante riuscire a sviluppare nei prossimi anni uno sguardo di questo tipo.

RC: L’altro tentativo che stiamo facendo adesso, anche con il festival di Castelfiorentino, è quello di circondarci o trovare dei “complici”. Il contatto con l’università ad esempio, con figure che si occupano di aspetti educativi, creativi e pedagogici legati ai giovani (come accadrà nel convegno organizzato il 2 maggio), ha l’obiettivo di creare un movimento di pensiero che non sia limitato solo al teatro, ma con cui provare ad affrontare insieme il futuro. Si tratta proprio di ritrovare un movimento culturale in senso lato, di cui una componente importantissima deve essere il teatro.

Francesco Brusa, Camilla Fava, Francesca Serrazanetti




Tristezza, dolore e riscatto: terza istantanea da Segnali

La terza giornata di Segnali ha portato l’eterogeneo pubblico, piccolissimi spettatori, ragazzi, famiglie e operatori, in un luogo prezioso: Bì, la fabbrica del gioco e delle arti. Uno spazio polifunzionale e dinamico che ospita un caffè, la biblioteca di Cormano, il museo del giocattolo con oltre 900 pezzi fra macchinine, bambole, trenini e tutti quei giocattoli che hanno accompagnato la crescita dei più piccoli tra il Settecento e la seconda metà del Secolo Breve, e il Teatro del Buratto.
Il Centro dell’infanzia di Cormano, nato nel 2010, fin da subito si è affermato come un’eccellenza, unico spazio dell’hinterland milanese completamente dedicato ai bambini. Molti i commenti sorpresi di genitori e nonni, più emozionati dei piccoli spettatori per la scoperta di un luogo unico nel panorama meneghino.
Gli oltre duemila metri quadrati di questa ex fabbrica dei primi del Novecento hanno iniziato a risuonare di risate, giochi e scaramucce fin dal mattino, prima degli spettacoli Un amico accanto della Compagnia Mattioli e Nemici di Panedentiteatro.

È una figura fantasiosa ad aprire Un amico accanto della Compagnia Mattioli  (spettacolo consigliato per i bambini dai 3 ai 7 anni): due corpi per una giacca, quattro braccia per due maniche e sei scarpe che si muovono, ma che non sono al loro consueto posto e ingannano la normale percezione. Le due attrici sul palco, Monica Mattioli (anche regista dello spettacolo assieme a Monica Parmagnani) e Alice Bossi, dopo essersi contese la giacca, diventano la prima il draghetto solitario protagonista di questa storia, e l’altra il servo di scena di nero vestito che con efficacia muove i semplici e pochi oggetti presenti nel lavoro. Stufo di giocare solo e ritagliare omini di carta, Drotto parte alla ricerca di un amico e lo fa con l’aiuto della fantasia: un semplice palloncino in mano, la valigia nell’altra e lo sguardo pieno di stupore gli permettono così di volare mentre le stagioni passano evocate dalle foglie autunnali portate dal vento, da coriandoli bianchi che ricreano la neve, rami di alberi fioriti in cui si imbatte il draghetto desideroso di confronto. Se elementi di leggerezza e giocosità non mancano, aleggia però su tutto il lavoro una costante tristezza: nel suo viaggio Drotto incontra dei personaggi buffi e curiosi che appaiono e scompaiono ma con cui è impossibile comunicare; l’unica infatti a parlare con lui è una mela che, essendo però commestibile, viene divorata da un tricheco. Al suo posto non rimane che un torsolo e la gioia del protagonista, di nuovo triste e solo, è confinata nella possibilità di giocare e correre intorno a un melo cresciuto grazie agli amabili resti della sua amica: forse in una società in cui le persone hanno “La fretta”, come dice spesso Drotto, e gli esseri umani non comunicano tra loro, l’unica consolazione è imparare a stare bene con se stessi, apprezzando la poche piccole cose che ci circondano, come la natura. (c.t.)

