Fra gli schermi di una comunicazione (im)possibile

Sembra offrire risposte più che stimolare domande Lorella Zanardo, con il suo Schermi. Se li conosci non li eviti. Una conferenza-spettacolo che si inserisce in modo anomalo nella programmazione del festival, proprio per la sua matrice didattica che pare allontanarsi da qualsiasi interrogazione sulle forme della rappresentazione e sul ruolo dell’immaginazione.
Una proposta sui generis quindi per il contesto in cui si colloca, che non pretende probabilmente di essere valutata su un piano propriamente artistico, ma che offre interessanti spunti di riflessione sui linguaggi e sulle forme della comunicazione e dell’informazione tra adulto e adolescente. Dopo Il corpo delle donne, il documentario visto online da 15 milioni di persone e che ha portato la sua autrice nelle scuole di tutta Italia, questo nuovo lavoro porta invece la Zanardo nei teatri, sulla scena. La conferenza spettacolo parte proprio da lì, e del documentario ripropone frammenti e concetti. A essi aggiunge dati e video che spaziano dal cyberbullismo alle fake news, dalle pubblicità “buone” e “cattive” all’hatespeech, dagli stereotipi di genere al diritto di essere informati, dalla gestione dei dati personali che passano attraverso la rete a “termini e condizioni” nell’uso dei social network. Insomma, afferma Lorella Zanardo rivolgendosi ai ragazzi, ma allo stesso tempo a genitori e insegnanti, così come a cinque anni si impara a leggere e scrivere, ora è tempo di alfabetizzarsi ai media: sapere guardare immagini e schermi che ci circondano significa essere cittadini consapevoli. Sembra però dare un assaggio di troppi temi qui Zanardo, che ai pericoli della rete sovrappone la già indagata questione legata all’immagine femminile proposta dai manifesti pubblicitari o dalla televisione che ereditiamo dagli anni Novanta.
Nella sovrabbondanza di temi, la formula comunicativa “vincente” che viene qui sperimentata pare attingere a un linguaggio più televisivo che teatrale (basti pensare ai sottofondi sonori o alle ricostruzioni video) e tramite questo cercare l’empatia del pubblico.
Schermi sembra insomma usare strumenti opposti a quelli del teatro: non propone temi e criticità per astrazione ma li spiega fino all’eccesso, non lascia spazio ai ragazzi per trarre da soli le loro conclusioni ma afferma dati incontestabili. Voi potete cambiare il mondo, noi vi possiamo aiutare, dice. Ambisce a offrire, insomma, gli strumenti per una cittadinanza attiva prima ancora che di una consapevolezza critica che passi per il dubbio, la messa in discussione, la capacità di arrivare autonomamente a porsi delle domande. Una proposta importante per contenuti e mission, che si offre più come strumento didattico che come riflessione sulle forme del teatro: nel rapporto con i ragazzi, qual è la formula più efficace per mettersi in discussione e stimolare una consapevolezza critica?

