Radio Planetarium #2: gli spettatori bambini

Che cosa ti succede quando vai a teatro? In occasione del festival Maggio all’Infanzia (Bari, 18-21 maggio 2017) abbiamo posto questa e altre domande ad alcune classi di scuole secondarie di primo grado, subito dopo gli spettacoli in programma la mattina. La seconda puntata di Radio Planetarium riflette dunque attorno agli spettatori bambini dando loro direttamente la parola.

Interviste a cura di Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto. Si ringrazia Francesca Limongelli.
La siglia di Radio Planetarium è di Alessio Pallotti




Semplice o semplicistico? Terza istantanea da Maggio all’Infanzia

Ventidue spettacoli in quattro giorni, distribuiti in diversi spazi (Teatro Kismet, Teatro Abeliano, Casa di Pulcinella e la Libreria Svoltastorie), ma Maggio all’Infanzia non è tutto qui.
Tra uno spettacolo e l’altro, il giallo foyer del Kismet è popolato di bambini, con le voci che si sovrastano l’un l’altra; a sala riempita, le sedie blu rimangono vuote, tirate da un lato, pastelli a cera e fogli mezzi disegnati abbandonati sui tavolini.
Alla Casa di Pulcinella il pubblico arriva e può godersi la bella mostra dedicata a Emanuele Luzzati, con burattini e pupazzi in pezza, legno e gommapiuma, ma i più piccoli si misurano anche con la costruzione di figure di carta, sacco e pop-up nel Laboratorio di Pulcinella. Così come c’è modo, per gli studenti delle scuole superiori, di misurarsi con grandi temi contemporanei, nel laboratorio curato da Graziano Graziani attorno alla Costituzione e all’Utopia.
Questo per dire che abbiamo notato anche una grande attenzione alla dimensione dello “stare” del pubblico, una cura ricondotta alle pratiche della relazione, all’accoglienza di scuole e famiglie come incubatori dell’immaginario dei giovani spettatori.

 

Un’attenzione e una cura messe intorno a una programmazione che, soprattutto a confronto con quella di altri festival, si presenta però densa e concentrata. Se ci si sofferma sul cartellone, un calendario così serrato – che non sempre lascia a chi voglia seguirlo tutta il tempo per metabolizzare i pensieri – risponde di certo alla pluralità di esigenze introdotta da vent’anni di cittadinanza sul territorio ma, di conseguenza, pone la questione della qualità media delle produzioni.

Un aspetto su cui ci si è molto interrogati tra foyer e tragitti in pullman è il ruolo fondamentale assunto, in un festival di “teatro ragazzi”, dalla composizione della platea. Assistere all’intera vetrina con occhi adulti – appartengano essi ad artisti, critici o operatori e operatrici – rischia di tramutarsi in un atto limitante se quegli occhi non hanno modo di dotarsi, sempre, della presenza dei giovani spettatori. Soprattutto in quelle opere che misurano ritmi e snodi drammaturgici sulla percezione e sull’immaginario dell’infanzia, sarà per l’adulto difficile entrare se non “accompagnato” da un bambino. È stato il caso di La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, nel quale gli adulti hanno da un lato individuato alcune fragilità soprattutto nel passaggio da una sequenza all’altra di questo viaggio iniziatico, dall’altro riconosciuto l’impossibilità a vestire comodamente i panni del target per cui lo spettacolo era pensato. Perché, in parte minore o maggiore, sempre questo passaggio richiede una sponda di percezione in più, non necessariamente condivisa da tutti gli adulti in sala. In altre parole, di fronte a uno spettacolo ad essa indirizzato, la presenza di una collettività di bambini sarà sempre e comunque il termometro essenziale per stabilire la temperatura di una visione.

