Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni

Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.

Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.

Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.

Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».

La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.

La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.

Nella Califano e Sergio Lo Gatto




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Educare alla bellezza. Il teatro ragazzi per Mario Bianchi

Ospitiamo con piacere un intervento di Mario Bianchi, autore, regista, animatore e critico, direttore della rivista telematica “Eolo”, il sito ufficiale del teatro ragazzi italiano.  Fondatore a Como del Teatro Città Murata, autore di video-montaggi tematici, legati principalmente all’infanzia, condirettore artistico del festival di teatro ragazzi “Una città per gioco” oltre che del festival della narrazione di Mariano Comense, il più importante in Italia in questo ambito. Nel 2009 Titivillus pubblica il suo Atlante del teatro ragazzi italiano.

Il teatro ragazzi è l’unica forma teatrale che ha nella sua definizione il nome del pubblico a cui si rivolge, un teatro dunque che per sua natura possiede delle regole precise con le quali fare sempre i conti. I ragazzi infatti sono un pubblico assai particolare, che possiede in sé tutte le possibilità e le fragilità, insite nel concetto di formazione, e che quindi nasconde inevitabilmente la mancanza di un’abitudine al fatto teatrale che, come ogni percorso ai suoi inizi, ha decisamente bisogno di “un’educazione“. Ciò non di meno crediamo che i bambini siano già persone molto competenti, più abili degli adulti a creare mondi immaginari e metafore, per cui, rispetto all’esperienza emotiva ed estetica del teatro, mettono in campo abilità del tutto straordinarie, ed è soprattutto nel lavoro post-spettacolo che, senza didascalismo di sorta e con leggerezza, l’adulto può riempire ancora buchi di conoscenza sulla complessità del mondo.

Non essendo mai stato a teatro, o comunque frequentandolo da poco, questo pubblico possiede in sé tutte le prerogative della meraviglia, dello stupore che fanno sì che il suo sguardo sia oltremodo curioso e prezioso. Peter Brook diceva che prima di portare in scena uno spettacolo egli lo proponeva innanzitutto a un pubblico di bambini, se lì era favorevolmente accolto, allora lo spettacolo era pronto.
Lo sguardo di un bambino dunque è uno sguardo del tutto particolare, ancora incontaminato, in qualche modo ancestrale, che si trova per la prima volta davanti alla complessità del mondo. Per cui il suo sguardo in qualche modo va alla radice di ciò che vede senza pregiudizi, scevro da ogni altro elemento se non quello dell’incanto e della meraviglia.

 


Teatro e ragazzi

La parola teatro ragazzi è formata da due parole inscindibili: insieme ai ragazzi c’è la parola teatro.
Ragazzi. Allora innanzitutto chi fa teatro ragazzi deve sempre chiedersi chi è il destinatario, in che mondo vive e (più che in ogni altro ambito) quello che il bambino vede in scena, lo deve ricondurre a ciò che vede e sente, a ciò che lo emoziona nella realtà. In questo teatro deve esserci dunque il bambino con il suo mondo, con gli ambienti e gli esseri umani che presenta che frequenta, con le emozioni che sente, con i sogni che fa… è per questo che il teatrante consapevole di questa particolarissima forma di teatro, durante la creazione dello spettacolo, deve necessariamente “sporcarsi” con l’infanzia.
Se non ha le competenze deve allenarsi a maturarle, conoscendola e frequentandola, nutrendosi di laboratori che gli possano consentire di vivere in mezzo a loro. In scena l’attore che fa il teatro per ragazzi deve “sentire” sempre il suo pubblico che partecipa molto più di ogni altro tipo di pubblico. Si deve adattare ai sui tempi e alle esigenze del suo sguardo. Deve capire quando il suo pubblico può fare delle domande e quando no, deve dettare delle regole e deve dettarsi delle regole.
Chi scrive per i ragazzi non deve fermarsi solo ai suoi ricordi di quando era bambino ma essere immesso in un’infanzia che cambia continuamente nei modi e nell’immaginario.
Le suggestioni e tutto ciò che è stato compreso durante i laboratori devono essere immessi nello spettacolo, a condizione poi che il teatro e le sue regole vengano rispettate.
Teatro. Il teatro non è animazione, è teatro. Tutto ciò che si inventa e che si impara dal mondo infantile deve quindi necessariamente diventare teatro, perché si sta facendo teatro, non animazione e il teatro ha delle regole, con le sue metafore, le sue modalità di porsi in scena.

 

Il Pubblico bambino nella maggioranza dei casi non sceglie di sua volontà cosa andare a vedere, la scelta è fatta a suo nome dall’insegnante o dai genitori che decidono cosa va bene fargli vedere.
Ricordiamo subito che fare teatro per ragazzi non vuole dire fare un teatro per quelli che un domani saranno pubblico, niente di più sbagliato, i ragazzi a cui si rivolge il teatro ragazzi è già il pubblico di oggi, perché i bambini sono a tutti gli effetti già persone dotate di individualità, con forme di linguaggio e cultura propri.

Ogni spettacolo nella maggior parte dei casi è destinato ad una fascia di età prestabilita soprattutto per le creazioni destinate ai più piccoli, ricordandoci che tra i due e i quattro anni esiste un mondo, come pure dai quattro ai sei anni e che ogni spettacolo di solito ha un pubblico a cui è dedicato, anche se il teatro ragazzi è per sua natura un teatro popolare che parla a tutte le età dell’uomo.
Ci si chiede a volte ma fino a che età questo teatro debba essere così inteso, difficile dare una risposta, dai 6 mesi ai 16 anni, forse, con modi e proposte di immaginari diversi, certo, anche perché l’ età dell’infanzia e dell’adolescenza inizia e finisce per ognuno di noi in modo diverso, quello che ribadiamo con forza a chi ci dice che il teatro è teatro, è che il teatro ragazzi sia un teatro del tutto particolare, speciale non equivocabile con un altro.


Caratteristiche del linguaggio

Il linguaggio scenico del teatro ragazzi non deve mai essere abbassato né nel tono né nel linguaggio ma deve essere adattato al loro sentire. Non bisogna dunque fare un teatro piccolino che insegni, ma un grande piccolo teatro a loro misura, questo sì, che parli poi di tutti gli aspetti della vita attraverso ogni contenuto, dalle fiabe che sono un ottimo veicolo per parlare dei loro sentimenti in formazione alla morte e alla sessualità, argomenti questi che paiono essere banditi sul palcoscenico e invece assai necessari se proposti con la necessaria leggerezza.
La drammaturgia scritta per l’infanzia deve sempre tener conto dello spettatore bambino che vive in quel momento, per cui giustissimo ricondurlo ai valori della tradizione, ma anche ricondurlo ad un mondo che cambia in continuazione, anche perché di solito il drammaturgo ha un’età ben differente da quella del pubblico che ha scelto come referente.
Si pensa che la funzione del teatro ragazzi debba avere come caratteristica precipua l’insegnamento, niente di più sbagliato, il teatro per l’infanzia qui deve essere percepito in egual maniera simile agli altri, cioè una proposta culturale che ha già connaturata in sé il germe morale dell’etica e del cambiamento umano del ricevente senza bisogno di nessun’altra accentuazione. Fine ultimo di ogni tipo di teatro è porre delle domande, è la ricerca della bellezza e del senso insiti nella vita e nella realtà, ed anche il teatro rivolto ai ragazzi deve avere questa finalità. Simile in questo alle altre forme teatrali ma diverso nel suo modo di porsi. Per cui il linguaggio drammaturgico proposto per i ragazzi è infinitamente più complesso di quello proposto per un adulto.

 

Nel teatro proposto ai bambini, essendo essi irripetibili, non possono essere mai bamboleggiati o resi in caricatura, come spesso succede a chi si avvicina per la prima volta al teatro per l’infanzia.
Per ciò mai e poi mai si deve assistere ad adulti che fanno finta di fare i bambini con la vocina, o presentare monti incantati dove regna sempre sovrana la bellezza esteriore, perché il mondo non è né tutto bello né tutto brutto, ma contiene in sé per fortuna migliaia di sfumature da considerare. Il meccanismo principe per l’abbassamento del senso drammaturgico è la parodia che deve essere evitata ad ogni costo se non in casi necessari.

Spesso si pensa che una drammaturgia scritta per l’infanzia debba essere semplice, elementare, che debba contenere fattori che lo facciano ridere per sciocchezze, che si debba rifare a meccanismi televisivi, o solo alla fiaba. Niente di più sbagliato, come detto è vero il contrario. Certo la fiaba è importante, strumento meraviglioso per parlare di coraggio, di paura e di crescita. Di crescita perché il teatro ragazzi ha qui una delle sue principali funzioni, essere uno dei gangli del percorso di formazione dello spettatore bambino. Attenzione, lo ripetiamo non per l’uomo di domani ma per il bambino per l’adolescente di oggi. Perché i bambini sono a tutti gli effetti già persone dotate di individualità, con forme di linguaggio e cultura propri.
Il bambino deve essere abituato dunque a conoscere ovviamente in modo adeguato anche i temi di solito a lui negati come la morte e la sessualità.

Elemento fondamentale per fare questo è la leggerezza che deve stare alla base di ogni spettacolo scritto e rappresentato per i ragazzi, ogni argomento può essere rappresentato basta farlo con garbo e leggerezza che non vuol dire ovviamente superficialità.
La drammaturgia deve in qualche modo riferirsi alla vita, soprattutto nel teatro ragazzi, deve essere una specie di specchio in cui potersi riflettere, non deve però essere al servizio di niente, il teatro è teatro e basta, serve perché è teatro, lo strumento principe che l’uomo possiede per comprendere meglio la realtà. Il teatro ragazzi che deve servire a qualcosa è uno sciocco travisamento di chi non lo conosce e vuole praticarlo. Basta per intenderci spettacoli sulla raccolta differenziata o sull’educazione scientifica o stradale.
Il teatro ragazzi, questo sì deve più che ogni altro teatro far entrare i bambini nella complessità delle sfaccettature del mondo.
Per cui, lo ripetiamo, proporre teatro ai ragazzi è infinitamente più complesso che proporlo ad un adulto.
Altro elemento, la comprensione di ciò che rappresenti, in modo che il pubblico vi possa entrare dentro, ci si possa rispecchiare, ognuno a suo modo con le sue competenze e con la sua enciclopedia intellettuale. Il teatro ragazzi amplifica questo elemento, ha una caratteristica preziosissima che nessun altro teatro possiede: è un teatro popolare che accomuna tutti i diversi pubblici teatrali: la domenica si possono vedere bambini, mamme, papà, nonni assistere agli spettacoli, godendone insieme tutte le emozioni. Per questo uno spettacolo per ragazzi ha la capacità di parlare a tutti. Tutti e soprattutto i bambini hanno il diritto di capire. Caratteristica poi assai anomala di una drammaturgia per ragazzi è che più è astratta più è compresa dai piccolissimi e nello stesso tempo dagli adulti.

 

 

Preparazione del pubblico

Gli spettacoli di teatro ragazzi vengono proposti di solito in due modi, per le scuole e per le domenicali.
I ragazzi sono un pubblico speciale che ha un corpo e una sensibilità speciale, per cui nello spazio teatrale deve essere messo a suo agio prima e dopo lo spettacolo. Normalmente e a seconda dello spettacolo proposto, non si devono mescolare troppo le età.
Il bambino deve poter vedere bene davanti a sé quello che avviene sul palco, possibilmente a lui vicino, ben sapendo che ogni spettacolo è diverso, non sempre fruibile dallo stesso numero di bambini. Il prima e dopo lo spettacolo hanno delle regole da rispettare, lo spettacolo scelto dall’insegnante o dal genitore deve essere preparato con discrezione senza per altro rovinare la curiosità dell’attesa. La discussione dopo lo spettacolo non è obbligatoria ma consigliata. Tutto ciò avviene per un pubblico speciale come quello bambino, che ha mille curiosità che devono avere una risposta.
Lo spettacolo deve essere percepito dal bambino come qualcosa di speciale, un rito unico e meraviglioso.

Scuola

Il rapporto tra scuola e teatro ragazzi è andato in parte modificandosi e ci pare un poco in crisi. La maggior parte degli insegnanti è poco motivata verso il teatro o lo vede come mero supporto all’insegnamento e con a crisi vi è stata una netta decrescita delle opportunità mentre è aumentato il pubblico delle domenicali.
Molte volte si è imputato al teatro ragazzi di cammellare il suo pubblico, il problema certo esiste, soprattutto per i ragazzi delle superiori che sono costretti ad assistere soprattutto ai classici senza possibilità di scelta, banditi anche dai numerosi testi che invece in modo più diretto parlano delle loro pulsioni, e spettacoli di questo genere sono sempre più frequenti. I ragazzi che vanno a teatro devono essere dunque motivati e preparati in modo che scelgano sempre quello che vanno a vedere, consapevoli che non devono andare perché così perdono un’ora di lezione, ma che anzi sarà un ‘esperienza unica e arricchente.

Bisogna far recuperare a loro il senso del teatro come rito, che andare a teatro è una cosa speciale, unica, che si entra in un mondo meraviglioso dove ci si può divertire e anche imparare.
Ogni spettacolo ha una metodologia diversa, lo spazio e il pubblico devono essere organizzati in modo diverso spettacolo per spettacolo, i bambini posizionati in modo intelligente e diversificato, spesso a contatto diretto con gli attori. Bisogna tenere conto che per le recite scolastiche il pubblico dei bambini, quasi sempre non sceglie direttamente lui lo spettacolo, ma l’offerta è mediata dall’insegnante, spesso per esigenze didattiche, ma per fortuna non sempre, perchè il teatro è teatro serve per capire meglio la vita.
Comunque il buon organizzatore teatrale oltre alla scheda prepara gli insegnanti convocandoli e, poiché ha visto lo spettacolo, ne illustra le forme e i linguaggi. Alla fine degli spettacoli quasi sempre, si invitano i ragazzi a fare domande per entrare più approfonditamente nello spettacolo, con il teatro di figura (forma di spettacolo nobilissima e totale purtroppo ricondotta solo al mondo dell’infanzia) li si invita sul palcoscenico per toccare con mano i pupazzi e i burattini e poi in classe si condividono con i ragazzi le emozioni, magari anche senza chiedere loro noiose relazioni scritte.
Ricordiamo infine a chi volesse scrivere o recitare spettacoli per l’infanzia che ciò che vogliono intraprendere non è solo un mestiere, ma una vocazione, non tutti possono permettersi di farlo. Non basta recitare in falsetto, parlare dei diritti del bambino, camuffarsi da animali o con improbabili grembiuli intercambiabili per interpretare varie parti, realizzare assurdi canovacci didascalici senza capo nè coda. Non basta utilizzare scenografie che scimmiottano in malo modo la “Melevisione”. Il mondo che accoglie il teatro ragazzi, pur nelle sue fragilità e che pazientemente è stato costruito in oltre quarant’anni di lavoro, vasto e appetibile anche come mercato, merita rispetto. Ognuno ha i suoi ambiti, la commedia dell’Arte, la ricerca, la filodrammatica, faccia quello con passione e professionalità e, se vuole avvicinarsi allo spettatore bambino, lo faccia pure ma con discrezione, comprendendone sino in fondo le esigenze e educandolo soprattutto alla bellezza e, con competenza e leggerezza, senza mai banalizzare nulla, alla comprensione delle varie sfaccettature del mondo in cui viviamo.

Mario Bianchi