Il diritto del bambino al rispetto. Seconda istantanea da Maggio all’Infanzia

Un attore sul palco indossa un abito dai colori spenti, tutto lo spazio è suo, lo guardiamo raccontare la storia di Don Lorenzo Milani, la sua voce è amplificata da un microfono ad archetto, la voce interrompe il silenzio, il campo visivo è tutto aperto, la sua figura sta al centro di un piccolo boccascena. Racconta da attore rivolgendosi a noi spettatori, a tratti interpreta “cadendo” nel personaggio, secondo gli essenziali pauperitstici e ricorrenti stilemi della performance epica di narrazione. Racconta di Lorenzo mettendo in luce soprattutto i suoi burrascosi rapporti con la chiesa, la cacciata da Calenzano, gli strali dei cardinali, con i tentativi di isolamento che finirono per aumentare la risonanza dell’azione del parroco, almeno nel tempo successivo alla sua morte. Tratteggia velocemente il suo “fare scuola”, dove a turno si diventava maestri e allievi perché la sapienza appartiene a tutti, dimostrando che dal confronto e scontro e dialogo “vero” con i bambini non possiamo che imparare tutti, quotidianamente. Guidare qualcuno e che nessuno resti indietro, ci ricorda Don Milani nel racconto appassionato dello spettacolo Cammelli a Barbiana di Inti / Thalassia (di e con Luigi D’Elia, scritto insieme a Francesco Niccolini e diretto da Fabrizio Saccomanno). Il primo passo necessario è guardare a noi, al nostro rapporto con i bambini, alle parole che usiamo per parlare con loro, ai discorsi e alle immagini che mettiamo loro di fronte agli occhi. Se “fare scuola” è un modo per “liberare”, allora raccontare attraverso il teatro dovrebbe essere un tentativo di liberazione con altri mezzi. Ogni opera d’arte che affermi di voler dialogare con bambini e ragazzi dovrebbe avere da qualche parte un nocciolo che lavora per “liberare” i più giovani, almeno dai gorghi uniformanti dell’intrattenimento che spegne ogni domanda sulle bruttezze del mondo, dalla solitudine innescata dall’uso solipsitico dei social media come surrogati delle relazioni (famigliari, in primis), ma anche dalla tensione fruitiva frammentata imposta dai mille “tasks” dei nostri dispositivi, quando predomina il lato che disincentiva la capacità di autonomi procedimenti di simbolizzazione e interpretazione. Che senso ha, un’arte per l’infanzia, se almeno in parte non prova a coltivare questo spirito?

Grazie al meritorio lavoro delle Edizioni dell’Asino, negli ultimi anni è stato riscoperto un fondamentale testo del medico e pedagogo Janus Korczak, vissuto durante la persecuzione razziale e morto in campo di sterminio. Il “diritto del bambino al rispetto” è una delle sue formule più note, presenti in scritti dove si afferma che “piccolo” non può né deve essere sinonimo di minore, o mancante, o debole (qui si possono trovare diversi materiali di approfondimento, come una lettura del testo di Moni Ovadia in mp3). Citiamo Korczak perché alcuni spettacoli del cosiddetto teatro ragazzi sembrano dimenticare il principio del rispetto, ma anche le generali idee di liberazione di Don Milani, producendo linguaggi non all’altezza della grande sfida dell’infanzia. Si potrebbe descrivere così questo principio: siamo a teatro insieme a bambini e ragazzi, quello che vediamo riguarda noi come loro, ci entreremo con domande diverse ma il mistero del teatro, la sua alterità, la sua ricerca di senso devono investirci ugualmente. Fate vedere ai bambini quello che vorreste vedere voi, diremmo con una massima quasi evangelica. Tenendo anche presente l’universo audiovisivo nel quale siamo tutti immersi, prodotto maturo dell’ideologia dei nostri tempi, il consumo, per il quale conta prima di tutto intrattenersi, divertirsi, cazzeggiare e mai fermarsi a pensare e dubitare.
La coppia di bambini raccontata in Fratellino e sorellina di Ruotalibera mostra una condizione infantile scimmiottata da due attori adulti con mossettine del corpo e vocine sottili, un fingersi bambini senza giocare a farlo. I due si riprendono con una telecamera “del padre” che rimanda un fondale sbiadito per carenze tecniche; lo spazio è delimitato con semplicistiche linee verdi sagomate dalle luci del palco, ogni tanto le azioni sono inframezzate con canzoncine televisive che risultano fuori tempo massimo, dalla D’Avena a Happy Days. Perché presupporre che al bambino basti così poco? Infatti nessuno ci crede e la sala rumoreggia senza sosta.