Siamo di fronte a uno spettacolo che parla di guerra, e che vuole farlo con i ragazzi più piccoli, dagli 8 anni in su, ma senza per questo tralasciarne le immagini più inquietanti e spaventose. Nemici della compagnia Panedentiteatro solleva delle questioni fondanti per chi pensa allo spazio teatrale come a un luogo di resistenza, in grado di infondere nel pubblico il desiderio di lottare, in particolare contro una visione del mondo che ci viene data da altri, dall’alto.
Una buca da trincea in cui si nasconde un solitario soldato, interpretato da Enrico De Meo, che non si chiama più per nome, ma con un codice identificativo, qualche barattolo di latta vuoto e un manifesto appeso ai sacchi di sabbia che lo proteggono dal nemico sono tutto ciò che compone la scena. Una scena circolare come i movimenti del soldato che, incalzato da una voce in falsetto fuori campo, continua a ripetere, giorno dopo giorno, le stesse azioni, senza senso, senza inizio né fine, senza la possibilità di fuga da quel buco claustrofobico in cui ha trascorso oltre 1200 giorni. La voce lo osserva, lo sprona all’odio per il nemico, non gli lascia respiro nemmeno negli unici momenti della giornata in cui potrebbe darsi pace: il pasto e la notte. Il soldato senza nome prepara la tavola con quel che ha: un baule, due bende, sei scatole di piselli, una gavetta, un elmetto e l’oggetto più prezioso, insieme al manuale del buon soldato, la foto di sua moglie, sola vera interlocutrice da quando il “compagno di buca” è morto. L’unico pasto della giornata viene interrotto dall’obbligo di ripetere l’alfabeto del nemico: A come abominevole, B come bestia, C come codardo e così via fino alla Z di zozzo. Dopo un’attesa da Deserto dei Tartari in un mondo tanto simile a 1984 di Orwell viene chiesto l’ultimo sforzo al soldato: attaccare il nemico, uno, solo, nella buca di fronte. Il cerchio della scena si ribalta, il nemico è scappato, e il nostro protagonista si ritrova in un mondo che è l’esatto speculare del suo: una trincea identica, gli stessi piselli, la stessa voce che parla in una lingua diversa, unica differenza… (c.f.)

Alle dieci del mattino il Museo del giocattolo di Bì, la fabbrica del gioco e delle arti è gremito di bambini piccolissimi, dai pochi mesi fino ai tre anni. Un pubblico tutto particolare quello di Ecco io qui. Narrazione sensibile per piccoli spettatori di Nudoecrudoteatro. Alessandra Pasi e Judith Annoni cantano una filastrocca, ammaliando i bambini, catturandone l’attenzione, riuscendo fin dai primi minuti a coinvolgerli nello spazio della scena. Questo è il fine di Ecco io qui, permettere ai più piccoli di sperimentare con tutti i loro sensi, guidati dalle attrici, i materiali e gli oggetti più disparati: cuscini di iuta, di lana, riempiti con grano e profumati come fiori, grandi quadrati di legno in cui entrare, tende di seta, specchi in cui riconoscersi o riconoscere l’altro, pezzi di legno da toccare o da suonare. Il vero spettacolo qui sono proprio i bambini che, sotto il vigile sguardo delle due attrici e delle mamme, sperimentano un mondo a loro misura, iniziano a conoscersi, giocano insieme, si prendono per mano per far scoprire al nuovo amico appena incontrato un cuscino particolarmente profumato, i giochi di luce che si possono creare con uno specchietto, la musica che può scaturire da una semplice corda tesa. Per tutta la durata dello spettacolo neanche una scaramuccia, nemmeno un pianto o un litigio e le attrici, spentesi le luci sulla scena, accendono piccole torce e cantano una canzone d’arrivederci di fronte allo sguardo luminoso dei loro piccoli spett-attori. (c.f.)

I trecento posti del Bì Teatro alle 11.00 sono gremiti di pubblico: nelle prime file i bambini e dietro di loro una folla di spettatori di ogni età. In scena c’è Becco di rame di Teatro del Buratto, uno spettacolo tratto dal libro del veterinario Alberto Briganti alla cui ideazione hanno lavorato Jolanda Cappi, Giusy Colucci e Nadia Milani, Matteo Moglianesi e Serena Crocco, questi ultimi anche in scena.
Ci accoglie all’apertura del sipario una notte senza stelle in cui le uniche luci provengono da piccole case fluttuanti nel nero della scena. Becco di rame è infatti uno spettacolo su nero in cui i protagonisti, tutti animali di stoffa, prendono vita grazie ai tre attori che li muovono senza mai far percepire la loro presenza, con grande stupore dei piccoli spettatori. Nello stile di un classico romanzo di formazione scopriamo la storia – vera – di un pulcino, salvato da un mercato e portato in una fattoria. Inizialmente solo, timido e spaesato incontrerà tre curiose galline, un po’ diffidenti perché incapaci di dargli un nome, troppo diverso da qualunque animale abbiano visto: è un cigno, o forse una papera? Il piccoletto non lo sa, si sente rifiutato, ma la conoscenza di Madame C., una cicogna viaggiatrice, e come tutti i viaggiatori esperta del mondo, gli permetterà di scoprire chi è: una regale oca Tolosa, capace di instaurare ottimi legami con tutti gli animali che la circondano. Il pulcino, accompagnato dalla sua famiglia adottiva, una coppia di innamoratissimi maiali, inizia a crescere: i click di una fittizia macchina fotografica fissano i momenti salienti della sua giovane vita. La mente corre all’infanzia di noi spettatori adulti, ogni frame ci appartiene, accomunandoci a tutti i bambini che assistono ridendo al primo compleanno del protagonista, ai suoi giochi, al primo bagnetto dal quale uscirà ormai grande. Divenuto oca da guardia il piccoletto è ora sicuro di sé e tiene al sicuro tutta la fattoria, ma un’enorme volpe meccanica si sta avvicinando pericolosamente. Nella lotta, un combattimento in perfetto stile disneyano, l’oca Tolosa perde la parte superiore del becco, ma riesce a scacciare il malvagio predatore.
Sarà un veterinario, quell’Alberto Briganti che ne ha scritto la storia, a salvargli la vita con una protesi in rame per il becco ed è a questo punto che tornano la paura di essere diverso e il timore di sentirsi nuovamente rifiutato. Invece la sua storia lo rende un simbolo di forza d’animo e coraggio, il suo becco sfavillante un esempio per tutti, grandi e piccini, del fatto che essere diversi non significhi essere peggiori. Alla fine dello spettacolo un emozionato Alberto Briganti è entrato nel Bì Teatro con una grande sorpresa per tutti: il vero Becco di rame sale sul palco, le sue grandi e grigie ali spiegate verso una tournée in scuole, teatri e centri culturali per far ammirare il suo lucente becco, per raccontare a chiunque abbia voglia di ascoltarla la sua storia. (c.f.)

Camilla Fava, Carlotta Tringali




Festival Segnali. Intervista a Renata Coluccini e Giuditta Mingucci

Dal 2 al 5 maggio si svolge la XXVII edizioni del Festival Segnali, organizzato dai Centri di Produzione Teatrale Teatro del Buratto e Elsinor. Ospiti di Segnali, che si svolge a Milano al Teatro Verdi e al Teatro Sala Fontana e a Cormano saranno 19 spettacoli tra cui 5 produzioni di Compagnie Lombarde sostenute da NEXT, progetto della Regione Lombardia per la produzione e circuitazione della compagnie del territorio. Un cartellone nutrito e variegato che vuole rivolgersi sia ad addetti ai lavori sia al pubblico cittadino, con 12 debutti nazionali e due ospitalità dall’estero. Oltre agli spettacoli si segnala il convegno Teatro è scuola (mercoledì 3) con i rappresentanti del Mibact e Miur, delle Istituzioni Regionali, delle Università, delle Associazioni di categoria e degli operatori di settore e lo storico appuntamento con la consegna degli EOLO AWARDS organizzati dalla rivista di teatro ragazzi Eolo e dedicati a Manuela Fralleone, premi destinati agli spettacoli e agli artisti che si sono distinti nell’ambito del teatro ragazzi.