Schermi

D’altronde, la parte di programmazione del festival dedicata agli adolescenti sembra mettere al centro proprio il rapporto con i ragazzi, nelle forme della comunicazione e nel tentativo di “rendere visibili” determinati temi. Così anche Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst con la brillante e caustica drammaturgia di Donatella Diamanti, che pur si presenta inequivocabilmente come spettacolo e il cui patto finzionale è dunque chiaro e fin da subito determinato, potrebbe in alcune su parti sollevare dubbi sulla natura del dispositivo teatrale propriamente inteso.
Il palco è un ring, rosa e morbido come una moquette ma pur sempre un campo di battaglia. È in questo spazio, aperto ma sottilmente angusto e dai tratti domestici, che viene ritratta una famiglia composta da madre (Letizia Pardi) padre (Francesco Franzosi) e figlia adolescente (Greta Cassanelli). Con pennellate acute a tratti graffianti, l’autrice fotografa con ironia adulti e millenials alle prese con l’adolescenza. Partendo da alcune suggestioni presenti nel libro di Paul Buhre, che a soli 16 anni ha scritto Noi (e voi), un testo che è una lettera ai genitori sull’adolescenza, si cerca di indagare nell’abisso di una persona adulta messa di fronte a qualcosa che non capisce, qualcosa che non riconosce, linguisticamente e cognitivamente. Frastornati, o meglio smarriti, gli adulti che prima capivano i figli, adesso sono messi a dura prova, vacillano e annaspano alla ricerca di punti di riferimento, persi tra manuali che possano aiutare la loro genitorialità messa in crisi e il dialogo con esperti di ogni sorta, senza che gli venga in mente di rivolgersi ai diretti interessati, i figli o gli amici dei figli. In questo caso corre in aiuto Agata, un’adolescente che sul modello di SOS Tata si reca in famiglia per osservare modalità, argomentazioni e reazioni dei due genitori, facendo subito affiorare criticità e etichettandoli biecamente (con la giustificazione che “fa parte del programma”) esattamente come gli adulti etichettano i giovani figli (sdraiati, svogliati, sempre con le cuffie nelle orecchie, capaci solo di dire “un attimo”). E tra spettri di una “medicalizzazione” che è lì come orizzonte possibile se non concreto, risate, cartelloni che definiscono i comportamenti e freeze, Agata racconta di una generazione che si confronta con adulti in perenne attesa dei figli (che escano dal bagno, che tornino a casa da scuola, che escano da musica…) e, come si sa, dall’attesa alla pretesa il passo è breve e allora gli assi del controllo e della conseguente delusione paiono l’unico orizzonte di dialogo (o non dialogo) possibile.  Nonostante la leggerezza e i sorrisi la domanda arriva puntuale e a fuoco: quali sono gli strumenti in mano agli adulti per incontrare questa alterità?
Lezioni di Famiglia di Donatella Diamanti fotografa bene una generazione, quella dei millennials, e i rapporti con i genitori stretti tra vulnerabilità e autorità, smarrimento e disperazione, il tutto condito e attanagliato nelle maglie dei gruppi WhatsApp parentali dai quali pare impossibile sottrarsi. L’intento è chiaro e viene portato al pubblico con leggerezza, ironia e freschezza, che non guastano soprattutto quando invece i toni per parlare di adolescenza sono spesso sensazionalistici, allarmisti ai confini con il morboso-scandalistico. Tuttavia lo spettacolo, eccetto qualche passo, rimane piuttosto bidimensionale, quasi appiattito su una visione a 32 pollici, movimentato “solo” dalla bravura degli attori (in particolare la madre, interpretata da Letizia Pardi, è credibile ed efficace senza scadere del macchiettistico). Manca quasi del tutto l’impianto della scena, il corpo e i movimenti degli attori, le atmosfere cangianti delle luci, ovvero quella capacità trasformativa che conduce lo spettatore in un altrove, capace di convocarlo al di fuori delle proprie aspettative, abitudini, schemi mentali. Qualcosa cioè che possa spostarci, disorientarci da noi stessi, in una parola che ci arricchisca, che ci possa porre domande fino a snervarci, un qualcosa cioè che renda l’esperienza del teatro unica e diversa da tutte le altre. Qualcosa che non avremmo potuto leggere così sul giornale, che non avremmo potuto vedere al cinema, che non avremmo potuto apprendere leggendo un libro.

Insomma, sia Schermi di Lorella Zanardo che Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst sembrano rinchiudersi nelle strettoie di una comunicazione a senso unico, abdicando a utilizzare pienamente le potenzialità della scena in favore della volontà di far “passare un messaggio” o fotografare la criticità di dialogo intergenerazionale. Ma dove, esattamente, gli spettacoli avrebbero potuto spingersi, determinando caratteristiche di alterità rispetto all’esperienza quotidiana o rispetto ai format da fiction televisiva? Si ha come l’impressione di qualcosa che resta in ombra, che non viene affrontato del tutto. Ai “personaggi” – siano il padre e la madre di Lezioni di famiglia o la miriade di dati e problematiche sciorinata in Schermi –  manca un po’ di spessore chiaroscurale, ci vengono presentati in maniera in fin dei conti pacificata. Eppure, è evidente che fra i due genitori scorrano non-detti, incomprensioni, reciproche estraneità. Così come è evidente che social e televisione, con cui si veicolano spesso concetti violenti o sessisti, non siano dei mezzi neutri. Ci si aspetterebbe dunque che i discorsi si allarghino anche ai contorni e ai contesti delle “tematiche” da cui prendono abbrivio, che il palco diventi un luogo in cui articolare anche una riflessione politica sulla famiglia come istituzione o per mettere in crisi le stesse logiche della comunicazione e della pubblicità.
Vero, sembra compito forse troppo arduo e radicale da chiedere a delle proposte sceniche per l’infanzia. Ma dove portarlo avanti, se non a teatro? e con chi, se non con una comunità di spettatori attenti e di generazioni diverse?

Agnese Doria, Francesca Serrazanetti




L’eterno ritorno, o dell’anziano e del bambino

Un’urgenza emerge dalla programmazione della XXIX edizione di Segnali: raccontare quel rapporto tra infanzia e anzianità che, oggi, viene spesso negato nella separazione di soggetti diversi inseriti in contenitori sociali stagni, ordinati, non permeabili.
Certo è che i nonni rimangono un punto di riferimento all’interno della famiglia, ma di che famiglia si parla in una società iper-individualista, nonché resistente alle contaminazioni generazionali? Identificare un valore nell’infanzia è acquisizione recente, mentre l’anzianità continua a perdere importanza sociale, facendosi simbolo semplicistico di decadenza e improduttività. È qui che si sente necessario un nuovo modo di intendere e vivere il dialogo intergenerazionale ed è di questo dialogo che spettacoli diversi, sia per pubblico che per linguaggi, parlano. Dal musicale Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco passando per il muto Ticina mani di corteccia di Il teatro nel Baule per approdare a due dei tre Pollicino presentati al Festival, la proposta internazionale di Pulgarcito di Teatro Paraìso e Pollicino di Eco di Fondo, il rapporto tra bambini e anziani acquisisce nuova linfa e si fa spunto per riflessioni extra-teatrali.
Un uroboro, quell’eterno ritorno delle cose, quel ciclo senza inizio né fine, in cui nascita e morte coincidono. Un ciclo in cui un figlio può trasformarsi in genitore di suo padre, in cui c’è chi continua a crescere e chi, al contrario, continua a rimpicciolire. Fino alla definitiva scomparsa.
Anziani e bambini non hanno in comune né passato né futuro, la loro relazione vive immersa in un breve attimo presente, come quella tra l’ormai microscopico Pollicino di Eco di Fondo, suo figlio boscaiolo e il nipote che continuerà a disegnarlo per poter vivere avventure insieme, anche se in un altrove inconoscibile, seppur possibile da immaginare.
Quella necessità del bambino di giocare, di evadere, di conoscere i perché delle cose, la richiesta di storie e racconti da ripetere, con piccole variazioni, in continuo, il profondo bisogno di sentirsi protetti e al contempo di mantenere inalterata una routine, uniti a egocentrismo e richieste di indipendenza, si specchiano nell’anziano, in un tempo dilatato che concede maggiore concretezza ai legami affettivi e agli oggetti del passato e del presente, come si rende palese in Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione De Falco. Oggetti e persone che non hanno nulla a che fare con l’economia o con la produttività, ma che acquisiscono senso in quanto dilatazione della propria presenza e, per gli anziani, anche preparazione al distacco, all’assenza.
Un’assenza che non può però essere totale, come spiega il vecchissimo Pollicino, alias Andrea Pinna, di Eco di Fondo perché, anche se l’uno diventerà talmente grande da non poter essere visto dall’altro, sempre più piccolo, un luogo in cui incontrarsi sarà sempre lì, oltre il palco, basta inventarlo.
Quel luogo non è necessariamente oltre la vita, sembra suggerire Pollicino, può trovarsi nelle nostre città, può essere uno spazio concreto che, come scrive Vanna Iori in Pedagogia dell’invecchiamento e identità di genere [ETS, 2012], permetta di ripensare l’orientamento esistenziale di senso nel diventare anziani senza così perderne i vantaggi. È nel vivere esperienze comuni e continuative tra età, immaginari, idee, vissuti diversi che si concretizza la possibilità di uno scambio e di una crescita reali; come quella nonna e quel bambino in fuga che si adattano reciprocamente l’uno all’altra, imparando lui fin da piccolo ad accettare ciò che è diverso, e lei a non lasciarsi invecchiare, ma a continuare a scegliere.
La diversità acquisisce concretezza estetica oltreché anagrafica in Ticina mani di corteccia (Il teatro nel baule), simile a un muto re Mida che, anziché vedere ogni cosa toccata trasformarsi in oro, la vede sparire, distruggersi, appassire. Qui la vecchiaia si scorge in un personaggio solo, ai margini della società, abbandonato a causa delle sue stravaganze, non unicamente nell’aspetto. Anche qui sarà grazie a un essere opposto a lei, e quindi nell’incontro, seppur difficile, doloroso, terribile nel senso sublime del termine, che Ticina troverà nuove energie per il suo viaggio. Un viaggio complesso, contraddittorio che, se si ha il coraggio di cambiare punto di vista, permetterà di scorgere l’amore nel continuo flusso della vita.
La relazione tra chi sta entrando nella vita e chi sta per abbandonarla è visibilmente asimmetrica, ma, al contempo, rende possibile scorgere, attraverso l’apprendimento reciproco, come per Ticina, Pollicino o quella nonna e quel bambino, la necessità di relazione, condivisione e confronto di ogni essere umano, mai sufficiente a se stesso, nonostante la nostra società cerchi di negarlo. Questa relazione sbilanciata si può così fare strumento per recuperare quel vincolo reciproco tra uomini che interrompe il “progetto immunitario” della modernità e dell’individualismo, seguendo Elena Pulcini e il suo L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale [Bollati Boringhieri, 2001]. Quell’urgenza sentita da molti artisti, registi e compagnie prende così la forma di una necessità: darsi il tempo di riscoprire nella vecchiaia, così come nella prima età, la capacità di vedere la profondità delle cose senza dare peso alla superficie, uno sguardo essenziale, capace di unire esistenze tanto diverse perché nella vita tutto è in movimento e non smette mai di scorrere.

Ticina mani di corteccia

E chissà che tali urgenze e necessità non acquisiscano poi una declinazione propriamente sensoriale, un ribaltamento di sguardo che non sia tanto mutare prospettive e punti di vista, quanto cercare di sfuggire alla visione stessa.  Gli attori di Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco sono completamente soli sul palco. Nessuna scenografia, se non la luce che comunque permane fissa praticamente per tutta la durata dello spettacolo. Nessun oggetto di scena, se non gli indumenti che caratterizzano con semplicità i protagonisti. La loro è una recitazione che si avvicina molto alla pantomima, quasi alla gestualità del vaudeville: il bambino finge spesso di suonare un pianoforte di cui sentiamo solo il suono, la “nonna” mette in moto e guida un’automobile invisibile, ci viene chiesto di immaginare in continuazione oggetti, incontri, situazioni… Un viaggio sghembo e stralunato, idealmente “notturno”, dentro a una città “x” che sembra assumere i tratti di una metropoli primo-novecentesca, poiché contiene già in sé (o meglio, “arriva a contenerla” attraverso l’innocenza dei due protagonisti) una precipua dimensione di sorpresa e spaesamento.  Una dimensione per cui il rombo dei motori diventa una promessa di velocità e progresso, per cui semafori e fili del telegrafo non sono semplice “arredamento urbano” ma si fanno simbolo anche di civilizzazione. E, in maniera in fondo analoga ai flaneur di quell’epoca, ad avvincerci nella “a-topia scenica” creata dalla Compagnia Arione non sono dunque immagini o visioni, bensì i suoni e i rumori perturbanti della città, a volte anche gli odori e i gusti (in un momento dello spettacolo i due discutono proprio di ciò che stanno mangiando assieme…).
Ecco allora come l’alleanza fra prima e terza età derivi innanzitutto da una sorta di “complicità sensoriale”. La ribellione, anzi forse una vera e propria guerra (come evocato in un’altra proposta del festival, La guerra dei bottoni di Tib Teatro) contro gli adulti è una guerra contro la dittatura della vista. Non è infatti  l’età adulta proprio quel periodo della vita in cui la visione, intesa come razionalità e distanza, assume una posizione prevalente rispetto agli altri sensi? E, un poco più a fondo, non è quell’età della vita in cui in primo luogo si fa marcata una rigida distinzione fra i sensi, da cui poi il primato della vista deriva? Nell’infanzia e nella vecchiaia, per motivi diversi, vige invece un regime di maggiore “confusione”, di scivolamento da un piano all’altro, in una condizione di indeterminatezza nell’interpretare gli stimoli che rende più facile poter traslare le esperienze, che crea una realtà maggiormente allusiva e associativa, più vicina al sogno se vogliamo.
È dunque inevitabile che il teatro-ragazzi, un teatro che prova a tradurre la “infantilità” in una poetica, faccia propri tali principi di decostruzione dello sguardo. Sciogliendo molto spesso la visione in ascolto, trasformando il palco in un parco (giochi), che richiama e attira soprattutto il tatto. Un processo che, se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe avere implicazioni profonde. In un’intervista su Doppiozero il direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe Peter Weibel fa notare come morale e regole di convivenza che ciascuna società prova a darsi siano inestricabilmente legate alla sensorialità. I dieci comandamenti sono dei precetti adatti a un mondo in cui il nostro prossimo lo è anzitutto in senso spaziale, è vicino. Al contrario, oggi, quel “progetto immunitario” cui accennavamo in precedenza ci spinge verso una “società della lontananza” in cui il vincolo morale si esercita spesso fra persone e corpi magari distanti migliaia di chilometri, dove le conseguenze di certi comportamenti non hanno più un’evidenza fisica, immediatamente percepibile. È chiaro che la vista, in particolar modo se mediata, telecomunicativa o spettatoriale, gioca un ruolo fondamentale in tutto questo.
Il teatro-ragazzi potrebbe essere allora un modo per mettere in discussione  tale lontananza, per ricondurre al centro del nostro agire quei sensi che appaiono disattivati dalla società odierna. La scena per l’infanzia come luogo per ripensare, attraverso l’alleanza di figure che sembrano agli antipodi (il bambino e l’anziano), una nuova “etica della prossimità”, che, anzi, potrebbe quasi essere un’efficace definizione del teatro stesso.

Oggi

Eppure, l’alleanza fra infanzia e vecchiaia è un’alleanza poetica e intrisa di dolcezza, ma comunque ambigua e non priva di chiaroscuri. Pulgarcito, della compagnia spagnola Teatro Paraìso, ricompone i pezzi della catena generazionale e, senza rinunciare alla tenera dimensione di sogno ed evasione propria delle fiabe, ci mette di fronte anche a un crudo senso della responsabilità. In fondo, la felicità di relazione fra bambini e nonni, la leggerezza di cui si compone il loro rapporto, accade perché viene in una certa misura sospeso il “dovere della responsabilità”. Ma cosa succede quando i figli sono costretti a diventare “genitori dei propri genitori”?
Tomas Fdez e Ramon Monje sono figlio (ormai adulto) e padre (ormai anziano). Sulla scena, vediamo il primo intento a preparare le valigie per il secondo, che scopriamo dover essere accompagnato alla casa di riposo il giorno seguente. Affetto da demenza senile, recalcitrante, il padre fa i “capricci” per non farsi mettere il pigiama proprio come un bambino, si nasconde del cibo nelle tasche e non ne vuole sapere di andare a letto. Dopo essersi arrabbiato, il figlio prova allora la tattica della dolcezza: «Papà, ti ricordi quando mi raccontavi della fiaba di Pollicino?» Da qui inizia un’ingegnosa e incalzante sovrapposizione fra realtà e surrealtà, fra verità e sogno, in cui i due protagonisti si fanno prendere dalla narrazione e diventano in tutto e per tutto i personaggi di Pollicino, utilizzando l’armadio come luogo per nascondersi, prendendo i calzini per orchette, perdendosi e rincorrendosi nei pochi metri quadri della stanza. Un’evasione e un invasamento che però paiono non influire sulle decisioni concrete: al termine di questa fuga dalla realtà, vediamo il figlio riuscire finalmente a mettere a letto il padre, che sembra comunque destinato ad andare in casa di riposo (nonostante il figlio gli lasci tenere in tasca un tozzo di pane, a suggerire una certa apertura). Ma quello che si è guadagnato è la consapevolezza dell’abbandono, la sensazione di una riappacificazione generazionale pur nell’amarezza delle contingenze.
È sorprendente come la rappresentazione di una disfunzione intellettiva, quella dell’anziano padre, diventi il gancio drammaturgico per aumentare e magnificare il personaggio. Ramon Monje impersona una figura dall’abilità motoria ridotta, dalle capacità mentali offuscate, eppure – attraverso l’immersione nell’infra-realismo della fiaba – passa ad essere un vecchio, un bambino, il padre che fu, Pollicino e l’Orco senza soluzione di continuità e senza dover mutare minimamente tono recitativo. Diventa, in tutto e per tutto, un Super-personaggio. Forse, proprio qui si trova la chiave per immaginare un dialogo intergenerazionale che non neghi il conflitto e l’estraneità, né debba sospendere la responsabilità per postulare un incontro. Pulgarcito del Teatro Paraìso ci suggerisce non tanto dei modi per comprendere chi è distante da noi anagraficamente, ma ci spinge a introiettare quelle dimensioni infantili o senili che le diverse età esprimono, senza dovere per questo cambiare la propria “metrica esistenziale”.
Ci chiama ad essere, sugli spalti o anche fuori dai teatri, indefessi e infaticabili Super-spettatori!

Francesco Brusa, Camilla Fava




Uno sguardo mai fermo. Conversazione con Renata Coluccini e Giuditta Mingucci al festival Segnali

Dal 2 al 4 maggio saremo presenti come osservatorio critico al Festival Segnali di Milano, fra i principali appuntamenti nazionali di teatro ragazzi. Una rassegna giunta alle ventinovesima edizione, che ha spesso saputo coniugare un particolare sguardo sulle compagnie del territorio con una vocazione internazionale. Abbiamo conversato con le direttrici del festival, Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, provando a ragionare sul presente e sul futuro della scena per l’infanzia.

Ci potete presentare l’edizione di quest’anno e le scelte compiute? In generale, quali domande si pone o si dovrebbe porre chi organizza un festival di teatro ragazzi?

Giuditta Mingucci: Il lavoro di direttrici artistiche è sempre interessante: ricevere tante proposte consente di avere il polso di quello che sta succedendo in giro per l’Italia nel settore del teatro per ragazzi e individuare una serie di tendenze. Non abbiamo ovviamente la pretesa di avere il controllo di tutto, molte compagnie hanno presentato i loro lavori in altri festival e altre non sono rientrate nei nostri tempi di programmazione. Una grossa parte delle novità però confluisce certamente sotto il nostro sguardo. Restituire questa complessità è per noi una grossa responsabilità, da una parte verso le compagnie e dall’altra verso gli operatori che frequentano il festival con l’obiettivo di capire dove sta andando il teatro ragazzi e di trovare proposte interessanti da programmare. Tale criterio di responsabilità ci guida sempre nella selezione.
Da questo punto di vista, cerchiamo dunque di includere proposte di nuovi gruppi o nuove formazioni ma anche di osservare come stanno procedendo le compagnie con una storia più lunga alle loro spalle, nel tentativo di mostrare come proposte un tempo dirompenti abbiano poi inaugurato percorsi consolidati, che si evolvono continuamente dalle premesse iniziali. Anche quest’anno c’è inoltre la presenza di due compagnie internazionali: è sempre più frequente infatti la collaborazione tra artisti e/o istituzioni di paesi diversi all’interno dell’Europa. Sono elementi di novità che rispecchiano tra l’altro direzioni secondo noi assolutamente auspicabili per il teatro ragazzi.

Renata Coluccini: Quando ci troviamo davanti alla scelta degli spettacoli per Segnali, un pensiero che ci attraversa sempre e che dà adito a interessanti discussioni è capire quando uno spettacolo è da festival e quando è da programmazione. A volte le cose coincidono e a volte no, ma crediamo che nel festival debbano trovare spazio lavori che, per tema o linguaggio, osano un po’ di più e che proprio per questo possono avere più difficoltà di programmazione. Il festival è il luogo giusto per dargli voce.
Rispetto al programma del 2018 si può sottolineare la presenza di diversi “Pollicini”, fatto che ci ha incuriosito e ci ha spinto a interrogarci sull’importanza del tema del perdersi e del ritrovarsi. Tra le proposte che abbiamo ricevuto ce n’erano appunto tre legate alla fiaba, molto diverse tra loro: ci sembrava interessante allora proporre un Pollicino al giorno, anche come stimolo alla riflessione su come una stessa fiaba possa essere trattata in modi e con linguaggi diversi.

GM: Per quanto riguarda proprio i linguaggi, quest’anno ne toccheremo diversi: avremo un’orchestra, circo, esperimenti ad alto tasso di tecnologia e altri ad alto tasso di tradizione, e anche due spettacoli senza parole.

Avete menzionato il tema della perdita e dell’abbandono come uno dei possibili fil rouge trasversali al festival: come affrontare temi difficili e fino a dove si può spingere il teatro, e l’arte in generale, nell’affrontare temi complessi senza spaventare un pubblico giovane? Quanto e come osare?

RC: Credo che il problema non sia del pubblico giovane. Gli spettacoli rivolti all’infanzia o agli adolescenti possono trattare qualsiasi tematica, se lo fanno con il giusto linguaggio. Il problema spesso nasce da chi decide per i ragazzi se possono vedere o meno uno spettacolo, ovvero dagli insegnanti. La paura è adulta: i temi non sono tabù per il pubblico di riferimento, ma sono gli insegnanti che, a monte, hanno paura di attraversare questi stessi temi con i ragazzi. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso a Segnali con Racconto alla rovescia, che trattava il tema della morte: non c’è stato nessun problema nella ricezione.
I temi cosiddetti tabù (la morte, l’abbandono, la sessualità…) d’altra parte sono temi importantissimi per tutti noi, al di là dell’età, e credo che ogni artista sviluppi urgenze espressive legate a essi. È allora giusto che li attraversi: quando il teatro (in special modo quello rivolto all’infanzia) parte da urgenze sincere, e autentiche, funziona.

GM: Toccare temi tabù è molto importante, ma non deve rimanere un pensiero astratto, didattico nel senso deteriore del termine. La sorgente artistica è quella che ti consente di trovare la strada giusta per parlare di qualunque cosa. Senza dubbio è necessario un ulteriore lavoro da parte di chi produce per veicolare questo messaggio e perché gli spettacoli arrivino dove devono arrivare. Abbiamo a che fare con un pubblico che è inevitabilmente mediato e un lavoro di mediazione è quindi necessario. Capita spesso che spettacoli importanti non richiamino pubblico a causa del titolo o del tema, nel confronto con determinate fasce di età, ma tutto dipende da come questi contenuti vengono trattati.

Giuditta Mingucci

Segnali compie ventinove anni e con il Festival è cambiato anche il pubblico: cosa chiedono oggi come spettatori giovani e adolescenti che vengono a teatro?

GM: Mi viene in mente un’esperienza che abbiamo vissuto come compagnia insieme ad altre realtà europee di produzione per questa fascia d’età: dalla Finlandia la richiesta dei giovani che partecipavano al progetto era rivolta a un teatro che non parlasse più di bullismo o anoressia. Questo è un indicatore importante di come ci poniamo nei confronti del teatro ragazzi in quanto adulti. Spesso, infatti, ci concentriamo su problematiche che gli adolescenti vivono diversamente rispetto a noi. È per questo che è fondamentale mantenere un dialogo aperto e, come molte compagnie fanno, lavorare partendo da laboratori in cui i ragazzi partecipino, dunque da un confronto molto diretto con loro ancora prima di andare in scena.

RC: Il cuore della questione credo stia nel non fare degli spettacoli solo “per” adolescenti, ma “con” loro. Lavorare con i ragazzi mi mette in crisi ogni volta, in una crisi positiva che si trasforma in crescita e in mutamento di prospettiva.
Da anni come compagnia di produzione stiamo portando avanti un progetto con adolescenti e preadolescenti che ci permette di avere un contatto diretto con loro. Se noi leghiamo il loro essere adolescenti al fatto di avere dei problemi giusto perché sono in una fascia d’età complessa la loro reazione sarà sempre: “perché devo sopportare questo carico?” È perciò necessario costruire dei percorsi insieme a loro prima di andare in scena. Il modo di “rappresentarli” e di parlare di loro poi può variare: dalla provocazione, perché no, alla radiografia.

A tal proposito, quali aspetti della “vita adulta” vengono messi in crisi dallo sguardo adolescente e bambino?

GM: I ragazzi vanno all’origine delle cose, sono capaci attraverso domande semplici di trovare il cuore dei problemi. Chiedono le ragioni di ciò che vedono e di ciò che accade facendo domande importanti e puntuali senza giocare, come magari capita a noi, con la superficie. Il rischio per noi adulti è infatti dare troppe cose per scontate perché pensiamo di averle ormai metabolizzate. Invece la comprensione che abbiamo acquisito necessita di essere interrogata: si scade nella banalità se si cessa di porre e porsi domande. Diviene così fondamentale essere riportati all’origine delle cose con quella purezza, quella percezione della novità e anche dell’eccezionalità dell’ordinario che è cifra distintiva di un pubblico di ragazzi. Anche al livello della teatralità, le reazioni che ha il pubblico più giovane rivelano una curiosità e una passione nei confronti del teatro in sé, anche nei suoi aspetti tecnici, che per noi sono ovvie o poco interessanti. È uno sguardo altro, che stimola in quanto diverso. Per ricollegarsi alla XXIX edizione di Segnali, per noi è importante che ci siano due proposte internazionali, che danno un’altra prospettiva sulla realtà che ci circonda. Avere la possibilità di spostare lo sguardo è sempre un grande vantaggio, non tanto per cambiare ciò che siamo, ma per approfondire la coscienza e la percezione della propria identità in relazione con ciò che è altro da noi. Questo confronto non deve trasformarsi necessariamente in condivisione di punti di vista o visioni sul e del mondo, ma è assolutamente necessario per spingersi più lontano.

RC: Quando incontri i ragazzi accade davvero che il tuo sguardo si sposti in un duplice movimento: verso l’interno e verso l’esterno. Inizi a guardare la società e il te stesso più profondo da un’angolazione leggermente diversa riscoprendo aspetti che davi per scontati o per acquisiti. Questo confronto penso ti mantenga vivo, attento, critico. Credo che sia nostro dovere di adulti stimolare negli adolescenti un spirito critico che è parte di ognuno di noi, che deve solo essere “risvegliato”. Nel momento in cui i ragazzi riescono a tirare fuori questo sguardo critico sulla realtà modificano anche il nostro di adulti.

Negli ultimi tempi assistiamo a molte compagnie di ricerca che si misurano con spettacoli per ragazzi…

RC: Quando ho iniziato a occuparmi di teatro ragazzi, le compagnie di teatro ragazzi si mescolavano molto con quelle di ricerca. I due ambienti erano molto prossimi, ci si incontrava, si parlava, si discuteva. Dopodiché c’è stata una separazione. Il fatto che qualcuno che fa teatro di ricerca per adulti abbia voglia di misurarsi con i più giovani per me è qualcosa di molto “organico”, di molto coerente. Di fatto i ragazzi ti spingono a non stare fermo, non puoi dire “ho trovato il linguaggio della mia vita e farò sempre questa cosa”. Loro cambiano e tu devi cambiare di conseguenza, anche andandogli contro. Come per noi che facciamo teatro ragazzi è sano misurarci con altri pubblici di riferimento, così mi sembra altrettanto sano e necessario il percorso inverso. I ragazzi rappresentano uno stimolo eccezionale per mettere in gioco ciò che ritieni già acquisito e provare a misurarti con percorsi, linguaggi e tematiche nuove.

GM: Peter Brook stesso, in particolari fasi della preparazione dei suoi spettacoli, portava i propri attori nelle scuole per mettere, diciamo, “sotto stress” il lavoro fin lì compiuto attraverso la relazione con i ragazzi. Non mi stupisce questa esigenza delle compagnie di ricerca.

Renata Coluccini

Provando a fare uno sforzo di immaginazione, cosa chiedereste al teatro ragazzi del futuro?

RC: Penso che il teatro ragazzi in questo momento per svilupparsi abbia bisogno di essere sostenuto in maniera seria, anche economicamente. Non può vivere solo dello sbigliettamento, perché una politica che voglia intercettare esigenze e desideri dei ragazzi è costretta a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. Riempire le sale non è qualcosa di positivo a priori, il teatro ragazzi dovrebbe a volte sperimentare misure e dimensioni diverse, anche piccole… Mi piacerebbe che si potessero creare davvero delle reti fra le realtà che già stanno operando sul territorio: un aspetto fondamentale, su cui stiamo lavorando già in vari modi. Infine vorrei che ci si potesse concedere dei margini di errore, perché penso che la ricerca passi anche da questo. A volte il rischio è ritrovarsi presi da doveri produttivi di tempi, di ritmi, di dati ministeriali e non, che impediscono di concederti quella che è una ricerca che sbaglia per trovare la strada… come Pollicino, appunto. Questa è la mia utopia. La mia utopia sarebbe un festival dell’errore, dove portare tutti i propri percorsi sbagliati ma da cui trovare, poi, delle strade.

GM: Aggiungerei anche che il teatro-ragazzi è un ambito che merita un ulteriore approfondimento critico, ed è per questo che ci sforziamo di unire la qualità artistica in quanto tale con approcci e stimoli che definiscano un riferimento per il pubblico giovane. Rispetto al teatro “per adulti”, il teatro ragazzi è forse un po’ meno studiato e approfondito dall’esterno. Sarebbe molto importante riuscire a sviluppare nei prossimi anni uno sguardo di questo tipo.

RC: L’altro tentativo che stiamo facendo adesso, anche con il festival di Castelfiorentino, è quello di circondarci o trovare dei “complici”. Il contatto con l’università ad esempio, con figure che si occupano di aspetti educativi, creativi e pedagogici legati ai giovani (come accadrà nel convegno organizzato il 2 maggio), ha l’obiettivo di creare un movimento di pensiero che non sia limitato solo al teatro, ma con cui provare ad affrontare insieme il futuro. Si tratta proprio di ritrovare un movimento culturale in senso lato, di cui una componente importantissima deve essere il teatro.

Francesco Brusa, Camilla Fava, Francesca Serrazanetti