E tuttavia abbiamo anche abitato platee in cui l’adulto era “in minoranza”, confrontandoci con linguaggi che, programmaticamente, ordinavano i propri elementi in funzione di una fruizione infantile. Lorenzo Donati ha già parlato qui del paradigma del rispetto, su cui ci sembra di dover tornare nell’analisi delle forme di alcuni lavori.
L’arca di Silvia Civilla e Marco Alemanno (Terramare) ha proposto una volta di più lo stereotipo dell’adulto che scimmiotta il bambino, sintetizzando quest’ultimo in una creatura che si muove con grandi gesti didascalici, piange battendo i piedi e agitando i pugni e sgrana gli occhi per mostrare meraviglia. In questa fiaba originale i due, in un lungo sogno, soccorrono dal diluvio un’arca piena di peluche e dialogano con Noè. Il messaggio ambientalista contro lo spreco dell’acqua si innesta in un’odissea fantasiosa per superare la lontananza dai genitori: lo sforzo di magia scenica è però ridotto ai minimi termini, non riesce a proporre alcuna tridimensionalità e anzi scompone i passaggi di senso in quadri frontali su una scenografia immobile sotto alle (coloratissime) luci a led. Il rapporto con l’oggetto-peluche, che pure potrebbe portare a un interessante transfert e affrontare davvero i concetti di accudimento e protezione, è reso in una manipolazione poco curata e che dunque fallisce il salto verso una vera e propria animazione, perdendo più volte il contatto con lo spettatore (dai 3 anni).

Il colorato esperimento del Teatro Vascello su La Gabbianella e il gatto (adattato e diretto da Manuela Kustermann) sconta in parte la stessa criticità. Sul grande palco del Teatro Abeliano scenografie dipinte e ritagliate su pannelli di legno, appaiate in maniera poco chiara con fotografie proiettate sul fondale, non riescono a definire lo spazio, che finisce per essere occupato da parate e schiere di attori in costumi carnevaleschi, portati da un testo troppo verboso (a fronte della sintesi poetica del plot) a scivolare su stereotipi dialettali e su una scurrilità ripulita. L’inserimento delle canzoni e della musica, poi, non riesce a creare un vero e proprio contrappunto (su cui Schiaccianoci Swing, ad esempio, era in grado di fondare un’intera drammaturgia quasi senza parole). Anche stavolta, dunque, l’attenzione si perde, forse eccessivamente bombardata da dialoghi che non lasciano respiro alla riflessione.

Che cosa accade, invece, agli spettatori di Le 12 fatiche di Ercole del Teatro della Tosse? Ancora una volta sullo sfondo di una scena dominata dalla bidimensionalità, il divertimento si trasforma in intrattenimento frontale. Il fondale di legno che ospita un tabellone da gioco dell’oca diventa una teca dove, casella per casella, ospitare i trofei delle prove superate dall’eroe greco. Ma il tono generale, che nella sfida finale esplode nel goffo tentativo di coinvolgere l’intera platea di una domenicale, è vicinissimo all’animazione da villaggio vacanze. Se non si presta sufficiente attenzione al controllo delle forme, anche il contenuto si distorce: così incasellati, i simboli dell’antagonismo messi in fila dal mito arcaico si appiattiscono all’insegna della logica dell’affastellamento propria dei format televisivi. Nonostante il gran dispendio di energie dei due “conduttori” – perché mai la loro presenza si definisce in una pur distaccata mimesis attoriale – il messaggio si disperde e a essere sconfitto è il ragionamento del bambino, costantemente tirato per la giacchetta da un fuoco d’artificio all’altro.

Abbiamo però visto anche esperimenti più raffinati, come Vassilissa e la Babaracca di Kuziba, che in una scena cupa e ambrata organizza una meditazione sulla dualità tra accettazione e rifiuto. A partire dalla leggenda slava della Baba Jaga, la strega dei boschi che nella fiaba slava schiavizzava Vassilissa la bella, prende forma una sorta di “preferirei di no” bartlebyano usato come forma di redenzione a una totale remissività. Pur scontando qualche affanno nella gestione della corporeità dei due interpreti (divisi dalla baracca mobile che da elemento di meraviglia si trasforma presto in ingombrante architettura), la regia di Raffaella Giancipoli compone una guida originale verso un’iniziazione all’età adulta. Che infatti raccoglie e posiziona bene l’attenzione, con pochi segni e molta semplicità.

Sulla semplicità si fonda anche Il re clown di Pietro Naglieri (Skèné), una favola quasi patafisica che sembra fare il verso all’Ubu Roi – a sua volta caricatura del dramma moderno – per consegnare ai bimbi dai 5 anni un messaggio chiaro sulla creatività, sul potere dell’arte, sulla condizione di emergenza degli artisti, sulle distorsioni del potere. Uno spettacolo che potrebbe stare in una piazza come in un salotto, perché ben piantato su codici scarni, leggibili e rispettosi della fantasia dello spettatore. La qualità sta anche qui, nel saper condensare in una struttura rigorosa le potenzialità del divertimento, l’interazione e dunque la collaborazione tra palco e platea nella costruzione di un immaginario che non senta il bisogno di storpiare accenti, ritrovando invece nella caricatura la scintilla della satira culturale per tutte le età.

Più che con una diretta intenzione di critica negativa, certi esempi portati qui servono a individuare una possibile chiave, forse proprio quella di proporre, in forza di un “diritto del bambino al rispetto”, una feconda semplicità. Mettere a punto un sistema di segni che abbia il coraggio di porre domande e di lasciare aperta – nei ritmi e nelle forme del teatro, più che mai malleabili – la via per una risposta imprevedibile.

Sergio Lo Gatto




L’istinto dello spettatore bambino. Intervista a Michelangelo Campanale

Abbiamo visto Biancaneve, la vera storia, prodotto dal Crest di Taranto con testo e regia di Michelangelo Campanale. Abbiamo intervistato questo artista attorno al suo processo creativo e all’esigenza di fare teatro per un pubblico di bambini.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

Nel teatro delle nuove generazioni sento che c’è ancora il teatro. Nel teatro ragazzi il confronto è alla pari, è onesto, ti fa capire che le famiglie hanno bisogno di grande rispetto. Per questo è giusto affrontare il teatro ragazzi con molta meticolosità nel tentativo di portare il linguaggio del teatro per intero. Guardando mia figlia e il rapporto con la scuola, credo che il problema sia che oggi si affronta un solo linguaggio, quello verbale. Il teatro ha di certo il linguaggio verbale e forse uno dei principali problemi di oggi in Italia è che spesso solo quel livello viene considerato. Eppure i bambini hanno ancora tutti i linguaggi pronti, il punto è svilupparli: il teatro ti dà questa possibilità. È capace di inglobarli tutti, compresi cinema e nuove tecnologie. C’è la parola, sì, ma c’è l’immagine, la pittura, la luce, i costumi, le scenografie.
Si tratta di un passaggio fondamentale: in teatro si ha la possibilità di dimostrare ai bambini che non esiste solo la parte verbale e che la drammaturgia non è solo questo. Non è solo la parola, è anche la parola, tutto quanto deve arrivare insieme. Per me è importante, specialmente lavorando con le fiabe, comprendere che i discorsi vengono veicolati non solo dicendoli ma anche mostrandoli, mettendo un elemento accanto all’altro. Nella fiaba, un archetipo può essere forte nel momento in cui semplicemente arriva allo spettatore, non solo indicando le cose e chiamandole con il loro nome, per capirci, non solo dicendo che il fuoco brucia, ma dimostrando questa realtà attraverso tutti i linguaggi. Io, che ho un problema di dislessia, ho avuto difficoltà proprio in questo, non potevo passare soltanto attraverso la parola, dovevo arrivarci in qualche altra maniera.  Se la drammaturgia ospita tutti i linguaggi allora prorompe completamente la forza che deve avere il teatro.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Come è possibile evitare il didattismo? Come il vostro lavoro riesce a non limitarsi a insegnare ma invece riesce ad accogliere delle istanze dentro la consegna di una visione?