Abbiamo incontrato le direttrici artistiche Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, chiedendo loro di approfondire alcuni nodi legati a Segnali e in generale alle arti in dialogo con le giovani generazioni.

Segnali è un festival di lungo corso, quali sono le domande che lo nutrono, e come sono cambiate nel tempo?

Renata Coluccini La storia di Segnali è complessa perché il festival nasce innanzitutto come vetrina promossa dalla Regione. Inizialmente, dunque, non era organizzato soltanto da Elsinor e Teatro del Buratto ma anche da altre realtà lombarde. Al di là dell’aspetto di vetrina annuale di produzione, il festival ha sempre voluto rivolgersi a un pubblico ampio pur partendo dalla specificità dello sguardo dei ragazzi. Negli ultimi anni ci sono stati dei ripensamenti strutturali, da un’iniziale sostegno molto forte da parte della Regione, che ha generato tra l’altro un’apertura internazionale del festival, siamo passati a un periodo in cui Elsinor e Teatro del Buratto sono state le sole realtà organizzative. Quest’anno annunciamo il ritorno del sostegno della Regione che si concretizza nel progetto Next – Laboratorio delle idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo, un’iniziativa che si rivolge a un pubblico di adulti ma ospita la parte relativa al settore ragazzi all’interno di Segnali. Pensiamo dunque di poter rimarcare una certa solidità del festival, anche durante i tempi di “crisi”, ottenuta anche grazie al completo appoggio delle compagnie che vi hanno di volta in volta partecipato.

Giuditta Mingucci Nell’edizione che sta per iniziare sperimentiamo una spiccata apertura verso la città, parte di un generale ampliamento e maturazione del festival. Accennavamo prima alla questione del tout public, il nostro volerci rivolgere a tutti: quella del “teatro ragazzi” è una definizione che rischia di chiudere, invece è necessario ribadire come sia una forma d’arte potenzialmente fruibile da qualsiasi tipo di spettatore. Ovviamente i ragazzi rimangono i referenti principali, ma resta “teatro”, dunque una proposta fruibile da diverse collettività; assistere a una replica di teatro ragazzi costituisce un prezioso momento di scambio all’interno delle famiglie o nuclei che si presentano in sala con i bambini, ma anche fra le diverse famiglie. Quella che avviene a teatro è una relazione che accade in ambito artistico e culturale, non in un centro commerciale, luogo di incontro che rischia ormai di restare l’unico per le famiglie, a Milano come altrove.

R. C. Per noi il teatro ragazzi deve essere innanzitutto un atto d’arte con una dimensione educativa. Ne rifuggiamo però una concezione esclusivamente didattica e divulgativa, che sfocia spesso in un atteggiamento didascalico (concezione che a volte viene applicata al teatro in generale). Esiste cioè una sorta di “plusvalore” del teatro ragazzi: si tratta di avere una chiara consapevolezza rispetto al pubblico ma cercando anche gli strumenti per parlare a tutti, di modo che lo spettacolo possa diventare un momento d’arte e, come tale, di comunità e condivisione.

G. M. Il festival non è un luogo in cui gli spettatori sono passivi e gli artisti semplicemente espongono ciò che hanno creato, ma vorrebbe porsi come occasione di un confronto reale, affinché oltre agli strumenti di crescita ed educazione che noi adulti offriamo ai ragazzi si creino le condizioni per capire cosa possiamo imparare noi dai giovanissimi.

