“Fare il giro”, per una pedagogia delle emozioni. Conversazione con Giuliano Scarpinato

Abbiamo dialogato con Giuliano Scarpinato qualche tempo dopo il debutto della sua nuova produzione per ragazzi – Alan e il mare – nell’edizione 2017 del Festival Segnali di Milano. A partire dai nodi della nostra inchiesta sulle arti e l’infanzia è nata una più ampia conversazione che affronta diversi aspetti del percorso di quest’artista nel suo rivolgersi al giovane pubblico.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

L’incontro con il teatro ragazzi è stato per me abbastanza fortuito… Sono sempre stato un grande amante e collezionista degli albi illustrati, questa sorta di haiku straordinari che nel giro di poche pagine, pochissime frasi e alcune immagini fortemente iconiche riescono a rendere il cuore delle cose. Il desiderio di avventurarmi nel campo del teatro ragazzi è nato proprio da uno di questi libri: La grande fabbrica delle parole (A. de Lestrade, V. Docampo, Terre di mezzo, 2010) a cui si è ispirato La fortuna di Philéas, progetto con il quale nel 2012 ho partecipato per la prima volta al Premio Scenario infanzia. Fu l’inizio di un’esplorazione: cominciai a tastare il terreno, ad accorgermi delle esigenze del pubblico e del modo in cui avevo mancato degli obiettivi, ne avevo centrati altri. Due anni dopo è scattata la scintilla di Fa’fafine, è stato un incontro simile. Mi capitò di leggere un articolo a proposito dei bambini gender fluid, gender creative su “Internazionale” e mi innamorai della questione. Trovai estremamente interessante l’idea che esistessero questi piccoli guerrieri della libertà identitaria e, in modo piuttosto lineare, pensai che sarebbe stata una bella storia da raccontare a un pubblico di giovanissimi. Ecco, con Fa’afafine mi sono realmente addentrato in questo mondo. All’atto pratico, insieme alle polemiche ingenerate e al riconoscimento della critica, lo spettacolo ha avuto una risposta magnifica da parte dei ragazzi; ho potuto verificarlo con loro replica dopo replica anche perché è stato costantemente accompagnato dal confronto con il pubblico. E così, dopo i desideri e le intuizioni, a partire da questi momenti di scambio, ho raggiunto via via una sempre maggiore consapevolezza e mi sono reso conto di quanto fosse privilegiato il terreno di confronto con le nuove generazioni, di quanto fosse emozionante e restituisse la necessità del teatro. Quella offerta dai ragazzi – capaci, con occhio dotato d’incanto, di cogliere aspetti che spesso ci sfuggono – è una possibilità di condivisione reale tra artisti e pubblico che dovrebbe essere estesa a tutto il teatro.

Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Il mio approccio, l’ho scoperto in modo del tutto empirico, equivale a fare il giro. Fino ad ora ho trattato argomenti molto delicati, scivolosi – l’identità di genere, le sue varianti; la perdita di un figlio e il lutto all’interno della cornice più ampia della fuga da un paese in guerra e dell’emigrazione –, queste tematiche, però, non ho voluto e non amo affrontarle di petto, né in modo cronachistico. Riguardo la storia di Alan Kurdi, per esempio, credo che sul piano del racconto giornalistico sia stato detto e visto veramente di tutto. Ogni giorno inoltre veniamo a sapere delle vicende di un nuovo barcone e di alti numeri di vittime; le informazioni arrivano in dosi così massicce che ciò non può che provocare in noi una certa assuefazione, al di là delle inclinazioni umanitarie e della sensibilità di ciascuno. Di conseguenza con lo strumento teatro io scelgo di fare il giro, decido cioè di trasformare e avvalermi – come nel caso di Alan e il mare – di un dispositivo magico, fiabesco. Nello spettacolo questo coincide con la trasformazione della morte in una metamorfosi: Alan diventa un bambino-pesce che dal momento del naufragio appartiene per sempre al mare, da dove può fuoriuscire, essere ripartorito, a volte, per stare accanto al padre pochi minuti e poi tornare ­– come una Cenerentola “al suo rintocco” – dentro una dimensione che ormai lo imprigiona… Quando ho visto la foto del bambino sulla costa di Bodrum una delle primissime cose a cui ho pensato e che annovero tra le ragioni del suo grande impatto mediatico è stata la forte ambiguità dell’immagine: la posa del suo corpo non lasciava capire se fosse morto o dormiente. Quest’aspetto durante il processo creativo ha contribuito a dar vita al dispositivo fiabesco, che è stato per me il nucleo generatore dello spettacolo; la cronaca e i fatti realmente accaduti ne hanno costituito la cornice. Ma, perché fare il giro? Perché ciò che penso e noto rispetto all’approccio con i ragazzi è che sia più efficace parlare loro attraverso il sogno, la favola tornando però circolarmente alla realtà, cercando di rendere quanto più universale e condivisibile la vicenda. Così, secondo me, c’è una possibilità in più per scavalcare meccanismi di assuefazione e tornare alla realtà delle cose con un sentimento diverso, più “compromettente”.

Cosa ti ha spinto a condividere queste particolari tematiche proprio con lo sguardo, l’ascolto dei più piccoli?

Mi è davvero difficile pensare a una cesura tra il pubblico bambino e quello adulto. A prescindere dall’età anagrafica, credo che il punto siano l’occhio e l’orecchio bambino come entità. Né Fa’afafineAlan e il mare sono spettacoli pensati esclusivamente per i bambini, certo, loro sono privilegiati perché hanno un accesso più rapido a determinati tipi di salti: dal sogno alla realtà, e viceversa. Allo stesso tempo però, come i bambini, sono privilegiati quegli spettatori di tutte le età in grado di conservare uno sguardo infantile. Ecco, più che il pubblico dei bambini io scelgo un pubblico di bambini. Ma probabilmente questo ha a che fare anche con qualcosa che mi riguarda in prima persona: se io non portassi sulle spalle, come uno zainetto, il bambino che sono stato, con le sue mancanze, i suoi bisogni, i suoi desideri, probabilmente non avrei iniziato a fare teatro. Quindi ciò che trovo importante è andare a incontrare degli spettatori che siano rimasti, anche loro, “bambini nel tempo” e viaggino senza aver paura della propria bambinità.

(Alan e il mare)

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come può il teatro relazionarsi con questi nuovi ritmi del contemporaneo? E, ancora, in cosa consiste la “differenza teatrale”?

Quando diventa luogo primario del sogno, dello squarcio onirico, il teatro trova uno dei suoi tratti distintivi. È quest’aspetto secondo me, insieme al dato caratterizzante e imprescindibile della compresenza di attori e spettatori, a costituirne l’unicità, e a permettere di non condividere esclusivamente la nuda, cruda o banale realtà. Ma entrambi gli ingredienti, dal mio punto di vista, possono essere presenti: si parte dal dato reale e si attraversa un canyon di sogno (o di incubo) per poi risalirlo e arrivare di nuovo alla realtà. E questo il teatro può farlo in modo del tutto privilegiato proprio perché il suo tempo è più dilatato rispetto a quello dei diversi media. Mi stupisco sempre di quanto lavoro ci voglia per creare un’ora di spettacolo, di quanto tutto sia, fondamentalmente, un lavoro sulla sintesi; sintesi che, però, nel momento dell’incontro con il pubblico può corrispondere a una dilatazione temporale molto più ampia… Piccolo miracolo distintivo legato anche alle circostanze: allo star chiusi, insieme, in quest’antro buio, questa placenta, che permette di vivere una ritualità ormai molto più difficile da condividere al cinema, per esempio, dato che il nostro modo di fruirne si è imbarbarito, proprio per la sua “somiglianza” con la televisione o le serie tv viste sul pc nella propria stanzetta. Quanto meno la presenza dell’attore in teatro dà allo spettatore una responsabilità.

Che tipo di rapporto si instaura, invece, tra la scena e il video nei tuoi lavori?

Nel rivolgersi al pubblico dei più giovani non si può ignorare il fatto che le nuove generazioni abbiano come canale privilegiato un certo tipo di comunicazione – veloce, rapida, basata fondamentalmente sull’immagine – si può però declinarla sul versante del sogno, appunto. Quindi, in Alan e il mare l’uso del video non è di tipo giornalistico, non ci sono filmati relativi alla situazione siriana; lo spettacolo inizia con un’immagine molto rapida – è una bomba che scoppia – ma subito entra in un’altra dimensione e si dà accesso all’immaginazione. Allo stesso modo, grazie a un connubio tra il video e la scena, e alle bellissime proiezioni di Daniele Salaris, abbiamo potuto portare sul palco il mare di Alan, che è anche quello dei suoi ricordi, dove poi sarà accolto il padre e vedrà il loro cane, Abibi, diventato un cane-paguro, e l’albero di gelso del loro cortile, riempitosi di corallo. Il video allora mi permette di saltare i confini spazio-temporali o di convocare altri personaggi – i genitori di Alex in Fa’afafine; la madre di Alan che torna, come una sorta di muta fata turchina, nei sogni del padre. Amo molto questo mix tra linguaggi, lo trovo rispondente al tipo di percezione che abbiamo oggi delle cose.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Com’è possibile evitare il didattismo?

Non ho alcuna pretesa di insegnare né di essere un pedagogo, si tratta più di un dialogo, una condivisione. Cerco davvero di mettermi sullo stesso piano dei ragazzi e non su quello superiore di chi dice cosa fare, pensare o provare. Chiaramente è lo strumento teatro in sé a poter contenere una funzione pedagogica e, forse, ciò che posso immaginare per il teatro in generale è che contribuisca a una pedagogia delle emozioni. Trovo importante – e qui torno al tipo di teatro che amo anche vedere e alla realtà che ci circonda, con le sue efferatezze più o meno mediaticamente esposte – che si dia luogo a una rialfabetizzazione emotiva, perché mi sembra che oggi sia in atto il processo contrario e che le emozioni, positive e negative, e il loro attraversamento costituiscano un problema. I diversi filtri della comunicazione di cui disponiamo (Whatsapp, i vari social) rendono possibile arroccarsi in posizioni di difesa e distacco che fanno perdere il contatto con le emozioni primarie, con le lacrime, le urla. Credo che questo sia molto pericoloso, nell’ambito relazionale privato come in quello pubblico. In tal senso ciò che mi piacerebbe fare con il mio lavoro è contribuire a ricreare un alfabeto, partecipare a questa pedagogia delle emozioni.

Francesca Bini




Fiabe melanconiche dei nostri giorni tristi: sesta istantanea da Segnali

Cari cuccioli di Compagnia Rodisio
Cari cuccioli è uno spettacolo tenero, pieno di poesia e delicatezza, un haiku che contiene immagini emozionanti, create con una perfezione scenica dove ogni elemento è pesato nei minimi dettagli. Manuela Capece e Davide Doro – fondatori della compagnia Rodisio, ideatori e interpreti del lavoro qui presentato – appaiono come figure  smussate e indefinite dalla fitta nebbia che accoglie il pubblico appena entra nella sala teatrale. Rivolto ai bambini dai 2 ai 5 anni, accompagnati dalle loro famiglie, lo spettacolo non utilizza parole, ma si affida alla potenza di immagini visionarie che, intrecciate a una colonna sonora dai toni fortemente lirici, affascinano piccoli e adulti conducendoli al di là del bosco, in un territorio impalpabile e soffice, un posto segreto dove vi sono cura e dolcezza. I due attori  attraverso gesti coreografici e pochi oggetti che piano piano appaiono dal nulla e si collocano nello spazio – una finestra, una poltrona, un materasso, un fuoco acceso, un albero fiorito, la luna piena – ricreano una casa essenziale, un ambiente pronto ad accogliere ciò che verrà, il futuro che cresce. Cari cuccioli lavora su più livelli interpretativi e intreccia elementi ripresi dalle fiabe classiche e archetipi ancestrali: si attraversa il bosco e si bussa alla porta perché il nuovo è ciò che non si conosce e che proviene da fuori. Se lo spettacolo per i bambini può rappresentare un’iniziazione all’esperienza teatrale, per i genitori è il racconto della condizione che si attraversa quando ci si prepara a diventare genitori. La casa è pronta, il latte è nella tazza, il fuoco è acceso e si aspetta che la nuova vita, il caro cucciolo, bussi a quella porta. Il rito è iniziato. (c.t.)

Alan e il mare di Giuliano Scarpinato
Ci sono spettacoli che dividono il pubblico in maniera netta. O almeno l’impressione, all’uscita, è che vi siano punti di vista contrapposti. Raramente capita, come nel caso di Alan e il mare, ultimo lavoro di Giuliano Scarpinato, che la spaccatura sia così marcata che si trovino spettatori in lacrime, perché commossi e altri paonazzi, perché arrabbiati. Alan e il mare è – almeno questa la sensazione al debutto a Segnali di Milano, con un pubblico però solo di adulti e di addetti ai lavori – uno di quegli spettacoli che non lascia indifferenti e che pone subito alcune domande cruciali, anche metodologiche, che sono poi le domande che riguardano il settore del teatro ragazzi, ma che in realtà comprendono tutto il teatro. Dopo il polverone di Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, spettacolo sull’identità sessuale, Scarpinato, sempre per un pubblico a partire dai 7-8 anni, sceglie un argomento altrettanto scottante, come i viaggi tragici dei tanti stranieri che scappano dalle guerre. Una provocazione o il desiderio di spingere il teatro ragazzi dentro le grandi questioni dell’attualità? Una mossa à la page o “necessaria”?

La prima domanda riguarda dunque la tematica: è opportuno raccontare a bambini di sette-otto anni le tragedie degli immigrati che muoiono in mezzo al mare? Un po’ frettolosamente, a rischio di ideologia, si può rispondere di sì, basta trovare la forma giusta (d’altronde Art Spiegelman ha  raccontato l’olocausto con i fumetti, riuscendoci, Benigni con il cinema, meno convincente…). E dunque: qual è la forma giusta? Come si racconta una tragedia? Lo spettacolo parla di un padre (Federico Brugnone) che si imbarca con il proprio figlio a Bodrum per fuggire dai bombardamenti. Una terribile tempesta colpisce lo scafo e il bambino muore affogato. La storia si sviluppa dal punto di vista del padre che, in preda a deliri o sogni o visioni, mantiene un filo, un dialogo, un rapporto con il figlio, trasformatosi in una sorta di pesce. Il padre tenta invano di trascinarlo fuori dall’acqua, fino a che, in un processo doloroso di accettazione del lutto, si immerge nelle profondità marine, alla scoperta di un nuovo mondo. Ci sono sentimenti di angoscia, di paura, ma anche molta dolcezza e immaginazione. La tragedia viene infatti strutturata con le dinamiche della fiaba. Il figlio – interpretato dal bravo Michele Degirolamo – sguscia sul palcoscenico come un pesce fuor d’acqua, e il pensiero va subito a Colapesce, antichissima storia siciliana e di tutto il meridione, di cui esistono decine di varianti (oggi disponibili per Donzelli con le bellissime immagini di Fabian Negrin, probabilmente il più bravo e costante illustratore di fiabe dei nostri anni). E allora la domanda potrebbe diventare: è opportuno trasformare una realtà tragica in una fiaba (dai risvolti tristi in questo caso, ma che contiene in sé, quasi per statuto, una sorta di “cura”, di catarsi, di rielaborazione?). Le “fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino, ammonendoci, in un certo senso, rispetto alle derive più evasive e inconsistenti. Le fiabe cioè andrebbero prese sul serio, perché rispondono ad elementi profondi dell’animo umano. Ma che tipo di processo educativo si può innescare nella dinamica che trasforma la realtà in fiaba? Quali i pericoli? Come si evita la rappresentazione ammiccante e finzionale, inevitabilmente fallace? La “cura” di cui è portatrice la fiaba, anche quando parla di morte, di cosa è fatta? Come evitare la retorica sentimentale?

Scarpinato ha talento e coraggio, ma sceglie di camminare su una strada scivolosa e per mantenere il giusto equilibrio è obbligato ora a togliere, ora ad aggiungere elementi; è costretto a pigiare su uno stato emotivo, per ottenere un primo piano efficace, ma qualcosa sullo sfondo va inevitabilmente a perdersi. La guerra e l’iniziale disperazione sono appena accennate e lo spettacolo si concentra sul rapporto padre e figlio (la madre, con il velo, è solo un’immagine virtuale, muta, che sembra vivere ormai in un altro mondo, una vera alterità nella sua assenza…). La scenografia è composta da pannelli, organizzati come fossero le schegge di uno specchio rotto, sui quali sono proiettate immagini che riscaldano il clima emotivo, spesso contraddistinto da forti elementi di pathos e di commozione, e da momenti ludici. Ad esempio il viaggio verso il mare si segue sullo schermo in soggettiva, come un videogioco, con bonus da guadagnare e nemici da sconfiggere. Qualcuno si lamenta, sostenendo che trasfigurare questi viaggi disperati con il filtro del game è una falsificazione o una mancanza di rispetto. È però vero che, di fronte al pubblico dei più piccoli, il video gioco è una porta di ingresso fortissima, una sintesi visiva molto efficace, che trasmette, metaforicamente, l’idea di pericolo e di viaggio. Che il viaggio dei migranti oggi sia l’unico riconducibile in qualche modo alle narrazioni picaresche è un fatto evidente e che, anche nella disperazione assoluta, possa entrare l’avventura, come genere letterario, lo ha dimostrato Primo Levi con il suo romanzo forse più bello, La tregua. Il genere dell’avventura non è il videogame, ma che nell’immaginario collettivo vi sia stato questo slittamento è assodato e con questa immagine è giusto forse fare i conti. Ma è questo – l’avventura – che si vuole trasmettere? Solo in piccola parte, perché lo spettacolo è ricco di tante altre invenzioni ed è costruito con abilità nella mescolanza di registri e di tecniche, con una sensibilità tutta contemporanea, concentrandosi soprattutto sul rapporto padre-figlio. Forse è addirittura troppo pieno di elementi, che rischiano di confondere qualche passaggio e forse, a tratti, è teso a sedurre e a sorprendere. Ad esempio i tentativi di riportare “in vita” il figlio, l’idea di una sopravvivenza oltre la morte (nel ricordo), sono allo stesso tempo visioni di un uomo impazzito per troppo dolore, sogni, miraggi, cortocircuiti temporali tra passato, presente e futuro… La parabola fiabesca impone in qualche modo una conclusione, una chiusura, per cui si corre nell’elaborazione del lutto. In questo caso storia e fiaba stridono tra loro: da una parte il lutto che ferma tutto, blocca la storia, fa precipitare lo stato emotivo, dall’altra la fiaba che deve trovare una conclusione, far ripartire la vita e che perciò rischia di apparire una scorciatoia.

La cifra un po’ barocca dello spettacolo può infastidire, perché per una vicenda del genere ci si aspetterebbe più sobrietà, così come apparentemente avviene per altri lavori presenti al festival Segnali. In realtà lo stile è la forza dello spettacolo. I due attori, in dialogo con la scena, riescono a dar vita a un linguaggio vivace e convincente. La forma è sofisticata ed è padroneggiata con sicurezza. Certe invenzioni visive e gestuali non possono che avvicinare la “storia” al pubblico dei più piccoli. L’intenzione è chiara. E anche le nuove tecnologie, oltre che per gusto, vengono utilizzate come “ponti”: si sta parlando dell’oggi, non dell’Odissea, e questi stranieri usano gli stessi nostri oggetti.

Più che insistere sulla disperazione della guerra o su differenze culturali tutto lo spettacolo punta sulle similitudini. E il dolore di un padre per la morte del proprio figlio è cosa universale, propria della natura umana. È come se tutta la storia volesse concentrarsi su questo aspetto e quindi paradossalmente subisse un processo di “normalizzazione”. L’impressione finale è che la forza di questo lavoro (che ha senz’altro forza) coincida con il suo stesso limite, cioè l’ambizione. L’ambizione di camminare sul filo di tante cose: dei sentimenti dei padri e dei figli, della cronaca e della fiaba, della politica e dell’indignazione, dei nuovi media e del nostro immaginario. È una bella ambizione, che in parte trova risposta concreta e in parte lascia qualche dubbio, che vale la pena tenere sospeso. Tra le altre cose pare un po’ insistito il riferimento al “caso” mediatico suscitato dalla foto, che ha fatto il giro del mondo, di Aylan Kurdi, il piccolo profugo senza vita sulla spiaggia, da cui lo spettacolo prende spunto. Un riferimento che forse porta fuori strada. Piuttosto rimane grande la curiosità delle reazioni che potrebbe avere un bambino. I bambini sono immersi dentro questa trasformazione epocale ancor più degli adulti. Nelle scuole dei più piccoli storie di stranieri giunti in Italia in modo rocambolesco sono all’ordine del giorno. Ecco che di fronte a un richiedente asilo che si incontra per strada un bambino può chiedere cento cose: chi è? Da dove viene? Come ha fatto ad arrivare fin qui? In un certo senso con questo spettacolo è come se si dicesse che dietro a un’immagine mediatica, dietro a un volto si può nascondere un grande lutto, un grande dolore, una storia terribile di ingiustizia, un essere umano come noi, ma a tutte le altre domande dovranno rispondere genitori, insegnanti, educatori. (r.s.)

Mister Green di Elsinor-Vat Teater
Qual è il rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura? È ancora possibile trovare un contatto con l’ambiente prendendo le distanze dalle sovrastrutture che la contemporaneità ci impone? Siamo disposti a ritrovare un dialogo “ecologico” con la realtà, rinunciando alle comode mediazioni della modernità? Queste domande sembrano essere al centro del progetto Mister Green, seconda presenza internazionale a Segnali, frutto di una coproduzione di Elsinor con la compagnia estone Vat Teater. Si tratta di un lavoro dal forte impatto visivo, con una scenografia fatta di videoproiezioni che accompagnano un uomo comune totalmente “urbanizzato” (interpretato da Rauno Kaibiainen) in un’avventurosa prova di sopravvivenza, dalla città alla foresta e ritorno. La sfida per lui sarà affrontare un’intera notte in mezzo a una natura selvaggia prima di riuscire a tornare alla civiltà, cercando di compiere azioni apparentemente elementari (accendere un fuoco o allontanare un animale) o di trovare un complice dialogo con le piante. Imprese in cui, forse, i ragazzi del pubblico sarebbero ben più abili dell’adulto che si trovano davanti. L’interpretazione mette in luce goffaggini e inadeguatezze, sconfinando a tratti nella macchietta. Se l’articolazione delle tematiche e l’apertura di domande proposte dalla drammaturgia rischiano di restare legate all’evidenza della pura vicenda, ad accompagnare gli spettatori verso nuove sollecitazioni è l’uso delle videoproiezioni: la suggestiva sovrapposizione di immagini a grande scala e movimenti scenici avrebbe potuto tuttavia indagare maggiormente le potenzialità di un’interazione, andando oltre la definizione di un’ambientazione. Tra scenari apocalittici e visioni oniriche, la domanda sul rapporto dell’uomo con la natura può trovare spazio per sconfinare in un immaginario da inventare e allargare il suo significato. (f.s.)

Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazzanetti, Carlotta Tringali




Alan e il mare di Giuliano Scarpinato. Una favola di redenzione

Alan e il mare ha debuttato in prima nazionale al Teatro Verdi di Milano, nel Festival Segnali. Recensione di Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica.

La fotografia del piccolo Alan Kurdi riverso sulla spiaggia turca di Bodrum l’abbiamo vista tutti. Tutti. La reazione di tutti è stata anche la nostra. O almeno questo crediamo.
C’è un fatto, ci sono dei testimoni. Ci sono dei riceventi di quella testimonianza. E poi quella testimonianza scompare. Diventa una nuvola tossica che investe anche coloro che avrebbero preferito non sapere nulla. Persiste una sorta di abuso del reale che ricostruisce la verità dentro un suo riflesso immediatamente inaggirabile, surrogato, sinistro.

Tramutare la cronaca in fabula, depredare i fondamenti della realtà per ricostruire attorno a un fatto reale e puntuale un effetto poetico e universale. Questo sembra essere il progetto di Giuliano Scarpinato, che con Alan e il mare ha debuttato al Teatro Verdi di Milano per la 28° edizione del Festival Segnali. Il progetto di Scarpinato – giunto a compimento per la produzione del CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG e Accademia Perduta Romagna Teatri – è infatti rivolto ai giovani spettatori e arriva mentre è ancora fresco il sofferto successo di Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, che ha infiammato tribune e bacheche e sbattuto nelle prime pagine culturali la questione dell’identità di genere. La sala è piena ma, prima, il foyer è pieno di aspettativa, per questo artista che, dalla vittoria del Premio Scenario Infanzia alle infuocate polemiche per il precedente lavoro, è stato visto come un pericolo per il pubblico degli adulti più conservatori, una novità problematica per i bambini e per il sistema teatro a loro dedicato.

Una nota necessaria a margine di questa visione deve riguardare il contesto. Alla prima nazionale la platea era piena soprattutto di adulti, tra cui un numero nutrito di artisti e operatori. Una insufficiente rappresentanza di bambini e ragazzi non ha forse permesso di osservare l’opera attraverso gli occhi di questo particolarissimo target, spostando l’attenzione su codici di ricezione più adulti.

La scena è sgombra, sul fondale una parete di pannelli translucidi ritagliati come un mosaico scaleno, una sorta di vetro frantumato che si illuminerà di videoproiezioni e animazioni grafiche, facendo da sfondo a un’azione tutta concentrata sui corpi dei due protagonisti, Federico Brugnone e Michele Degirolamo. Uno alto e barbuto, l’altro minuto e glabro, sono un padre e un figlio. Stando alle note di regia, i nomi sono quasi l’unico riferimento puntuale al fatto di cronaca. Perché l’intenzione sembra essere quella di comunicare al pubblico che di storie come quella del “piccolo Alan” ce ne sono state e ce ne saranno centinaia.
Il padre sveglia il figlio e lo affretta a vestirsi, ché «oggi non si va a scuola, oggi c’è la gita». Perché la scuola, l’intera scuola, non c’è più. I due si imbarcano su un gommone che naufraga poco dopo, travolto da un’onda di cui vediamo e udiamo la furia sullo schermo e nelle orecchie. Ci sarà il tempo per contare le stelle e immaginare costellazioni, dopodiché il bambino verrà inghiottito dal mare.

Il resto della vicenda sembra svolgersi nella mente del padre, alla ricerca di una strategia per convivere con un lutto così atroce. La moglie compare, quasi sempre silenziosa, avvolta nel suo velo e con lo sguardo fisso di chi non è più lì, fantasma al quale parlare da sdraiati, con il corpo scosso dalle convulsioni.
Alan, intanto, si è trasformato in pesce. Nei deliri del genitore un incontro è possibile, ma non la parola. Il corpo del bambino è diventato quasi molle e senza scheletro, le articolazioni non legano più, Alan è un essere abituato alla libertà del fluido liquido, sguscia tra le braccia del padre in impossibili valzer, guizza di qua e di là per poi tornare fatalmente nella sua nuova Atlantide. Il fondale si apre e lo ingoia dietro uno schermo che ne offusca la messa a fuoco; uno specchio diafano gli doppia i movimenti. A dispetto dell’enormità del mare, dove si può fare amicizia con alghe e anemoni e immaginare mondi immensi, il suo angolo è stretto e limitato, è una bara di luce che non contiene più di una persona.

In questa favola lirica, incorniciata dai colori sgargianti delle animazioni (fluide e ben curate da Daniele Salaris), i tragitti a piedi diventano grotteschi videogame da abitare con gesti meccanici, il lungo tragitto per lasciare la Siria e raggiungere la Svezia attraversa capitali/cartolina, ma c’è spazio anche per la schiacciante pressione dei media, quando il profugo deve rispondere a mille domande sotto il peso dei microfoni o imparare un arzigogolato e poliglotta decalogo di regole da rispettare.
L’uso del codice della favola sembra avere l’intento di rendere universale un capitolo orribile della storia etica del mondo contemporaneo, astraendosi dalla brutalità del fatto così come è stato diffuso e recuperando una forma di affezione verso immagini vive, firmando un’alleanza rinnovata con la materialità dei corpi, curata infatti nei movimenti scenici fino a un dettaglio quasi coreografico.

Sappiamo che la foto di Alan con il volto affondato nella sabbia – qui mai mostrata, solo evocata nella posa iniziale di Degirolamo e nel rosso/blu dei suoi abiti – ha aperto cuori e coscienze degli utenti dei media di massa e digitali, ha aperto il portafogli degli stati europei al cospetto dell’inferno dei rifugiati. Ma quanto realmente ci riguarda tutto ciò che sta dietro?
Nell’elegante costruzione visiva e nella scansione drammaturgica resiste ancora qualche concessione a una sorta di barocchismo, a un’apparenza plateale: una più massiccia presenza di spettatori bambini, portatori di un immaginario più libero del nostro, garantirebbe forse un terreno di ricezione più neutro. Se Fa’afafine discuteva un’evidenza contemporanea lontana dalla maggioranza delle biografie degli spettatori, Alan e il mare maneggia un tema scottante, ma ancor di più punta a stemperarne quell’oscenità messa a punto dai media, di cui siamo tutti responsabili.

L’operazione corre così sul filo della sollecitazione retorica, eppure mira a sollecitare un’immaginazione attiva (dagli 8 anni in su): per mettere a punto questo scarto poetico il segno registico tenta allora di ricompensare lo spettatore (senza età) con un preciso controllo dei mezzi e dei modi, in equilibrio tra il rituale di espiazione e la denuncia alla superficialità, fotografando il fatto reale sullo sfondo di una disperata battaglia con la nostra relativa percezione.

Ogni riferimento alla cronaca, la quale guadagna una nettezza agghiacciante solo nel finale, subisce in quest’opera una sorta di redenzione del linguaggio. Allora poesia e fiaba sono usate qui non come zucchero per far mandare giù una pillola, ma come grido disperato per mostrare il livello carnale – e, per contrasto, immaginifico – di un’esperienza mediatica che tutto il mondo ha vissuto nella piattezza della bidimensionalità.
Soprattutto le immagini fotografiche, che nella puntualità fondano la propria estetica, si posizionano in un “tempo-senza-tempo”, per dirla con Manuel Castells, in cui non sembra esservi speranza di radicarle nel terreno della coscienza. Navighiamo nella ormai proverbiale atemporalità dell’evento: nella società della condivisione e della trasparenza ogni contenuto si fissa istantaneamente e, in quello stesso istante, il suo impatto smette di progredire, sommerso dall’onda delle “reazioni”. Allora, forse, la risposta sta nell’immaginazione e nel corpo.

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

ALAN E IL MARE
testo e regia Giuliano Scarpinato
assistente alla drammaturgia Gioia Salvatori
interpreti Federico Brugnone, Michele Degirolamo
in video Elena Aimone
scene Diana Ciufo
luci Danilo Facco
videoproiezioni Daniele Salaris
movimenti scenici Gaia Clotilde Chernetich
costumi Giuliano Scarpinato
progetto grafico Rooy Charlie Lana
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Accademia Perduta Romagna Teatri