Mi piace sempre lasciare che uno spettacolo abbia molte interpretazioni. Se lavoro spesso con la fiaba è perché la fiaba è antica, ed è stata scremata dal tempo; ha poche parole, ma sono quelle giuste, e – se aperta il più possibile e se viene il più possibile rispettata – mette sempre le persone in discussione. Spesso, nei miei spettacoli, mi capita che per la stessa scena gli spettatori piangano o si arrabbino. Nella maggior parte dei casi non è perché lo scelga veramente, ma perché raccontando la fiaba fino in fondo, portando il racconto alla radice, guardando la fiaba anche dal punto di vista antropologico, questa muove elementi di cui io stesso non sono consapevole. Se si vuole fare arrivare un certo messaggio è secondo me importante lasciare alcune ambiguità, in modo che lo spettatore bambino possa lasciar agire il proprio istinto.

Parlando de Biancaneve, la vera storia, ho trovato molto forte l’idea dello specchio come figura che divide due metà: quella della madre e della figlia, che per tutta la drammaturgia non fanno che inseguirsi in una somiglianza. Mi sembra un tema molto attuale. Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Io vorrei sempre tentare di non essere retorico. E dirselo è già sbagliato. Penso che se ci si mette al servizio del racconto si scoprono i suoi elementi. Ad esempio, l’idea di lavorare su Biancaneve è venuta osservando mia moglie e mia figlia a tavola. Nelle piccole cose mi sono reso conto che quello è un luogo di battaglia, dove si può decidere tutto: io ti ho dato la vita, ma posso darti anche la morte. Nella crescita ti rendi conto che quell’intimità è importante. Ho osservato tutti gli allievi che ho conosciuto nei laboratori che la mia compagnia – La Luna nel letto – conduce e tutte le persone che in questi venti anni hanno lavorato con me, incontrando – a stretto contatto anche con la psicologa che segue tutti i miei lavori – anche persone affette da anoressia o bulimia. A un certo punto Biancaneve racconta della madre e ho scritto il testo pensando proprio a questo: «Ci sono madri che possono dare alla luce e madri che possono spegnere la luce».
Ho tante persone in compagnia e ho visto quanto le madri entrino in confusione proprio a tavola; le lotte di potere arrivano proprio lì, se il bambino non vuol mangiare, ad esempio. Siccome quello è un fatto istintivo, il bambino riconosce tale dinamica ed è lì che nasce il ricatto, il potere. È lì che, se le carte non vengono giocate bene, può succedere un guaio.

Il potere è al centro della tua lettura, dunque…

È difficile inquadrare Biancaneve, perché è una fiaba così piena di materiali che non voglio costringerla al solo ragionamento sul potere. Però questo è un tema a cui sono molto legato. Io mi sono innamorato di Il trono di spade, ci sono infatti anche molti riferimenti nei costumi. In una delle prime puntate un grande re spiega a un ragazzino che si appresta a governare che cosa sia il potere. È molto affascinante. Il potere tra la madre e la figlia è complesso, perché tutto il lavoro sta sulle piccole cose, i ricatti si muovono sui dettagli. Io ho visto ragazzine distrutte dalle madri. E allora ho pensato che di attuale c’è questo. Tuttavia sento il bisogno di tenere un’ambiguità sul ruolo della madre. Tutti i bambini, quando per alzata di mano faccio questa domanda, per difendersi dicono che quella madre è una “matrigna”. L’escamotage della parrucca che cambia spinge i bambini a identificare un passaggio da madre a matrigna, la vedono diversa da quella che è all’inizio. Però, voglio dire, pensiamo a Medea, una storia che arriva da molto lontano. Quante madri, in senso metaforico o reale, uccidono i propri figli? I bambini non possono sopportare questa idea, però nella storia originale – non quella dei Grimm – pare che quella matrigna sia invece proprio la madre di Biancaneve. Io tengo quell’ambiguità, ho tolto la battuta che chiariva questo passaggio, su consiglio della psicologa, e ora ognuno ci vede quello che vuole.

Anche il rapporto con il cibo è a mio modo di vedere molto attuale. Quella battuta della madre – «Mastica e ingoia» – è presa fedelmente da una conversazione udita in un ristorante, era una madre a parlare alla figlia. Quell’«ingoia» riduce a qualcosa di meccanico un atto conviviale. Infine, il tema dell’invidia: quante madri si vestono come le figlie e non vogliono invecchiare? Nella scena finale abbiamo inserito Sei bellissima di Loredana Bertè. Quella canzone è meravigliosa perché quel suo conflitto con Dio, sulla bellezza che lei pure aveva da giovane, l’ha portata a quello che è oggi, lei è proprio una strega. Bertè avrebbe dovuto morire a 27 anni come tutti i cantanti rock maledetti, sarebbe stato un mito, perché lì senti proprio lo struggimento e la potenza di questa artista; quel testo, allora, diventa giusto per quella scena, si tratta di simboli che identificano il rapporto delle madri con l’invecchiamento e la perdita della bellezza.
L’attualità sta anche nell’ultima battuta. Adesso si parla di immigrazione e della tragedia dei profughi bambini. Io dico ai bambini spettatori che sono già fortunati per il fatto di essere nati in Europa e non in un paese in guerra, sono fortunati di trovarsi ora in un teatro. Noi raccontiamo di un bambino (il nano Cucciolo, ndr) che ha conosciuto Biancaneve, ma quando siamo andati a fare ricerca sulla fiaba originale abbiamo scoperto che nella foresta dello Spessart, in Germania, dove è ambientata, fino a poco tempo fa nelle miniere non lavoravano solo i nani, ma anche i bambini.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale è sempre più rapido e incontrollabile. Come tieni conto di questi nuovi ritmi? Può il teatro entrare in relazione con quei ritmi?

Se c’è rispetto dell’arte teatrale intesa come artigianato, che nel corso dei secoli ha inglobato praticamente tutti i linguaggi, allora sarà di per sé già in dialogo, in confronto con il modo contemporaneo di comunicare.
La mia compagnia ha da poco prodotto un allestimento de L’abito nuovo, testo scritto da Pirandello e De Filippo. In questo testo si vede proprio la differenza tra i due: il secondo ha respirato il palcoscenico, è nato lì sopra, infatti c’è stato un conflitto da un teorico e un pratico. Le parole di De Filippo parlavano al pubblico, non sempre anche quelle di Pirandello. De Filippo si domandava sempre come e soprattutto perché dire questa o quella battuta. Aveva 30 anni quando ha scritto quel testo insieme a un Premio Nobel.
Dunque dico che se si porta la sapienza del teatro con tutti i suoi linguaggi, basta quello.
Nello spettacolo ho voluto lasciare momenti di silenzio assoluto, di ritmo basso, ma se c’è tensione quella tensione se la godono tutti. In Biancaneve c’è una scena in cui la protagonista si avvicina lentamente alla mela offerta dalla madre e in tutte le repliche si produce a un’attenzione assoluta, un assoluto silenzio.
Il teatro è allora un’occasione per impostare un ritmo alternativo, ma non puoi non tenere conto del modo in cui gli spettatori sono abituati a interagire. Per me il contatto con i bambini è fondamentale nei laboratori, proprio per capire quali sono le domande, di che cosa bisogna parlare, che cosa bisogna studiare approfonditamente. E nei laboratori e nelle prime presentazioni al pubblico devo immediatamente capire che ritmo hanno i bambini, un ritmo che cambia di anno in anno e che ha bisogno di una precisa qualità dell’attenzione, che va creata. Devi misurarla con loro, che possono essere molto più onesti e diretti degli adulti. Allora i ritmi dello spettacolo si assestano facendolo, la tensione va creata ogni volta, devi capirlo insieme a loro.
La bellezza è che i bambini, interrogati, ti rispondono in maniera diretta dicendo che si annoiano, quella è la bellezza del teatro ragazzi. Torno qui alla prima domanda. Io faccio anche regie di prosa, ma non è la stessa cosa. Qui incontri il pubblico, senza nessuna costruzione dietro, incontri persone che non sono mai entrate in un teatro. Alle domenicali trovi bambini, genitori e nonni, tre generazioni di spettatori nella stessa platea. È lì che respiri il teatro, è la più grande soddisfazione.

 

Sergio Lo Gatto