R.C. I concetti che sono tornati più spesso nei nostri discorsi sono “responsabilità”, “verità” e “onestà”: parole d’ordine che vediamo come centrali per chi si occupa di teatro ragazzi oggi.

 

In cosa consiste la particolarità dei ragazzi a teatro e in che modo tale particolarità può essere “trascesa” in vista di quell’allargamento a un pubblico più ampio cui fate riferimento?

R. C. Diciamo che ogni operazione di creazione teatrale ha di fronte a sé un pubblico, ideale o reale. Nel nostro caso si tratta di un tipo molto concreto di spettatore e questo implica che non ci si può adagiare su preconcetti o astrazioni, a maggior ragione se pensiamo al fatto che siamo immersi in un’epoca di cambiamenti sociali velocissimi e costanti. È come se per ciascuno spettacolo, al di là ovviamente della professionalità raggiunta, partisse una scommessa inedita perché il pubblico a cui ci rivolgiamo cambia senza sosta. Il teatro ragazzi non ti può far invecchiare, ti costringe a un movimento incessante e non ti consente mai di dire: «Ho acquisito il mio linguaggio e il mio stile e ora lo posso riproporre». Oltre a variare gli spettatori poi variano anche le persone che si occupano dell’infanzia e della cultura in generale con cui devi fare i conti, variano le idee dunque… Non a caso il teatro ragazzi agli inizi si trovava in stretta prossimità col teatro di ricerca. Il teatro ragazzi è o dovrebbe essere ricerca, una ricerca che non può avere fine.

G. M. I ragazzi sono un pubblico particolare perché non hanno alcuna ragione per starti a sentire se non il loro sincero interesse. È dunque un tipo di pubblico estremamente onesto e, proprio per questo, per certi versi difficile. Reagisce molto, magari negativamente, ma riesce a dare tantissimo a chi sta in scena. Ed è molto curioso. Capita a volte che gli adulti vengano a complimentarsi dopo uno spettacolo. I ragazzi invece non ne sentono il bisogno perché sanno di averlo già fatto ampiamente in sala, percepiscono di essere in un contatto molto stretto con gli artisti. Io credo che in questo momento storico la condivisione con i ragazzi sia fondamentale per recuperare il loro sguardo sulla realtà. Un modo di vedere le cose più ingenuo, meno influenzato dall’esperienza, dunque più “pulito” ma anche più “creativo” perché non guidato da sovrastrutture. La condivisione di uno spettacolo fra generazioni diverse diventa allora un momento speciale proprio per questa disomogeneità di esperienze che dà impulsi e spunti ulteriori a tutti.

R. C. Qui torna il concetto del teatro come comunità in cui la diversità riesce a farsi “valore di confronto”. Entrando un po’ nello specifico del programma del festival, abbiamo invitato spettacoli per tutte le fasce di età che comunemente rientrano nella definizione di teatro ragazzi. Siamo riusciti ad abbassare la “soglia di partenza” rivolgendoci anche ai bebè, poi ci sono ovviamente offerte per le altre fasce dei piccolissimi, degli “intermedi” e degli adolescenti.

 

Vista la sua fisionomia, il teatro ragazzi può costituire un’occasione di dialogo intergenerazionale per affrontare le tematiche sociali più complesse. Va “salvaguardato”, protetto, il pubblico di ragazzi e bambini o gli si può mostrare tutto?

G. M. La riflessione sui temi, in particolare quelli considerati socialmente dei tabù, riguarda il teatro ragazzi a livello mondiale. L’Assitej (International Association of Theatre for Children and Young People) negli ultimi anni ha dedicato differenti attività proprio a questo discorso. In generale la risposta è sì, con i ragazzi si può affrontare qualsiasi tematica, chiaramente è necessario trovare le modalità giuste per farlo.

R. C. In questo momento c’è anche da pensare a quanto certi argomenti possano “fare mercato” e attirare un certo tipo di attenzione. Ad ogni modo, è vero: ci sono temi difficilissimi da affrontare con i più piccoli, come la morte, generalmente però non sono i bambini a scappare, ma gli adulti che li accompagnano.

Che tipo di ragionamento e di azioni può mettere in atto una struttura teatrale perché si instaurino relazioni virtuose con chi si occupa della mediazione, con la scuola, le famiglie?

R.C. Il problema oggi non è semplice. Fra l’altro la scuola in alcuni casi subisce le pressioni delle famiglie, può accadere per esempio quando un insegnante fa una scelta rischiosa. Proprio per questo bisogna insistere ancor di più sia nel riprendere un dialogo realmente diverso con la scuola – e io credo sia una necessità condivisa da entrambe le parti – sia nel ripensare i momenti d’incontro che riuniscono questo pubblico eterogeneo, come le repliche domenicali per le famiglie. Non possiamo banalizzare, a volte accusiamo di cecità gli insegnanti perché decidono di non prendere alcuni spettacoli, senza considerare che loro subiscono diverse pressioni o operano scelte legate alle necessità didattiche. È anche vero, però, che secondo me questi sono tempi in cui è urgente riaffrontare certi temi, riparlare di educazione, e non didattica, di responsabilità e di etica (altra parola che mi piacerebbe tornasse nel vocabolario). Educazione al teatro e all’andare a teatro, perché a volte s’è persa anche quella. C’è molto lavoro da fare.

G.M. Il discorso sulla mediazione credo debba tener conto anche di come è strutturato il teatro ragazzi in Italia. Confrontandoci con alcune esperienze europee ci stiamo accorgendo che diversi tentativi vanno nella direzione di sollecitare, soprattutto negli adolescenti, l’attivazione di relazioni autonome con il teatro, e quindi di lasciarli liberi di scegliere cosa vedere. Questo anche perché vengono fatte loro proposte che possono cogliere in autonomia, non legate all’orario scolastico, per esempio, ma a momenti in cui possono muoversi da soli, così come del resto accade per il normale teatro di prosa. Certe questioni riguardano da vicino la struttura che si occupa della proposta e potrebbero essere un’occasione per ripensare approcci, strategie diverse. Con questo festival, sia in fase di programmazione che di promozione, in qualche modo ci abbiamo provato. L’apertura alla città, la scelta di non rivolgere l’invito solo agli operatori cercando il contatto diretto con il pubblico di riferimento, vanno in questa direzione.

 

Siamo giornalmente esposti a forme di intrattenimento culturale fondate sulla velocità di trasmissione e di fruizione. Come può il teatro tener conto di questi ritmi, entrarvi in relazione?

G.M. Credo che il teatro abbia tutto l’interesse e il desiderio di dialogare con questa dimensione. Poi può trovare le forme più diverse per includerla o meno. Senz’altro, però, il teatro ha come specificità il qui e ora, quindi l’incontro; è un gioco che si fa tra attori e pubblico, una parte attiva, anche se con minori responsabilità. Nel qui e ora si dà la possibilità di confrontarsi con questa domanda, che non è detto interessi tutti gli artisti come tematica o strumento (penso all’uso della tecnologia, che è innanzitutto un grande strumento).

R.C. Rispetto ai cambiamenti delle modalità di fruizione secondo me si tratta di questioni di cui chi fa teatro, per necessità, sta tenendo conto. In realtà non mi sembra sia un problema perché il discorso può essere integrato in maniera organica nelle domande che, da artisti, ci poniamo riguardo il linguaggio da usare. C’è una cosa comunque che vorrei dire: chi fa teatro ragazzi, a mio parere, deve partire da un’urgenza comunicativa che a sua volta rispecchi la dimensione comunicativa del pubblico dei ragazzi. È necessario sapere quali sono le istanze che li fanno vibrare, e cercare di “lavorarle” sia sul piano contenutistico che linguistico.

Come fa questa urgenza comunicativa, che quindi si tramuta in linguaggio pensato per i più piccoli, a non lasciare fuori e “funzionare” anche per gli adulti che accompagnano i ragazzi a teatro?

G. M. In generale possiamo dire che il linguaggio funziona se l’adulto ha a che fare quotidianamente con i ragazzi; poi ovviamente può succedere che il lavoro vada a segno sui ragazzi e non sugli adulti, ma questo evidenzia una differenza generazionale e personale.
Il rischio ci può essere ma allo stesso tempo è un’occasione per interrogarsi: portare il proprio figlio o i propri alunni a vedere qualcosa che entusiasma i giovanissimi ma non gli adulti può rappresentare l’apertura di un dialogo sulle ragioni che portano le due generazioni a sentire qualcosa vicino o distante. Inoltre gli spettacoli vengono costruiti su più livelli: basti guardare per esempio ai film di animazione che sembrano pensati per i bambini e di fatto sono rivolti agli adulti che li accompagnano… ma pensiamo anche al teatro greco in cui la commedia presentava diversi livelli di lettura andando dalla comicità più popolare a quella ideata per un pubblico dotato di una comprensione più raffinata.

 


Riannodando un po’ i fili della conversazione, e senza pretendere di essere esaustivi, vorremmo chiedervi se secondo voi sono ravvisabili delle tendenze estetiche e poetiche negli ultimi anni…

G. M. Sicuramente ce ne sono – penso al tipo di interpretazione, per esempio – ma non è una domanda facile a cui rispondere; da un lato faccio fatica, dall’altro non vorrei proprio rispondere per non ingabbiare alcune specificità che si trovano nel teatro ragazzi italiano che ha anime diverse…

R.C. Per esempio un fattore comune può essere rappresentato dall’utilizzo delle nuove tecnologie… Ma per aggiungere altro ci devo pensare almeno 2 o 3 giorni! (ride, ndr).
Quest’anno facendo le scelte artistiche mi sono posta diverse domande a cui non ho ancora dato delle risposte; preferirei coltivarle ancora un po’. A volte si scelgono gli spettacoli dicendo: «Questo è per il festival, questo no anche se…». A mio parere il teatro ragazzi è andato avanti per anni senza porsi troppe domande ed è arrivato il momento in cui tutti torniamo a porcele, in maniera profonda. È necessario coinvolgere altri sguardi e persone che mettano in discussione il sistema, perché il rischio è diventare una famiglia in cui tutti si conoscono, dando per scontate alcune cose, impedendoci di mantenere uno sguardo aperto.

G. M. In questo momento, generazioni diverse abitano il teatro ragazzi, lo portano avanti e vi si confrontano. È un momento di grande apertura rispetto all’estero, è in atto un confronto anche con quanto accade in altri Paesi che sta portando a interrogarci sul nostro stesso modo di operare, manifestando altre possibilità. È una sfida che riguarda più settori, non solo il nostro.
R.C. Spostare lo sguardo per tornare al proprio punto di vista o per andare altrove è fondamentale. Io faccio parte della “vecchia guardia” del teatro ragazzi e posso dire che nei primi anni si avvertiva ed era in atto un confronto che è andato via via sparendo, lasciando spazio alle esigenze del mercato, alle urgenze più aziendali che artistiche…

G. M. Quando poi si trova un linguaggio comune o dei punti su cui ci si intende, ci si ritrova a darli per scontati…

R.C. Una delle mancanze di una certa generazione è non aver tramandato la storia di quello che è accaduto. Le conoscenze, gli stili, i modi, le visioni sono state trasmesse solo in minima parte alle generazioni successive.

G. M. Le generazioni successive servono a fare delle domande! A mettere in crisi le cose.

 

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Carlotta Tringali