Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Il dovere dell’artista al coraggio e la paura di noi spettatori

Il teatro Kismet e il teatro Abeliano si trovano ai poli opposti della direttrice nord/sud di Bari. Li collega una tortuosa traiettoria che passa per il centro cittadino, oppure una strada statale che – nei nostri spostamenti da uno spettacolo all’altro – vediamo spesso fitta di ingorghi e di traffico. Il compito di questi teatri è proprio anche quello di ricucire certe lontananze, di installarsi nella periferia per dare vita a una “particolarità urbana” che non diventi emarginazione sociale. Ed è appunto sul filo di tali questioni che il festival Maggio all’infanzia ragiona e sviluppa le proprie azioni da oltre vent’anni. Lo fa assumendo l’infanzia come una prospettiva possibile, sul presente, certo, ma inevitabilmente anche sul futuro. Lo fa riempiendo la direttrice nord/sud di una nutrita comunità di operatori, insegnanti, artisti, bambini e famiglie, semplici spettatori (ma può uno spettatore essere veramente semplice o  semplicemente disinteressato?) che per quattro giorni si muovono, osservano, si incuriosiscono.

Fra il Kismet e l’Abeliano ci sono quasi sei chilometri. Fra il palco e la prima fila di spettatori c’è circa un metro di separazione. Anzi, ancora meno per Concerto fragile di Casa degli Alfieri – Universi sensibili (per la regia di Antonio Catalano), una delle proposte che apre la giornata inaugurale del festival. I bambini sono infatti a strettissimo contatto con le attrici, a dividerli praticamente solo un fascio di luce. Sul palco, una sorta di laboratorio o addirittura di “cucina sonora” fatta di piccoli oggetti, contenitori, bizzarri strumenti ma soprattutto di un fondoscena dal chiaro sapore artigianale e casalingo, dietro il quale i protagonisti a volte si rintanano per meglio rimarcare i gesti e le espressioni. Quello di Sara Bevilacqua e Alessandra Manti è un invito a scomporre e ricomporre in continuazione il suono e la sua esemplificazione grafica. Non a caso all’inizio ci viene chiesto di immaginare il “rumore di occhi” e vediamo degli occhi finti che le attrici “indossano” mentre riproducono il suono di una tale operazione. Poi, metaforicamente, ci caviamo pure noi gli occhi ed è la volta del rumore dei pesci, delle stelle, del tempo che passa e così via, in un piccolo crescendo di premesse astratte che si traducono però in un approccio che resta sempre fortemente figurativo.
«A teatro si fa silenzio» dice una maschera del Kismet prima dell’inizio dello spettacolo. Eppure, poco dopo la sala viene riempita di stimoli uditivi. Eppure, la compagnia durante lo spettacolo cerca ripetutamente la “rumorosa partecipazione” dei bambini, spingendoli a battere le mani, a cantare con loro, ad ammiccare ai propri gesti. Un anno fa – proprio commentando il festival di Maggio all’infanzia – parlavamo sulla scorta di Korczak del “diritto del bambino al rispetto”. Ora, ci pare che questo principio possa trovare il proprio contrappeso speculare nel “dovere dell’artista al coraggio”. In quel metro scarso fra la prima fila e il palco, c’è un abisso: l’abisso di una radicale distanza, di cui il teatro sembrerebbe non poter fare a meno per accadere. Si tratta ovviamente di una distanza che può essere messa in discussione, sfumata o annullata, ma che dovrebbe essere presupposta affinché vi sia innanzitutto una relazione, fra chi da una parte si assume il rischio di presentarsi in quanto alterità e chi dall’altra è così chiamato a un ascolto nel senso più profondo del termine. Sono, in fondo, le basilari condizioni per instaurare un qualsivoglia rapporto pedagogico.
Nell’approccio di Casa degli Alfieri – Universi sensibili parrebbe esserci invece una certa paura a instaurare questa distanza, la tendenza a confondere i piani per timore di non suscitare l’interesse del bambino. Si porta una ragazzina del pubblico sul palco, senza poi lasciarle alcuna autonomia. Ci si esprime a volte a versi e mugugni, quando la situazione sembrerebbe invece reclamare il semplice uso delle parole. È un peccato, dal momento che l’impianto dello spettacolo, seppur esile (fragile come appunto esemplificato dal titolo), possiede una carica evocativa che guarda agli elementi, a una felice e rarefatta “intrusione” dei misteri del cosmo dentro oggetti di carattere domestico. Ma quello che ne riceviamo infine è uno smussato incanto verso le “cose primarie” e non, ben più potente e viscerale, un incanto primario verso le cose, verso il teatro.

Concerto Fragile

L’artista che si relazioni con un pubblico bambino ha davanti a sé una spietata sincerità e uno sguardo in attesa, sospeso, curioso di ciò che dovrà accadere dopo il buio in sala e nello stesso tempo pronto a vagare alla ricerca di altri stimoli più accattivanti. Tutto questo, insieme al dovere al rispetto del proprio interlocutore e al dovere al coraggio della messinscena, rende arduo il compito dell’artista e pregno di responsabilità, ma, riprendendo le parole di Chiara Guidi in un’intervista per il festival di Castelfiorentino di quest’anno, «non bisogna aver paura delle nostre paure» di fronte ai bambini. Relazionarsi con questo tipo di pubblico, infatti, vuol dire innanzitutto essere capaci di superare ogni tipo di stereotipo che accompagna l’idea d’infanzia, come quello secondo il quale esisterebbero temi, considerati tabù, con i quali essa non debba venire a contatto. Parlare ai bambini di morte e di violenza, per esempio, sembra ancora difficile, sebbene essi ne vengano quotidianamente subissati attraverso i media, che però non lasciano il tempo dell’elaborazione, costringendo l’interlocutore a subire immagini e informazioni che finiscono per perdere il proprio stesso senso. È per questo, forse, che ascoltare una storia risulta sempre un’esperienza potente e impressionante, per i bambini come per gli adulti, proprio perché il tempo sospeso del racconto permette di soffermarsi sulle emozioni che provengono dall’ascolto. Moltissimo teatro ragazzi sceglie di mettere in scena le fiabe classiche; le fiabe però non nascono per i bambini, ma arrivano a loro dopo accurate rivisitazioni e addolcimenti, attraverso altre strade, e contengono spesso accadimenti tragici dove tutti quei temi considerati tabù, di cui prima si parlava, sono all’ordine del giorno. Quando un artista decide di mettere in scena una fiaba classica presentandola nei suoi tratti originali, superando la paura delle proprie paure e riconoscendo il valore formativo e iniziatico della fiaba, che nasce come faro per accompagnare la crescita, ecco che ci troviamo di fronte a un’opera di senso.

Pollicino, una fiaba che parla, tra le altre cose, di abbandono, di paura, di morte è stata la storia della quale Manuela Capece e Davide Doro della Compagnia Rodisio hanno curato la regia e la drammaturgia. I due attori, Simona Gambaro e Paolo Piano sono stati magistrali protagonisti di un racconto immersivo che comincia, come tutte le storie, con un fuoco centrale. Il pubblico non si ritrova a essere solo spettatore, testimone di una storia che si svolge inesorabile sotto i propri occhi, ma è chiamato a una riflessione profonda e contraddittoria. Il dialogo iniziale dei genitori di Pollicino non lascia trapelare alcun giudizio rispetto al loro comportamento: erano poveri, non potevano sfamare i propri figli e li hanno abbandonati. All’inizio dello spettacolo I due attori si rivolgono al pubblico dimostrando continui sbalzi d’umore: passano dalla gioia al senso di colpa, alla disperazione, dei lampi emotivi che ci investono con una luce violenta e sorridiamo e ridiamo e ripiombiamo nella pena. Genitori che abbandonano i propri figli al loro destino, soli, nel buio del bosco, con la propria paura. Come soli e al buio siamo noi spettatori: la musica esce dalle casse fortissima, stordisce e qualche bambino cerca rassicurazione tra le braccia dei genitori o chiede conferma rispetto alla finzione di ciò che sta vedendo. L’orchessa, invece, quasi in un ribaltamento delle certezze emotive, è una madre premurosa che non può fare a meno di accoglierti, fa scaldare i sette fratelli, o meglio, ci fa scaldare, perché è a noi che si rivolge. Ci fa mangiare bene e ci manda a letto, sfidando la folle crudeltà del marito, l’Orco. Un orco ricoperto di pelliccia che potrebbe essere chiunque e qualsiasi cosa, potrebbe racchiudere tutte le nostre più intime paure, l’uomo nero, senza volto, il volto lo conosciamo solo noi. Il passo è lento, pesante ed è sempre più vicino. Aspettiamo il momento in cui deciderà di sfondare la quarta parete e questo accade nel momento peggiore, quando brandisce un coltellaccio tra le mani e grugnendo salta da una sedia all’altra della platea, illuminato a tratti da una luce stroboscopica, e sembra essere dovunque. La sala piomba nel terrore. È troppo? Noi sappiamo solo di aver fatto un percorso, di essere stati tanti piccoli Pollicino e il nostro coraggio è stato premiato. A differenza dei media, che non permettono di metabolizzare le immagini, di porsi domande su ciò che stiamo guardando, il teatro ha il potere di farci ancora più paura, ma di stimolare domande, di entrare in contatto con la nostra intimità. I due attori, alla fine, si complimentano con noi per il nostro coraggio, siamo stati bravi. Ci accompagnano sulla soglia della storia, siamo usciti e ce l’abbiamo fatta, rallenta a poco a poco la tensione e festeggiamo con loro, più forti, più grandi, sotto una pioggia dorata.

Locandina di Cappuccetto Rosso

Con lo stesso senso del rispetto e del coraggio la fiaba di Cappuccetto Rosso viene affrontata dal regista Michelangelo Campanale (coadiuvato dalle coreografie di Vito Cassano), che già in alcuni dei suoi precedenti lavori ha dimostrato quanto per lui sia importante rispettare la verità della fiaba: conoscere la verità e saperla affrontare è l’unico modo per crescere. Un lupo, una bambina, il rosso e il nero, una rosa e un gruppo di danzatori-acrobati. La messinscena di Campanale è un vero e proprio show che coinvolge e rapisce, ma dietro le luci, la musica, le danze frenetiche, si consuma una delle più ambigue delle fiabe: un lupo inganna una bambina e la divora. È un lupo antropomorfizzato quello di Campanale, un uomo elegante che sa danzare con leggerezza, ma che alla vista della bambina non sa reprimere i propri istinti animaleschi. Si rivolge anche a un pubblico di bambini che nonostante lo abbia visto braccato da un gruppo di cacciatori e ripetutamente colpito, ma mai mortalmente, non è dalla sua parte. Lo riconoscono come il lupo cattivo delle fiabe al quale spetta, alla fine, una meritata morte affinché il bene trionfi. È proprio a questo punto che il lupo ricorda ai bambini che ucciderlo è inutile, la paura è inarrestabile e non morirebbe insieme a lui. I momenti di divertimento e di eccitata allegria sono tanti e fanno da contrappeso a una storia della quale cogliamo la verità dolorosa nei momenti di delicatezza e rallentamento. Cappuccetto Rosso attraversa il bosco, a passi lenti, raccogliendo I fiori che il lupo ha messo lì per lei, una trappola, per condurla sulla soglia di una casa a lei nota ma che non avrà nulla di famigliare. Attraverso l’espediente del ralenty viviamo uno dei momenti più intensi dello spettacolo: un uscio che si apre e poi si richiude contiene tutta la disperazione di un evento. Cappuccetto Rosso è afferrata per le trecce e dopo non sappiamo più nulla di lei. In quel gesto violento è racchiuso tutto l’orrore di quell’esclamazione tanto attesa dai bambini, e ascoltata sempre con paura ed eccitazione: «è per mangiarti meglio!». Sebbene tutto avvenga con una lentezza inesorabile non possiamo far niente per lei, e quindi per noi, che siamo sempre coinvolti emotivamente. Non si può cambiare il destino della fiaba, è lui che opera in noi un mutamento, una crescita, ma solo se ci viene raccontata la verità. Campanale non adotta il finale di Perrault, ma il suo punto di vista è forse ancora più inquietante: la bambina si salva, ma il lupo non muore mai, è sempre in agguato. Questa volta Cappuccetto Rosso ce l’ha fatta, ma domani chissà …

Francesco Brusa, Nella Califano




A scuola di teatro. Un incontro con le insegnanti da Maggio all’infanzia

L’attività scenica come strumento pedagogico: una domanda che attraversa praticamente tutto il panorama del teatro per e con l’infanzia. Ma quali le sue concrete ricadute all’interno della scuola e dei percorsi didattici? Quali gli ostacoli e le scoperte che si incontrano, gli “aggiustamenti” che vanno di volta in volta messi in atto? Ne abbiamo discusso a Bari durante Maggio all’infanzia con un gruppo di insegnanti che si confrontano quotidianamente con tali pratiche, la maggior parte di loro ha preso parte al progetto Teatro Scuola Vedere Fare organizzato a Napoli da Le Nuvole in collaborazione con AGITA, Casa dello Spettatore e Giorgio Testa.

Ci piacerebbe partire da una delle grandi questioni che riguardano il teatro rivolto ai bambini e ai ragazzi: in che modo il teatro può affiancare i percorsi educativi e, in particolare, il percorso didattico-educativo per eccellenza che è la scuola? A partire dalle vostre diverse esperienze quali pensieri e materiali di lavoro state raccogliendo rispetto a questa domanda, cosa avete compreso?

«Io sono un’insegnante di scuola secondaria di primo grado, quindi mi rivolgo ai ragazzi dagli undici ai quattordici anni. Il mio percorso però comincia prima, con alunni con disabilità, bisogni educativi speciali e ho sempre avuto l’esigenza di ricercare tecniche e metodologie per un’attività didattica che fosse il più possibile inclusiva. Il laboratorio teatrale, a prescindere dalla realizzazione di uno spettacolo, credo sia fondamentale innanzitutto per formare il gruppo classe, creare coesione e dare a ciascuno la possibilità di partecipare. Le conoscenze e le competenze specifiche arrivano in un secondo momento, ma prima è necessario lavorare sul corpo, sul movimento, sull’interazione e, una volta stabilita una buona relazione, l’intera didattica ne risente in positivo. Gli incontri e le attività che stiamo facendo per questo progetto ci hanno permesso allora di diventare più padrone di certe tecniche e affinare il nostro sguardo sul teatro, sulle sue possibili realizzazioni e sul modo in cui ci si può rapportare, per poi poter calare questi strumenti nelle nostre classi. Lo stimolo di fondo per me è stato questo».

«Uno sguardo verso il teatro diverso, non legato ai soliti stereotipi. Attraverso questo tipo di approccio “dal di dentro” abbiamo una visione a 360 gradi di ciò che c’è dietro quello che vediamo sul palco».

«E poi il teatro ti permette di toccare in maniera trasversale tutte le discipline. Spesso ci troviamo di fronte a genitori preoccupati del fatto che il progetto teatrale possa togliere ore alle altre materie, allora noi cerchiamo, concretamente, di far capire loro che attraverso il teatro si fa tutto, però in una maniera ludica, che dà la possibilità ai bambini di “venir fuori”, di vincere ostacoli comunicativi. Molte volte soprattutto quelli più timidi, riservati, realizzano delle performance che ci sconvolgono».

«Che non ti aspetteresti mai, e forse in nessun altro ambito potrebbero farlo in questo modo».

«Riescono a esprimersi meglio e con maggior libertà, anche perché nei nostri percorsi puntiamo molto sulle emozioni».

Com’è strutturato il progetto “Teatro Scuola Vedere Fare”?

«Il percorso è iniziato a ottobre e i bambini hanno partecipato a minimo tre spettacoli nel nostro teatro di riferimento, il Teatro dei Piccoli, mentre ogni mese ci sono stati dei corsi di formazione per i docenti. Gli operatori ci hanno raggiunto anche scuola e insieme ai bambini abbiamo creato lo spettacolo, a partire dagli stimoli più vari: i libri, le esperienze condivise…».

«La visione e il fare procedono parallelamente. Oltre a questi tre spettacoli se ne può scegliere un quarto, in base a ciò che si vuole andare a raccontare, alle discipline e al percorso didattico».

«Nel corso rivolto ai docenti, invece, siamo noi a fare attività laboratoriale, attraverso la scrittura, il movimento; sperimentiamo sulla nostra pelle tutto ciò che proporremo ai piccoli. E poi chiediamo ai bambini di cosa vogliono parlare e con loro scriviamo lo spettacolo – dai testi, quando ci sono, alle scene, alla scelta delle musiche, parte tutto da loro. Alla fine partecipiamo a una rassegna di spettacoli creati dai ragazzi. Il progetto viene portato avanti nella scuola primaria e secondaria, elementari e medie, in continuità. Questo per noi significa anche rapportarsi con altri docenti del territorio e condividere le buone pratiche tanto decantate anche a livello pedagogico; ci incontriamo e ci confrontiamo rispetto a dove siamo partiti e arrivati, alle difficoltà incontrate e al modo in cui sono state risolte».

Da chi è composto il pubblico degli spettacoli dei ragazzi?

«Dai genitori e dalle altre classi che hanno aderito al progetto; ciascuna partecipa ad almeno uno degli spettacoli degli altri. Durante l’anno prepariamo un lavoro per classe o anche con gruppi interclasse».

Che tipo di confronto è quello con gli operatori?

«Ci incontriamo una volta al mese. Le indicazioni che ci vengono date riguardano soprattutto la gestione dello spazio, le possibilità sceniche, tecniche; ma lo spettacolo lo creiamo insieme ai bambini e ai ragazzi. Ed è interessante vedere come siano loro a compiere questo processo di conoscenza, dilatato nel tempo, come dovrebbe essere, e inizino a dibattere criticamente, a impadronirsi del linguaggio tecnico. Non solo, sono ragazzi che all’inizio non erano mai stati a teatro e che a poco a poco cominciano a formarsene un’idea propria. Mi è capitato di far loro scrivere un testo a riguardo, ed è emerso che uno dei primi pensieri è la paura di annoiarsi ma poi, dopo aver fatto l’esperienza, il desiderio generalmente è quello di ripeterla».

Come affrontate invece con i ragazzi il momento della visione? In che modo pratica e arte dello sguardo si intrecciano?

«Per gli spettacoli interni al progetto il nostro approfondimento è legato alla didattica della visione della Casa dello Spettatore. In classe, poi, lanciamo uno stimolo che sia uno spunto per giocare e lavorare sull’attesa, non tanto sull’aspettativa; e naturalmente c’è un momento che riguarda il dopo visione. Quello per me è stato particolarmente interessante perché, man mano che si va avanti, i ragazzi cominciano a fare incroci, paragoni, a esprimere preferenze. Noi abbiamo visto anche altri spettacoli programmati dalla scuola al di fuori di questa rassegna e loro di volta in volta esprimevano un giudizio critico».

«Non sono più degli spettatori passivi».

«Diciamo che il lavoro non si esaurisce con la visione dello spettacolo. Il momento della preparazione alla visione a volte c’è, altre volte invece preferiamo portarli completamente a digiuno per parlarne successivamente».

«E l’aspetto meraviglioso di quest’esperienza, per quel che riguarda la scuola primaria almeno, è che quasi sempre è possibile riportarla nella quotidianità didattica perché si va ad amalgamare talmente tanto con il lavoro di tutti i giorni, in maniera trasversale a tutte le discipline, che ci si ritorna al di là dei laboratori con gli esperti esterni, finendo, spesso, per andare molto oltre i tempi che ci si erano prefissati. Perché in realtà le esigenze e gli input arrivano dai bambini. Facciamo leva su tanti aspetti – la curiosità, la motivazione, gli interessi – e il loro feedback è talmente positivo che torna indietro come un boomerang, non puoi fare a meno di recepirlo. È un amalgama meraviglioso per il tuo mestiere e di fronte ti ritrovi alunni motivati ed entusiasti di imparare e vivere la realtà della scuola, che spesso è altro».

«Io ho una classe particolare, i ragazzi in generale erano e sono ancora abbastanza demotivati. Per questo progetto, però, effettivamente sono loro che ti costringono a stare dietro al lavoro, portando avanti un’attività di cooperazione e co-costruzione, così come sempre dovrebbe essere. La sfida dal punto di vista della scuola media, che ha 10 insegnanti per classe, è di contagiare, di sperare cioè che i ragazzi a loro volta contagino gli altri colleghi che non sono in quest’esperienza ma che possono trarne grande beneficio. La scommessa è anche quella di non restare gli unici referenti».

«Noi, che abbiamo cominciato con i piccoli, ci siamo accorte che rispetto all’autocontrollo, alle capacità attentive, all’espressione delle emozioni e al riconoscimento dell’altro c’è stato un percorso di crescita enorme. È il terzo anno che seguiamo il progetto: tre anni fa lo facemmo con una quinta elementare, l’anno scorso con una prima, quest’anno sempre con la stessa classe. Da un anno all’altro è come se ci fosse un abisso e, nonostante la naturale vivacità o le problematiche che hanno i nostri bimbi, è evidente che ci siano un diverso controllo delle emozioni e un’altra capacità di elaborarle. Diciamo che in qualche modo è come se fosse un percorso terapeutico per loro, al di là dell’acquisizione delle conoscenze, soprattutto in relazione alla capacità di concentrazione connessa alla visione. Il lavoro con Giorgio Testa a noi è servito moltissimo. I bambini hanno una grande abilità nel selezionare ciò che vedono e individuare la chiave di lettura di uno spettacolo, spesso sono loro a cogliere il messaggio e a compiere associazioni, diverse dalle nostre, con dei particolari specifici. Ci sono poi reazioni comuni molto simili, che possono rimandare anche ad aspetti che noi avevamo sottovalutato; questo porta a elaborare nuove situazioni di confronto. È un percorso stimolante, e anche i genitori lo hanno compreso».

Sulla base di questa esperienza e delle vostre conoscenze pedagogiche, come va posta oggi la questione della visione teatrale? Che tipo di oggetto è il teatro da guardare? Anche considerando la società frammentata, iper-rappresentata e iper-mediatizzata in cui viviamo – se ne può parlare in termini di “alterità”?

«Riguardo la visione a me viene sempre in mente un discorso di Franco Lorenzoni, che ascoltai durante un’assemblea della CGIL. Lui diceva che per poter crescere bene all’interno dell’ambiente scolastico è necessario che i bambini conoscano almeno due mondi: la scuola e qualcosa che le sia tangente, ma che non vi si mescoli troppo. Il teatro è questo mondo altro. Allora l’esperienza della visione teatrale, per quanto mi riguarda, è un avvicinamento dei bambini a qualcosa di diverso dalla scuola ma che ha degli elementi in comune, come la trasversalità di cui si parlava prima, che permette loro di esprimersi in maniera più libera, meno convenzionale, di parlare attraverso le emozioni. In quanto alterità il teatro aiuta anche ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della realtà e a entrare in relazione con la diversità, a conoscere ciò che esiste al di là di noi. Occupandomi di inclusione e lavorando con i bambini stranieri personalmente questo è un linguaggio che uso molto. A Napoli stanno facendo un’esperienza importante, io sono di Roma, e invidio questo percorso perché Roma è una città in cui oggi c’è molto poco da questo punto di vista. Sebbene anni fa sia nata un’esperienza altrettanto importante che vorrei ricordare e che in qualche modo ha posto le basi del lavoro della Casa dello Spettatore. Vent’anni fa, al Teatro Ateneo, il professor Ferruccio Marotti avviò infatti un progetto di ricerca sul teatro ragazzi e il suo rapporto con la scuola, in cui era coinvolta anche la regione Lazio. Un percorso di studi che si rivolgeva soprattutto agli insegnanti delle scuole superiori, incentrato sulla didattica del teatro e strutturato in cinque corsi di aggiornamento, condotti da altrettanti professori che provenivano da diverse parti d’Italia. Tra questi c’era anche Giorgio Testa. Ogni corso aveva un indirizzo differente rispetto a come avvicinare i ragazzi al teatro, e ricordo che Giorgio insisteva molto sulla didattica della visione, sull’importanza di far conoscere il teatro vedendolo; poi c’era anche chi puntava l’attenzione sul fare, sulle pratiche. Cinquecento ore di corso, diverse prospettive, fu una cosa estremamente interessante che alla fine sfociò in un convegno internazionale e in un bellissimo confronto tra l’Italia, la Francia, il Belgio e l’Inghilterra. Ecco, questo progetto però non ha avuto seguito».

«Rispetto a questa domanda, ciò a cui teniamo moltissimo è la costruzione di un sapere critico, perché i bambini oggi – nel loro rapporto costante con i videogiochi, per esempio – tendono invece verso un atteggiamento fortemente passivo».

Utilizzate la tecnologia nei vostri laboratori, negli spettacoli?

«Pochissimo, molto poco. Piuttosto è un percorso che li libera da questo rapporto. È quasi un antidoto. Intervenire su tale versante, comunque, è molto difficile; noi abbiamo il tempo pieno, usciti da scuola i bambini sono molto impegnati (il catechismo, lo sport), le relazioni familiari non sempre si basano sull’ascolto e negli anni c’è stato un forte impoverimento linguistico. Allora ci teniamo che il teatro dei ragazzi resti quanto più “teatro” possibile».

In questo modo, secondo voi, il teatro rischia di essere percepito subito come qualcosa di vecchio?

«No, no, è un linguaggio che bisogna far conoscere… Quest’anno, per esempio, io lavoro con una prima elementare dove sono venuti gli operatori della Casa dello Spettatore. A quest’età non tutti i bambini conoscono il teatro, il primo passo quindi è porre delle domande, assumere una posizione se vuoi un po’ filosofica e in maniera maieutica “mettere in discussione” ciò che sanno, tirarlo fuori. Laura Squarcia, una delle operatrici, è venuta in classe e ha realizzato con loro un bellissimo incontro, sollecitandoli anche in maniera divertente: “Come vi immaginate il teatro?”, “Che differenza c’è secondo voi con il cinema?”; a proposito dei diversi linguaggi comunicativi ed espressivi, tutto ciò ha innescato una riflessione basata sul confronto e i bambini sono infine arrivati a ‘vedere’ le differenze. Quando poi li abbiamo portati a teatro, soprattutto chi non c’era mai stato, avevano un atteggiamento di curiosità costruttivo. Quindi c’è stata una preparazione alla visione rivolta al luogo e al linguaggio del teatro, non allo spettacolo specifico, e, dopo, un altro incontro in cui chiedere ai bambini quali fossero le loro impressioni. Ecco, il fatto interessante è stato mantenere uno sguardo ad ampio raggio».

«Di fronte al simbolo e alla metafora dei linguaggi artistici i ragazzi, i bambini hanno una potenza interpretativa incredibile. E pian piano apprezzano, comprendono e fanno opera di astrazione (i ragazzi che hanno seguito questo percorso, per esempio, ora mi fanno notare che non amano più vedere qualcosa che risulti loro particolarmente didascalico, ripetitivo). Dispongono del pensiero metaforico, che riguarda il processo creativo, e questo emerge anche nel momento del ‘fare’, in cui può accadere che attingano dagli spettacoli visti. Il punto dal quale si parte però è l’abitudine a ciò che viene dato, narrato loro da altre forme di intrattenimento con cui non fanno più un’operazione critica, di ragionamento, di astrazione, appunto. Inoltre i social e internet favoriscono una giustapposizione dei contenuti piuttosto che una loro rielaborazione, in una sorta di rapporto uno a uno».

Dal canto suo il teatro riconduce a un’esperienza comunitaria, ad avere a che fare con una materialità dell’esperienza…

«Esperienza di cui iniziano a interiorizzare le regole. Addirittura sono loro, spesso, che dicono ai genitori di non utilizzare i telefonini».

«Bello è anche il momento del confronto dopo la visione, una cosa che al Teatro dei Piccoli accade sempre. I bambini fanno un sacco di domande e c’è un confronto molto attivo con gli attori».

«Questi incontri vengono pensati in modo tale che siano i ragazzi a porre le domande e a rispondere ancor prima degli attori – che a volte sono come un pretesto per formularle –, così ché il dibattito nasca già in sala».

«Come per certi versi accade a scuola. Il teatro è uno strumento artistico e io penso che, essendo tale, debba avere più spazio di libertà di pensiero possibile. Quando chiediamo ai bambini di fare un disegno, diciamo loro che sono liberi di disegnare ciò che vogliono, è il loro disegno; allo stesso modo con il teatro devono poter esprimere liberamente le loro opinioni. Noi insegnanti siamo sempre dei mediatori potenti – a qualcuno potrebbe venire in mente: “C’è la maestra, non è che posso dire proprio quello che penso” – dunque dobbiamo cercare di lasciar spazio a una libertà di pensiero e di approfondimento. Questo vuole anche dire che in una quarta elementare, per esempio, non puoi più accettare una risposta che abbia a che fare solo con i “sì” e i “no” del “ti è piaciuto?”, devi provare a chiedere quali sono le cose belle o meno che hanno trovato e perché».

A cura di Lorenzo Donati, Sergio Lo Gatto




Radio Planetarium #2: gli spettatori bambini

Che cosa ti succede quando vai a teatro? In occasione del festival Maggio all’Infanzia (Bari, 18-21 maggio 2017) abbiamo posto questa e altre domande ad alcune classi di scuole secondarie di primo grado, subito dopo gli spettacoli in programma la mattina. La seconda puntata di Radio Planetarium riflette dunque attorno agli spettatori bambini dando loro direttamente la parola.

Interviste a cura di Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto. Si ringrazia Francesca Limongelli.
La siglia di Radio Planetarium è di Alessio Pallotti




L’universo è un materasso. Il tempo del teatro

Per Maggio all’Infanzia 2017 , al Teatro Kismet di Bari abbiamo visto L’universo è un materasso, di Francesco Niccolini, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Recensione.

È proprio vero che quando ci si diverte il tempo trascorre più in fretta e quando ci si annoia non c’è modo di mandare avanti le lancette. Il teatro ci insegna, volta per volta, anche questo, che il tempo che ci prendiamo per assistere a uno spettacolo è di certo sottratto ai ritmi e alle logiche del vivere quotidiano, riorganizzato dentro codici e sistemi che sono e resteranno misteriosi. Invece di adeguarsi alle frenesie del presente, il teatro conserva l’opportunità di un’alternativa, uno iato che permetta di respirare, voltarsi indietro, perdersi. E a volte ritrovarsi.
È successo con L’universo è un materasso (e le stelle un lenzuolo), scritto da Francesco Niccolini per la regia e la potente presenza scenica di Flavio Albanese. La Compagnia del Sole (di cui avevamo parlato anche qui) ha la grande capacità di attraversare i generi in maniera orizzontale, tenendo vivo quell’artigianato della scena che si compone di pochi e vincenti elementi.

Lo spazio del Teatro Kismet di Bari si offre a una platea gremita di adulti e bambini, in una delle giornate della ventesima edizione di Maggio all’Infanzia diretta da Teresa Ludovico. Gli spalti rumoreggiano, le teste dei più piccoli si voltano di qua e di là in un buio che rende tutti sagome. Ma da quando luce si accende a quando si spegnerà per l’ultima volta, l’attenzione è tutta per Flavio Albanese.
L’attore pugliese indossa un completo scuro su una maglietta, bianca come i sottili guanti che vestono le mani. La folta barba castana macchiata d’argento e i lunghi capelli mossi lo disegnano nei panni perfetti di un personaggio della mitologia. Eppure non è solo questo. Per parlare del tempo, la scrittura rapida e precisa di Francesco Niccolini si fa bacchetta magica che tramuta costantemente l’unica figura sul palco: ora è narratore puro, presto diverrà Crono, messo “sotto processo” da tutti coloro che, nei secoli, si sono posti le grandi domande sul mondo.

Il racconto si snoda in quattro capitoli: dalla Teogonia di Esiodo attraversa l’epoca aristotelica, quella copernicana e infine approda a quella contemporanea, in cui calcoli irrazionali sembrano riportare nella mente degli scienziati lo stesso caos che aveva spinto Crono a separare la madre Gea dal padre Urano, dividendo finalmente la terra dal cielo. Alla grande razionalità di questa struttura drammaturgica si mette al servizio un vero e proprio mattatore, in grado di percepire le minime frequenze di attenzione del pubblico, di far dialogare fino a quattro personaggi grazie a minuscole variazioni nel registro della voce e di disegnare nel vuoto interi pezzi di universo.
L’immagine del materasso e del lenzuolo, allora, non è solo un modo per spiegare che il tempo ci può avvolgere, ma risuona nella grande elasticità di questa prova scenica, basata – ancor prima che sulla didattica – su una relazione di divertimento. Niccolini e Albanese non mettono a punto un’opera di puro intrattenimento, ma collaborano nel racchiudere una quantità (forse addirittura eccessiva) di informazioni dentro la vitalità del corpo in scena, ben sostenuto dalla semplice scena di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto, una trapunta nera che – come scandendo scena per scena – si illumina come un puntaspilli di stelle.

Il grande pregio di questo lavoro sta nella sapienza con cui i mezzi del teatro vengono impiegati in un’operazione di accompagnamento rispettoso dei ritmi e dell’immaginario del bambino e, insieme, dell’adulto. Il viaggio – pur così ampio nel raggio cronologico e a volte complesso negli snodi essenziali – procede senza alcuna concessione alla concitazione esagerata né all’esasperazione di pose e macchiette, correndo piuttosto una maratona eccezionalmente regolare, che porta quasi di sorpresa alla constatazione finale.
Le nuove frontiere della fisica quantistica e della teoria della relatività sono in grado, tramite il pensiero umano, di uccidere ogni dio e, forse, ogni tiranno, restituendo il controllo di un caos generativo alla capacità umana per eccellenza: la fantasia. In questo appassionante viaggio interstellare, allora, il teatro è la forma delle forme, lo spazio dove tutto compare e tutto scompare. «Le cose esistono solo se le fai esistere; le cose si vedono solo quando le illumini».

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

Teatro Kismet, Bari – per Maggio all’Infanzia 2017.

L’UNIVERSO È UN MATERASSO (E LE STELLE UN LENZUOLO)
Diretto e interpretato da Flavio Albanese
Scritto da Francesco Niccolini
Collaborazione artistica e Luci Marinella Anaclerio
Scena da un idea di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto
Assistente alla regia Vincenzo Lesci
Foto e Video DIANE Ilaria Scarpa­ Luca Telleschi
Consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti
Consulenza musicale Roberto Salah-addin ReDavid
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: Piccolo Teatro di Milano, Ammirato Culture Club House, Santarcangelo dei Teatri, Alcantara Teatro e Marta Marrone