Riempire gli spazi vuoti: la libertà dell’immaginazione

Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?

Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.

Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.

Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni.  Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.

locandina di Non ho l’età (dalla pagina Facebook di Riserva Canini Teatro)

Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla.  Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.

Angela Ruozzi, regista de La meccanica del cuore, durante la nostra intervista al Teatro del Popolo di Castelfiorentino

L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno

L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera? 

Nella Califano, Michele Spinicci




LA PAROLA AI PROTAGONISTI: COSA MANCA OGGI AL TEATRO RAGAZZI? – TERZA PARTE

La terza e ultima parte delle conversazioni con i protagonisti del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino raccoglie le risposte a una domanda che tocca alcuni nervi scoperti del teatro destinato al giovane pubblico e non solo.
Per le conversazioni sul rapporto tra teatro e pedagogia: qui la prima parte, qui la seconda parte.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Uno dei disegni dei bambini coinvolti nel progetto laboratoriale precedente la realizzazione di Non ho l’età (dal sito: comune.prato.it)

Credo che nel teatro ragazzi manchi un rapporto più continuo con i suoi destinatari. Questa è una possibilità che noi ci siamo creati incontrando gruppi di bambini prima di pensare all’allestimento dei nostri spettacoli: per noi è stato molto più funzionale che fare uno spettacolo con un tema al quale agganciare un laboratorio. Questa esperienza, secondo noi fondamentale per un artista, non è né prevista né agevolata da molte strutture, infatti in pochissimi casi esistono spazi in cui si possa sviluppare un lavoro che non si limiti alla performance.

Spesso compagnie che producono spettacoli per adulti quando si confrontano con un pubblico di bambini pensano che si debba abbassare il livello, quando invece è il contrario. I bambini sono interlocutori molto attenti, per loro sono importantissimi dettagli che molto spesso agli adulti sfuggono.

Vania Pucci Di segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Risultati immagini per vania pucci
Vania Pucci (dal sito: empoli.gov.it)

Oggi molti dei “grandi vecchi” del teatro ragazzi hanno messo i remi in barca, mentre i giovani spesso, non sapendo cosa c’è stato prima, finiscono per utilizzare linguaggi già superati, prendendoli per nuovi. In teatro non si inventa niente, al massimo si può restituire in maniera personale qualcosa di già sperimentato.

È cambiata molto anche la scuola e il nostro modo di rapportarci con essa: se prima era un buon alleato, ora dobbiamo ritrovare una complicità. Gli insegnanti si trovano di fronte a grandi difficoltà: ragazzi che vengono da culture diverse, genitori che entrano nello specifico del loro mestiere denigrandone il ruolo. È normale purtroppo che in un momento di crisi, il teatro non rientri più nelle priorità di questa istituzione.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui trovate l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Per fare una provocazione potrei dire che vieterei di portare in scena le fiabe, nello stesso modo in cui nel teatro tout public vieterei i classici. Come soffro i troppi Molière, i troppi Shakespeare, i troppi Goldoni, credo che nel teatro per ragazzi dopo decine e decine di Cenerentole e belle addormentate ci dovrebbe essere anche lo stesso numero di titoli nuovi. Altrimenti ci ritroveremo in un meccanismo archeologico, che si accontenta di produrre variazioni su ciò che già esiste. Come mai non proviamo a inventare fiabe nuove, che raccontino il nostro presente? È come se fossimo diventati una cultura spenta, priva di coraggio e di capacità creativa. E una cultura così è condannata a non lasciare niente di se stessa al futuro.

È un limite di oggi, non c’era trent’anni fa e non c’è all’estero. La colpa di questo è da attribuire principalmente ai direttori dei teatri, che puntano a un consenso di pubblico proponendo grandi nomi e grandi titoli. È una mancanza di coraggio, ma anche di responsabilità. Mi ritrovo ancora una volta a parlare di “mesotelioma teatrale”, una malattia che ammazza in trent’anni: questo è il meccanismo di un sistema teatrale che non è sano.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui trovate l’intervista integrale)

Renata Coluccini (dal sito: ilflaneur.com)

Manca sicuramente lo spazio della ricerca. Nei primi anni della mia carriera teatro per ragazzi e teatro di ricerca erano assolutamente intersecati, perché in entrambi ci si concedeva la possibilità di perdersi e di ritrovarsi, nel linguaggio e nei contenuti. Se questa possibilità manca, si procede sempre per le stesse strade conosciute e che alla fine non portano più da nessuna parte.