Arabesk è la produzione del Teatro Abeliano, per la regia di Vito Signorile, lavoro dove la schematicità narrativa si basa sulla stessa mancanza di rispetto aggravata da un’enfasi didattica. La nonna sul lato cuce i fili del tempo scenico, dentro a un ruolo di narratrice che semplifica l’arte del racconto come se chiunque potesse dire: “ora ti racconto una storia!” e risultare credibile, facendo comparire attori che mimano personaggi sbozzati, trattati come macchiette. Ci sono gli animali di Pierino e il Lupo, nella prima parte, con le peripezie fiabesche e con il lupo che grida gracchiando di essere cattivo, il gatto che parla un inglese maccheronico, l’oca cicciottella che cinguetta con la voce stridula, l’uccellina che sorride come se il mondo fosse bello roteando le braccia contenta, con Pierino paffuto, le gote rosse, illuso e sorridente e molleggiato. La nonna è impegnata a spiegare la corrispondenza fra le tracce audio di Prokof’ev e i diversi personaggi, in una lezioncina che corre parallela alle vicende. Tutti sappiamo come andrà a finire e chi verrà mangiato, capiamo da subito che entreranno in scena i cacciatori e risolveranno vicende narrate assecondando un registro recitativo semplificato, smaccatamente ironico, quasi autoparodico. È questo mondo narrativo che stiamo preparando per i nostri bambini? Staranno dentro a questa melassa dove tutti fanno battute e nessuno fa ridere, dove il lupo è cattivo perché è la fiaba che lo prevede (ma a ben vedere è buono anche lui, suvvia), dove il teatro si confonde con uno show televisivo che scimmiotta il musical, come nella seconda parte giustapposta alla prima e introdotta dalla nonna? Probabilmente sì, ed è un grande problema. Il secondo tempo cambia ambientazione ma non registro, è un fantasy ispirato a L’apprendista stregone, attori e attrici entrano nei panni di indispettite scope che allagano le stanze rispettando una maldestra formula magica del mago apprendista, e ci chiedono di credergli perché indossano bizzari costumi e si muovono a scatti senza nessuna invenzione corporea.

Un esempio di “rispetto” lo si è visto a nostro parere in La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, una scrittura di Fabrizio Pallara e Valerio Malorni, con quest’ultimo in scena. L’attore interpreta un uomo che racconta del se stesso bambino, e del suo “sprofondamento” nel bosco, un al di là dello specchio topos di diverse peripezie fiabesche, come accade per esempio nella versione animata “boschiva” di Hayao Miyazaki in Il mio vicino Totoro. Dobbiamo entrare in un bosco, ci dice l’uomo, invitandoci a sospendere l’incredulità, insieme, bambini, ragazzi e adulti. Lui sta in una scena che odora di resine e che sparge effluvi, riempita di ceste, latte, tronchi, ramazze, cappelli, pentole, ganci, taniche, radio. Ha uno strano accento sudamericano, dentro al bosco incontrerà spiriti maligni che daranno il via a nuove avventure e visioni, dietro a un velo appariranno fantasmi, animali fantastici, occhiacci di fuoco, udiremo gufi e vedremo gorilla, il tutto in uno spazio a portata del nostro sguardo, concreto e tangibile eppure trasfigurato, mentre un percussivo quasi costante riempie l’ambiente sonoro. Qui stiamo tutti (grandi piccoli e medi) di fronte a un rito di passaggio sciamanico, in ascolto di un romanzo di formazione magico, rapiti da quella presenza, scordandoci a volte delle tappe narrative, degli incontri, delle prove, insomma della “storia” che si dipana di fronte a noi. Ed è forse qui l’unico nodo che può essere sciolto del lavoro, anche se i nodi forse non vanno mai del tutto districati.

 

Lorenzo Donati




Maggio all’infanzia. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 18 al 21 maggio avrà luogo a Bari Maggio all’infanzia, storica rassegna dedicata al teatro ragazzi organizzata dai Teatri di Bari. Abbiamo raggiunto telefonicamente Teresa Ludovico del Kismet, con lei attraversiamo le domande curatoriali alla base della rassegna, soffermandoci anche su alcuni snodi estetici e poetici che legano le arti della scena e l’infanzia.

Cominceremmo con un’introduzione al festival di quest’anno. Quali sono le linee di lavoro, tenendo anche in considerazione la lunga storia di Maggio all’Infanzia?

 

Maggio all’Infanzia nasce vent’anni fa al Rossini di Gioia del Colle, teatro che gestivamo in quel periodo. Come è noto, il Kismet ha una grande tradizione nel teatro dedicato all’infanzia e alle nuove generazioni: adesso siamo un Teatro di Rilevante Interesse Culturale, ma prima eravamo un Stabile d’Innovazione per le nuove generazioni. Subito il festival ebbe un grande riscontro, accogliendo tantissimi organizzatori, ma in seguito la gestione del teatro è tornata a essere comunale; per questo Maggio all’Infanzia è stato spostato a Bari. Tre anni fa c’è stata una ulteriore evoluzione: è nata una fondazione, il SAT (Spettacolo – Arte – Territorio) insieme al Teatro le Nuvole di Napoli, con l’obiettivo di coinvolgere un territorio allargato. Le molteplici attività, didattiche e soprattutto formative, sono state estese a tutto il mese, riservando alla terza settimana la presentazione degli spettacoli.

L’aspetto formativo è dunque al centro delle vostre azioni…

In questi vent’anni è maturata una maggiore attenzione verso le problematiche educative. I bambini, ovviamente, non vanno da soli a teatro, qualcuno li deve accompagnare, i genitori oppure, più spesso, gli insegnanti. Quindi, la necessità di avere relazioni privilegiate con gli insegnanti, soprattutto con i più giovani.

A questo proposito quali sono i progetti in essere?

Abbiamo la fortuna di avere una collaborazione di lunga data con Giorgio Testa, una persona straordinaria che ha una vocazione per la pedagogia  e che, dopo la chiusura dell’ETI dove dirigeva il Centro Teatro Educazione, ha fondato la Casa dello Spettatore. Da tre anni sta seguendo, insieme a Sara Ferrari, sia a Napoli che a Bari, il progetto Esplorazioni, un laboratorio destinato agli insegnanti sulla didattica della visione.
Per questa ventesima edizione ci sono poi tutta una serie di progetti speciali. Negli ultimi tre anni il festival ha accolto anche i nuovi linguaggi: il rapporto con la letteratura (allargandosi alle librerie e le piazze, incontrando scrittori, grafici, fumettisti) e con il cinema (vengono scelti dei film attorno ai quali, insieme all’Associazione I bambini di Truffaut, si organizzano incontri e approfondimenti).
È stata accolta una proposta sui temi della Costituzione e dell’Utopia, curata da Graziano Graziani (giornalista di Rai5 e Radio3), un progetto rivolto agli adolescenti invitati a scrivere la propria Costituzione ideale. Altra novità di quest’anno è l’organizzazione di una giornata di eventi e spettacoli dedicati ai bambini dai 0 ai 3.
L’associazione Europea dei Festival, che quest’anno ha insignito il Maggio di un riconoscimento di qualità, ha dedicato tre giornate alla formazione sul management culturale, che ospiteremo.

Come intrecciate tali ragionamenti con l’incontro tra i ragazzi e gli spettacoli? Quali chiavi scegliete?

Il programma è attraversato da quattro fil rouge. Il primo concerne la musica: inaugureremo con uno spettacolo dei Teatri di Bari diretto da Vito Signorile ispirato a Pierino e il lupo, con musiche di Prokoviev, e a L’apprendista stregone, quindi alla musica di Dukas. C’è anche un omaggio a Emanuele Luzzati, il Pulcilele di Paolo Comentale con musica di Rossini, poi programmiamo Lo schiaccianoci della Bottega degli Apocrifi, Eroine all’opera della compagnia pugliese Il carro dei comici, un’operina con attori, teatro di figura e cantanti lirici. Il teatro ragazzi sta andando anche verso un’esigenza di conservazione del patrimonio della lirica: Seicentina, del gruppo lucano L’albero, è un’operina per attrice, voce e basso continuo; in forma di musical, invece, è La gabbianella e il gatto del Teatro Vascello. Torna sempre anche il tema del racconto, con la prima nazionale del lavoro di Francesco Niccolini e Flavio Albanese, L’universo è un materasso; la Compagnia Burambò si confronta con L’arca di Atalanta di Gianni Rodari, partendo dai miti; La grande avventura del Teatro delle Apparizioni è un viaggio nel bosco che racconta le paure dell’infanzia e il tema dell’iniziazione. Ma anche Le dodici fatiche di Ercole del Teatro della Tosse o Cammelli a Barbiana, ancora scritto da Niccolini con Luigi D’Elia, sulla figura di Don Lorenzo Milani.

Si delinea un quadro variegato e polifonico. Quali possono o devono essere le tematiche da portare all’attenzione di un pubblico di bambini?

Gli altri due filoni individuati nella visione delle proposte ricevute sono legati alla fiaba e alle scritture originali, e con questi rispondo anche alla domanda. Le scritture originali in qualche modo rispecchiano i temi forti del nostro tempo, come ad esempio la diversità. Volentieri il festival ospitò sia Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato che La bella Rosaspina addormentata di Emma Dante. Sono convinta che per il pubblico infantile sia necessario incontrare i grandi temi della vita. Le paure da superare, le stesse raccontate nelle fiabe, sono spesso legate a quelle ancestrali e mitiche. Ben vengano, dunque, tutte quelle scritture originali che conducono i bambini in un percorso iniziatico a partire dalle grandi domande dell’oggi: l’altro, l’estraneo, lo straniero, la diversità sessuale e religiosa. Tra gli spettacoli che abbiamo inserito c’è L’arte della menzogna delle Manifatture Teatrali Milanesi, dove un ragazzo mente al padre perché non ha il coraggio di affrontare la sua diversità. Gli artisti dovrebbero darsi il compito di intercettare le domande dei bambini, senza dare risposte, ma invitando al confronto; grazie a percorsi esperienziali il bambino acquisisce gli strumenti per poter comprendere, anche da solo e senza l’aiuto degli adulti. Una volta messo a punto un linguaggio teatrale “che accoglie” ci dobbiamo fidare della loro capacità di decodifica, dobbiamo rispettarli e non avere paura di affrontare argomenti che consideriamo difficili.

Attorno alle potenzialità della fiaba possiamo forse spendere qualche altra parola…

Le fiabe sono nate e sopravvissute per l’esigenza dei nostri antenati di trasmettere il sapere della vita. Per esempio le paure sono sempre le stesse perché sono archetipiche, ma cambiano il linguaggio e gli strumenti per superarle.

La fiaba può dunque metterci di fronte al terribile, senza consolare. In che modo il teatro può ottenerlo?

Secondo il mio punto di vista la fiaba deve affrontare le zone buie, deve portare il bambino ad avere paura, a provare un’emozione forte in una condizione protetta. Nella fiaba il protagonista è impegnato in un viaggio di formazione, il bambino compie il viaggio dell’eroe, identificandosi con tutte quelle “prove” da superare in un mondo che include il male. Il teatro ha un valore educativo, ha la responsabilità di portare l’infanzia alla conoscenza del mondo e della vita. Attraverso la fiaba, tu bambino scenderai in quegli inferi (incontrerai la strega, sarai mangiato da quel mostro ecc) sapendo che, se sei determinato e fedele a te stesso come un Pollicino, troverai la tua strada. Questo è il senso del teatro per l’infanzia, è un linguaggio che deve accompagnare ma anche mostrare ai piccoli che possono farcela da soli nonostante le cadute, gli errori, le ferite.

C’è una questione che stiamo ponendo anche agli altri festival partner di Planetarium. Prima parlavi di un teatro che va incontro alle domande, alle paure del pubblico di oggi. Ma il pubblico di oggi, anche questo così giovane, è immerso in un contesto mediale iper-veloce e iper-frammentato. Il teatro può forse rappresentare un’alterità, una specie di sosta “antica” ma che rischia sempre di essere vissuta come vecchia.

Penso ci sia una caratteristica del teatro che non ha confronti con nessun’altra arte e che non lo farà mai invecchiare: è il rapporto diretto tra lo spettatore e l’attore. Io non ho mai paura della concorrenza di un computer o di un video.
Nel 2000 ho creato uno spettacolo, Bella e Bestia, che ha girato il mondo e ha generato una collaborazione che ancora va avanti con il Giappone. Quello giapponese è, senza dubbio, tra i popoli più tecnologici del mondo, eppure la scena che ha emozionato maggiormente è stata una caduta di centinaia di bigliettini, messaggi d’amore che la Bestia lanciava dall’alto alla Bella. È il linguaggio poetico, quel qualcosa di semplice e impalpabile che esiste anche senza la tecnologia. Una polverina dorata che scende stupisce più di un grande video perfettamente proiettato. È l’azione più semplice che sorprende, noi di questo dovremmo farci esperti. La tecnologia non può mai sostituire l’immaginazione. È necessario riportare al centro della scena l’umanità dell’interprete, il suo corpo con tutta la sua bellezza e fragilità.

 

Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto