Abbiamo visto Biancaneve, la vera storia, prodotto dal Crest di Taranto con testo e regia di Michelangelo Campanale. Abbiamo intervistato questo artista attorno al suo processo creativo e all’esigenza di fare teatro per un pubblico di bambini.
Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?
Nel teatro delle nuove generazioni sento che c’è ancora il teatro. Nel teatro ragazzi il confronto è alla pari, è onesto, ti fa capire che le famiglie hanno bisogno di grande rispetto. Per questo è giusto affrontare il teatro ragazzi con molta meticolosità nel tentativo di portare il linguaggio del teatro per intero. Guardando mia figlia e il rapporto con la scuola, credo che il problema sia che oggi si affronta un solo linguaggio, quello verbale. Il teatro ha di certo il linguaggio verbale e forse uno dei principali problemi di oggi in Italia è che spesso solo quel livello viene considerato. Eppure i bambini hanno ancora tutti i linguaggi pronti, il punto è svilupparli: il teatro ti dà questa possibilità. È capace di inglobarli tutti, compresi cinema e nuove tecnologie. C’è la parola, sì, ma c’è l’immagine, la pittura, la luce, i costumi, le scenografie.
Si tratta di un passaggio fondamentale: in teatro si ha la possibilità di dimostrare ai bambini che non esiste solo la parte verbale e che la drammaturgia non è solo questo. Non è solo la parola, è anche la parola, tutto quanto deve arrivare insieme. Per me è importante, specialmente lavorando con le fiabe, comprendere che i discorsi vengono veicolati non solo dicendoli ma anche mostrandoli, mettendo un elemento accanto all’altro. Nella fiaba, un archetipo può essere forte nel momento in cui semplicemente arriva allo spettatore, non solo indicando le cose e chiamandole con il loro nome, per capirci, non solo dicendo che il fuoco brucia, ma dimostrando questa realtà attraverso tutti i linguaggi. Io, che ho un problema di dislessia, ho avuto difficoltà proprio in questo, non potevo passare soltanto attraverso la parola, dovevo arrivarci in qualche altra maniera. Se la drammaturgia ospita tutti i linguaggi allora prorompe completamente la forza che deve avere il teatro.
Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Come è possibile evitare il didattismo? Come il vostro lavoro riesce a non limitarsi a insegnare ma invece riesce ad accogliere delle istanze dentro la consegna di una visione?
Mi piace sempre lasciare che uno spettacolo abbia molte interpretazioni. Se lavoro spesso con la fiaba è perché la fiaba è antica, ed è stata scremata dal tempo; ha poche parole, ma sono quelle giuste, e – se aperta il più possibile e se viene il più possibile rispettata – mette sempre le persone in discussione. Spesso, nei miei spettacoli, mi capita che per la stessa scena gli spettatori piangano o si arrabbino. Nella maggior parte dei casi non è perché lo scelga veramente, ma perché raccontando la fiaba fino in fondo, portando il racconto alla radice, guardando la fiaba anche dal punto di vista antropologico, questa muove elementi di cui io stesso non sono consapevole. Se si vuole fare arrivare un certo messaggio è secondo me importante lasciare alcune ambiguità, in modo che lo spettatore bambino possa lasciar agire il proprio istinto.
Parlando de Biancaneve, la vera storia, ho trovato molto forte l’idea dello specchio come figura che divide due metà: quella della madre e della figlia, che per tutta la drammaturgia non fanno che inseguirsi in una somiglianza. Mi sembra un tema molto attuale. Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?
Io vorrei sempre tentare di non essere retorico. E dirselo è già sbagliato. Penso che se ci si mette al servizio del racconto si scoprono i suoi elementi. Ad esempio, l’idea di lavorare su Biancaneve è venuta osservando mia moglie e mia figlia a tavola. Nelle piccole cose mi sono reso conto che quello è un luogo di battaglia, dove si può decidere tutto: io ti ho dato la vita, ma posso darti anche la morte. Nella crescita ti rendi conto che quell’intimità è importante. Ho osservato tutti gli allievi che ho conosciuto nei laboratori che la mia compagnia – La Luna nel letto – conduce e tutte le persone che in questi venti anni hanno lavorato con me, incontrando – a stretto contatto anche con la psicologa che segue tutti i miei lavori – anche persone affette da anoressia o bulimia. A un certo punto Biancaneve racconta della madre e ho scritto il testo pensando proprio a questo: «Ci sono madri che possono dare alla luce e madri che possono spegnere la luce».
Ho tante persone in compagnia e ho visto quanto le madri entrino in confusione proprio a tavola; le lotte di potere arrivano proprio lì, se il bambino non vuol mangiare, ad esempio. Siccome quello è un fatto istintivo, il bambino riconosce tale dinamica ed è lì che nasce il ricatto, il potere. È lì che, se le carte non vengono giocate bene, può succedere un guaio.
Il potere è al centro della tua lettura, dunque…
È difficile inquadrare Biancaneve, perché è una fiaba così piena di materiali che non voglio costringerla al solo ragionamento sul potere. Però questo è un tema a cui sono molto legato. Io mi sono innamorato di Il trono di spade, ci sono infatti anche molti riferimenti nei costumi. In una delle prime puntate un grande re spiega a un ragazzino che si appresta a governare che cosa sia il potere. È molto affascinante. Il potere tra la madre e la figlia è complesso, perché tutto il lavoro sta sulle piccole cose, i ricatti si muovono sui dettagli. Io ho visto ragazzine distrutte dalle madri. E allora ho pensato che di attuale c’è questo. Tuttavia sento il bisogno di tenere un’ambiguità sul ruolo della madre. Tutti i bambini, quando per alzata di mano faccio questa domanda, per difendersi dicono che quella madre è una “matrigna”. L’escamotage della parrucca che cambia spinge i bambini a identificare un passaggio da madre a matrigna, la vedono diversa da quella che è all’inizio. Però, voglio dire, pensiamo a Medea, una storia che arriva da molto lontano. Quante madri, in senso metaforico o reale, uccidono i propri figli? I bambini non possono sopportare questa idea, però nella storia originale – non quella dei Grimm – pare che quella matrigna sia invece proprio la madre di Biancaneve. Io tengo quell’ambiguità, ho tolto la battuta che chiariva questo passaggio, su consiglio della psicologa, e ora ognuno ci vede quello che vuole.
Anche il rapporto con il cibo è a mio modo di vedere molto attuale. Quella battuta della madre – «Mastica e ingoia» – è presa fedelmente da una conversazione udita in un ristorante, era una madre a parlare alla figlia. Quell’«ingoia» riduce a qualcosa di meccanico un atto conviviale. Infine, il tema dell’invidia: quante madri si vestono come le figlie e non vogliono invecchiare? Nella scena finale abbiamo inserito Sei bellissima di Loredana Bertè. Quella canzone è meravigliosa perché quel suo conflitto con Dio, sulla bellezza che lei pure aveva da giovane, l’ha portata a quello che è oggi, lei è proprio una strega. Bertè avrebbe dovuto morire a 27 anni come tutti i cantanti rock maledetti, sarebbe stato un mito, perché lì senti proprio lo struggimento e la potenza di questa artista; quel testo, allora, diventa giusto per quella scena, si tratta di simboli che identificano il rapporto delle madri con l’invecchiamento e la perdita della bellezza.
L’attualità sta anche nell’ultima battuta. Adesso si parla di immigrazione e della tragedia dei profughi bambini. Io dico ai bambini spettatori che sono già fortunati per il fatto di essere nati in Europa e non in un paese in guerra, sono fortunati di trovarsi ora in un teatro. Noi raccontiamo di un bambino (il nano Cucciolo, ndr) che ha conosciuto Biancaneve, ma quando siamo andati a fare ricerca sulla fiaba originale abbiamo scoperto che nella foresta dello Spessart, in Germania, dove è ambientata, fino a poco tempo fa nelle miniere non lavoravano solo i nani, ma anche i bambini.
Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale è sempre più rapido e incontrollabile. Come tieni conto di questi nuovi ritmi? Può il teatro entrare in relazione con quei ritmi?
Se c’è rispetto dell’arte teatrale intesa come artigianato, che nel corso dei secoli ha inglobato praticamente tutti i linguaggi, allora sarà di per sé già in dialogo, in confronto con il modo contemporaneo di comunicare.
La mia compagnia ha da poco prodotto un allestimento de L’abito nuovo, testo scritto da Pirandello e De Filippo. In questo testo si vede proprio la differenza tra i due: il secondo ha respirato il palcoscenico, è nato lì sopra, infatti c’è stato un conflitto da un teorico e un pratico. Le parole di De Filippo parlavano al pubblico, non sempre anche quelle di Pirandello. De Filippo si domandava sempre come e soprattutto perché dire questa o quella battuta. Aveva 30 anni quando ha scritto quel testo insieme a un Premio Nobel.
Dunque dico che se si porta la sapienza del teatro con tutti i suoi linguaggi, basta quello.
Nello spettacolo ho voluto lasciare momenti di silenzio assoluto, di ritmo basso, ma se c’è tensione quella tensione se la godono tutti. In Biancaneve c’è una scena in cui la protagonista si avvicina lentamente alla mela offerta dalla madre e in tutte le repliche si produce a un’attenzione assoluta, un assoluto silenzio.
Il teatro è allora un’occasione per impostare un ritmo alternativo, ma non puoi non tenere conto del modo in cui gli spettatori sono abituati a interagire. Per me il contatto con i bambini è fondamentale nei laboratori, proprio per capire quali sono le domande, di che cosa bisogna parlare, che cosa bisogna studiare approfonditamente. E nei laboratori e nelle prime presentazioni al pubblico devo immediatamente capire che ritmo hanno i bambini, un ritmo che cambia di anno in anno e che ha bisogno di una precisa qualità dell’attenzione, che va creata. Devi misurarla con loro, che possono essere molto più onesti e diretti degli adulti. Allora i ritmi dello spettacolo si assestano facendolo, la tensione va creata ogni volta, devi capirlo insieme a loro.
La bellezza è che i bambini, interrogati, ti rispondono in maniera diretta dicendo che si annoiano, quella è la bellezza del teatro ragazzi. Torno qui alla prima domanda. Io faccio anche regie di prosa, ma non è la stessa cosa. Qui incontri il pubblico, senza nessuna costruzione dietro, incontri persone che non sono mai entrate in un teatro. Alle domenicali trovi bambini, genitori e nonni, tre generazioni di spettatori nella stessa platea. È lì che respiri il teatro, è la più grande soddisfazione.
Sergio Lo Gatto