Manca
anche l’urgenza di parlare ai ragazzi, che è assolutamente necessaria per
lavorare in questo ambito, e che significa essere disponibili a mettersi sempre
in discussione. Si può avere un proprio segno stilistico, ma non riproporlo in
eterno, con la certezza di avere trovato il linguaggio perfetto. I ragazzi
cambiano continuamente e ti pongono sempre nuovi problemi, richiedono nuove
forme e nuovi contenuti con grandissima velocità.

Certo,
a volte non ci si può permettere di mettersi in discussione, perché è il tempo
che manca. Io lo dico sempre, ci vorrebbe il “festival dell’errore” così da
permettere un confronto sui fallimenti, gli sbagli e le lezioni che si sono
imparate. Troppe volte si riconosce lo sbaglio ma non c’è il tempo di chiedersi
quale nuova strada questo possa aprire e allora ci si accontenta di quello che
funziona.

Infine, anche se adesso le cose stanno cambiando, mancano gli incontri tra chi fa teatro per ragazzi. Manca un momento di ridefinizione in cui fare il punto e chiedersi cos’è oggi quello che facciamo.

Nella Califano, Michele Spinicci




La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Seconda parte

Pubblichiamo il seguito delle nostre conversazioni con alcuni dei protagonisti della nona edizione del festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino. Ci interroghiamo sul rapporto tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi e sulla scelta dei contenuti e dei linguaggi negli spettacoli da destinare al giovane pubblico. (qui la prima parte)

Simone Guerro Il grande gioco, Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata

Fabio Spadoni e Simone Guerro fuori dal Teatro del Popolo di Castelfiorentino, durante l’intervista per Planetarium.

Per noi il pubblico dell’infanzia non è mai un pubblico di bambini, ma un pubblico di persone, con la loro sensibilità e la loro complessità. La prima questione che mi pongo è quella del linguaggio, che significa essere all’altezza di quel pubblico, che è esigente e ti chiede verità, e non abbassare il livello o adoperare delle semplificazioni. Occuparmi di teatro ragazzi mi permette anche di fare teatro politico: credo, infatti, che oggi il vero teatro politico sia proprio questo perché il pensiero pedagogico è un pensiero politico.

Nello spettacolo “Il grande gioco” la morte è un pretesto per parlare della vita, perché della morte non c’è nulla da dire. Per parlare della vita occorre confrontarsi con il fatto che esiste un inizio e una fine, un tema che cerco di far emergere spesso. È nata così l’idea di due fratelli per i quali la morte diventa la possibilità di fare le cose importanti, di stare insieme, di volersi bene, perché non c’è più tempo da perdere.

L’altro tema fortemente politico di questo spettacolo sta nel fatto che in scena c’è un attore disabile, Fabio Spadoni, considerato dalla società un debole, una persona da accudire e per la quale provare compassione (un’idea che non mi appartiene per niente!). Nello spettacolo, invece, è proprio Fabio, affetto da sindrome di Down, ad avere il ruolo della persona forte, che prova a risollevare il fratello malato. La forza di Fabio sta nella sua gentilezza, nella sua allegria, lui non è mai cattivo e questa forza è quella che ritroviamo nello spettacolo. Far stare in piedi questo ragionamento è arte, è politica. Il tema che mi interessa di più è come una cosa delicata possa avere una forza prorompente: bisogna difendere la delicatezza mostrandone la forza.

Marco Ferro, Manuela De Meo, Pietro TraldiNon ho l’età, Riserva Canini

Non ho l’età (dal sito:campsiragoresidenza.it)

Da diversi anni costruiamo i nostri spettacoli a partire dal materiale raccolto nei percorsi laboratoriali che facciamo insieme a gruppi di bambini di tutta Italia in presenza degli insegnanti, e che sviluppiamo intorno a un tema specifico. “Non ho l’età” ad esempio si interroga sul concetto di tempo.

Abbiamo incontrato bambini dai 6 ai 10anni e con loro abbiamo ragionato sul presente, sul passato sul futuro e su tutti gli aspetti legati allo scorrere del tempo, come la memoria, il ricordo, le esperienze che si fanno a seconda delle fasi della vita, il rapporto con i nonni e con gli anziani e il rapporto con la morte. Ogni incontro veniva suddiviso in due parti, una prima in cui con un registratore raccoglievamo gli spunti delle discussioni collettive e una seconda in cui a partire da quella discussione iniziavamo a elaborare fisicamente il tema proposto attraverso giochi, esercizi teatrali corporei e percettivi e, infine, attraverso l’espressione artistica (disegni, manipolazione della creta e dell’argilla…).

Questo processo per noi è fondamentale perché ci permette di costruire lo spettacolo con consapevolezza, a partire dalla percezione che il bambino ha sul un certo tema. Per noi l’importante è lavorare a tutto tondo, senza prefissarci degli obiettivi pedagogici, ma creare suggestioni, mettere un tema in campo e lasciare la possibilità ai bambini di svilupparli. Grazie ai bambini si possono aprire delle piste rispetto ai temi trattati, che a volte sono considerati tabù dagli adulti.

Parlare di morte a bambini di sette anni significa riportarli a un’esperienza che molti di loro in qualche modo hanno già vissuto, bisogna solo trovare la chiave giusta per affrontare questi temi, ma non rimuoverli, perché loro sanno bene che esiste una fine della vita. Certo sono temi delicati, per cui ci siamo chiesti quali mmaginari, quali parole, quali ritmi utilizzare per veicolarli. Questo richiede sempre un grande sforzo, per cui spesso ci siamo trovati a dover ricalibrare lo spettacolo a seconda delle reazioni dei bambini.

Katarina Janoskova e Paolo ValliLa gazza ladra, Compagnia L’asina sull’isola

Katarina Janoskova e Paolo Valli durante una scena de La gazza ladra

Nel teatro di figura si opera sempre uno spostamento di senso. Nel caso dell’ombra, quello che ci interessa è la possibilità di proiettare in quella macchia nera tutto ciò che si ha nella testa: non si tratta di una forma definita e questo aiuta i bambini, abituati oggi a immagini già pronte all’uso, a utilizzare l’immaginazione. Questo succede in tutto il teatro di figura perché non c’è il limite del corpo che ha l’attore fatto di carne e ossa. Gli spettatori, sia adulti che bambini, hanno tutto un mondo da investigare, un altrove evocato grazie alla magia dell’artigianalità. I bambini stanno
perdendo la manualità e lo stupore, per cui è necessario riportare la loro attenzione sulle cose semplici: questi antichi saperi sono in grado di farlo e in questo si manifesta decisamente una forma di pedagogia.

Simona GambaroPollicino, Teatro del piccione e Teatro della Tosse

Paolo Piano e Simona Gambaro durante una scena di Pollicino (dal sito: teatrodelpiccione.it)

L’intenzione nel nostro modo di fare teatro è quella di muovere delle domande: non vogliamo insegnare qualcosa, ma lasciare emergere delle questioni sulle quali tutti si possano interrogare. Il linguaggio che scegliamo di utilizzare è certamente calibrato perché possa essere compreso dai bambini, ma la fiaba già di per sé parla a ognuno di noi. Io non faccio uno spettacolo se non sento un fuoco dentro e anche la forma, l’immagine, che curiamo molto, sono sempre al servizio di questo fuoco, di una domanda esistenziale. Ogni volta che il teatro si manifesta, diventa esperienza e smuove qualcosa.

Io sono specchio degli spettatori e tramite insieme a loro di un incontro e in mezzo avviene qualcosa che lascia delle domande. Quando recito in Pollicino sono dentro a questo riverbero e ogni volta ritrovo nello spettacolo un pezzetto di me,della mia vita. Ne “La grammatica della fantasia” Rodari scriveva che le storie sono come un sasso lanciato nello stagno che crea cerchi concentrici:anche se tu non lo vedi, questo riverbero,questo cerchio che si allarga nell’acqua fa muovere tutto il resto, i bordi dello stagno,il filo d’erba e così via. In questo spettacolo noi non mettiamo il pubblico in una condizione di agio,ma di movimento, sperando che qualcosa riverberi ancora e ancora.

I formatori come i genitori e gli insegnanti hanno tra le mani una materia calda informe. Sicuramente dallo spettacolo scariruranno delle domande. Ci si butta insieme. I registi ci hanno detto di affidarci totalmente alla fiaba senza paura,di non aggiungere altro, ma di tenere dentro tutta la vita della fiaba più siamo fedeli e più lasciamo aperture, meno tentiamo di interpretare più lasciamo che quel bosco rappresenti per ognuno di noi un attraversamento diverso

Riccardo RombiVulcania, Compagnia Catalyst

Rosario Campisi e Giorgia Calandrini in una scena di Vulcania

«Il teatro è civile per definizione. I bambini sono pronti a recepire il messaggio che vogliamo trasmettere in modo immediato
con spettacoli come Vulcania, che tratta dei principi della nostra Costituzione Per loro è ovvio e intuitivo che ai diritti corrispondano i doveri. Tra loro non ci sono differenze, si rispettano profondamente, non distinguono le persone per il colore della pelle o per la provenienza. Sono gli adulti che non credono più nei principi della Costituzione e che in nome del realismo sono sempre pronti a porre ostacoli tra loro e i loro doveri. Il teatro oggi può e deve aiutare i bambini a diventare cittadini e persone libere».

Nella Califano, Michele Spinicci




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto