Uno sguardo mai fermo. Conversazione con Renata Coluccini e Giuditta Mingucci al festival Segnali

Dal 2 al 4 maggio saremo presenti come osservatorio critico al Festival Segnali di Milano, fra i principali appuntamenti nazionali di teatro ragazzi. Una rassegna giunta alle ventinovesima edizione, che ha spesso saputo coniugare un particolare sguardo sulle compagnie del territorio con una vocazione internazionale. Abbiamo conversato con le direttrici del festival, Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, provando a ragionare sul presente e sul futuro della scena per l’infanzia.

Ci potete presentare l’edizione di quest’anno e le scelte compiute? In generale, quali domande si pone o si dovrebbe porre chi organizza un festival di teatro ragazzi?

Giuditta Mingucci: Il lavoro di direttrici artistiche è sempre interessante: ricevere tante proposte consente di avere il polso di quello che sta succedendo in giro per l’Italia nel settore del teatro per ragazzi e individuare una serie di tendenze. Non abbiamo ovviamente la pretesa di avere il controllo di tutto, molte compagnie hanno presentato i loro lavori in altri festival e altre non sono rientrate nei nostri tempi di programmazione. Una grossa parte delle novità però confluisce certamente sotto il nostro sguardo. Restituire questa complessità è per noi una grossa responsabilità, da una parte verso le compagnie e dall’altra verso gli operatori che frequentano il festival con l’obiettivo di capire dove sta andando il teatro ragazzi e di trovare proposte interessanti da programmare. Tale criterio di responsabilità ci guida sempre nella selezione.
Da questo punto di vista, cerchiamo dunque di includere proposte di nuovi gruppi o nuove formazioni ma anche di osservare come stanno procedendo le compagnie con una storia più lunga alle loro spalle, nel tentativo di mostrare come proposte un tempo dirompenti abbiano poi inaugurato percorsi consolidati, che si evolvono continuamente dalle premesse iniziali. Anche quest’anno c’è inoltre la presenza di due compagnie internazionali: è sempre più frequente infatti la collaborazione tra artisti e/o istituzioni di paesi diversi all’interno dell’Europa. Sono elementi di novità che rispecchiano tra l’altro direzioni secondo noi assolutamente auspicabili per il teatro ragazzi.

Renata Coluccini: Quando ci troviamo davanti alla scelta degli spettacoli per Segnali, un pensiero che ci attraversa sempre e che dà adito a interessanti discussioni è capire quando uno spettacolo è da festival e quando è da programmazione. A volte le cose coincidono e a volte no, ma crediamo che nel festival debbano trovare spazio lavori che, per tema o linguaggio, osano un po’ di più e che proprio per questo possono avere più difficoltà di programmazione. Il festival è il luogo giusto per dargli voce.
Rispetto al programma del 2018 si può sottolineare la presenza di diversi “Pollicini”, fatto che ci ha incuriosito e ci ha spinto a interrogarci sull’importanza del tema del perdersi e del ritrovarsi. Tra le proposte che abbiamo ricevuto ce n’erano appunto tre legate alla fiaba, molto diverse tra loro: ci sembrava interessante allora proporre un Pollicino al giorno, anche come stimolo alla riflessione su come una stessa fiaba possa essere trattata in modi e con linguaggi diversi.

GM: Per quanto riguarda proprio i linguaggi, quest’anno ne toccheremo diversi: avremo un’orchestra, circo, esperimenti ad alto tasso di tecnologia e altri ad alto tasso di tradizione, e anche due spettacoli senza parole.

Avete menzionato il tema della perdita e dell’abbandono come uno dei possibili fil rouge trasversali al festival: come affrontare temi difficili e fino a dove si può spingere il teatro, e l’arte in generale, nell’affrontare temi complessi senza spaventare un pubblico giovane? Quanto e come osare?

RC: Credo che il problema non sia del pubblico giovane. Gli spettacoli rivolti all’infanzia o agli adolescenti possono trattare qualsiasi tematica, se lo fanno con il giusto linguaggio. Il problema spesso nasce da chi decide per i ragazzi se possono vedere o meno uno spettacolo, ovvero dagli insegnanti. La paura è adulta: i temi non sono tabù per il pubblico di riferimento, ma sono gli insegnanti che, a monte, hanno paura di attraversare questi stessi temi con i ragazzi. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso a Segnali con Racconto alla rovescia, che trattava il tema della morte: non c’è stato nessun problema nella ricezione.
I temi cosiddetti tabù (la morte, l’abbandono, la sessualità…) d’altra parte sono temi importantissimi per tutti noi, al di là dell’età, e credo che ogni artista sviluppi urgenze espressive legate a essi. È allora giusto che li attraversi: quando il teatro (in special modo quello rivolto all’infanzia) parte da urgenze sincere, e autentiche, funziona.

GM: Toccare temi tabù è molto importante, ma non deve rimanere un pensiero astratto, didattico nel senso deteriore del termine. La sorgente artistica è quella che ti consente di trovare la strada giusta per parlare di qualunque cosa. Senza dubbio è necessario un ulteriore lavoro da parte di chi produce per veicolare questo messaggio e perché gli spettacoli arrivino dove devono arrivare. Abbiamo a che fare con un pubblico che è inevitabilmente mediato e un lavoro di mediazione è quindi necessario. Capita spesso che spettacoli importanti non richiamino pubblico a causa del titolo o del tema, nel confronto con determinate fasce di età, ma tutto dipende da come questi contenuti vengono trattati.

Giuditta Mingucci

Segnali compie ventinove anni e con il Festival è cambiato anche il pubblico: cosa chiedono oggi come spettatori giovani e adolescenti che vengono a teatro?

GM: Mi viene in mente un’esperienza che abbiamo vissuto come compagnia insieme ad altre realtà europee di produzione per questa fascia d’età: dalla Finlandia la richiesta dei giovani che partecipavano al progetto era rivolta a un teatro che non parlasse più di bullismo o anoressia. Questo è un indicatore importante di come ci poniamo nei confronti del teatro ragazzi in quanto adulti. Spesso, infatti, ci concentriamo su problematiche che gli adolescenti vivono diversamente rispetto a noi. È per questo che è fondamentale mantenere un dialogo aperto e, come molte compagnie fanno, lavorare partendo da laboratori in cui i ragazzi partecipino, dunque da un confronto molto diretto con loro ancora prima di andare in scena.

RC: Il cuore della questione credo stia nel non fare degli spettacoli solo “per” adolescenti, ma “con” loro. Lavorare con i ragazzi mi mette in crisi ogni volta, in una crisi positiva che si trasforma in crescita e in mutamento di prospettiva.
Da anni come compagnia di produzione stiamo portando avanti un progetto con adolescenti e preadolescenti che ci permette di avere un contatto diretto con loro. Se noi leghiamo il loro essere adolescenti al fatto di avere dei problemi giusto perché sono in una fascia d’età complessa la loro reazione sarà sempre: “perché devo sopportare questo carico?” È perciò necessario costruire dei percorsi insieme a loro prima di andare in scena. Il modo di “rappresentarli” e di parlare di loro poi può variare: dalla provocazione, perché no, alla radiografia.

A tal proposito, quali aspetti della “vita adulta” vengono messi in crisi dallo sguardo adolescente e bambino?

GM: I ragazzi vanno all’origine delle cose, sono capaci attraverso domande semplici di trovare il cuore dei problemi. Chiedono le ragioni di ciò che vedono e di ciò che accade facendo domande importanti e puntuali senza giocare, come magari capita a noi, con la superficie. Il rischio per noi adulti è infatti dare troppe cose per scontate perché pensiamo di averle ormai metabolizzate. Invece la comprensione che abbiamo acquisito necessita di essere interrogata: si scade nella banalità se si cessa di porre e porsi domande. Diviene così fondamentale essere riportati all’origine delle cose con quella purezza, quella percezione della novità e anche dell’eccezionalità dell’ordinario che è cifra distintiva di un pubblico di ragazzi. Anche al livello della teatralità, le reazioni che ha il pubblico più giovane rivelano una curiosità e una passione nei confronti del teatro in sé, anche nei suoi aspetti tecnici, che per noi sono ovvie o poco interessanti. È uno sguardo altro, che stimola in quanto diverso. Per ricollegarsi alla XXIX edizione di Segnali, per noi è importante che ci siano due proposte internazionali, che danno un’altra prospettiva sulla realtà che ci circonda. Avere la possibilità di spostare lo sguardo è sempre un grande vantaggio, non tanto per cambiare ciò che siamo, ma per approfondire la coscienza e la percezione della propria identità in relazione con ciò che è altro da noi. Questo confronto non deve trasformarsi necessariamente in condivisione di punti di vista o visioni sul e del mondo, ma è assolutamente necessario per spingersi più lontano.

RC: Quando incontri i ragazzi accade davvero che il tuo sguardo si sposti in un duplice movimento: verso l’interno e verso l’esterno. Inizi a guardare la società e il te stesso più profondo da un’angolazione leggermente diversa riscoprendo aspetti che davi per scontati o per acquisiti. Questo confronto penso ti mantenga vivo, attento, critico. Credo che sia nostro dovere di adulti stimolare negli adolescenti un spirito critico che è parte di ognuno di noi, che deve solo essere “risvegliato”. Nel momento in cui i ragazzi riescono a tirare fuori questo sguardo critico sulla realtà modificano anche il nostro di adulti.

Negli ultimi tempi assistiamo a molte compagnie di ricerca che si misurano con spettacoli per ragazzi…

RC: Quando ho iniziato a occuparmi di teatro ragazzi, le compagnie di teatro ragazzi si mescolavano molto con quelle di ricerca. I due ambienti erano molto prossimi, ci si incontrava, si parlava, si discuteva. Dopodiché c’è stata una separazione. Il fatto che qualcuno che fa teatro di ricerca per adulti abbia voglia di misurarsi con i più giovani per me è qualcosa di molto “organico”, di molto coerente. Di fatto i ragazzi ti spingono a non stare fermo, non puoi dire “ho trovato il linguaggio della mia vita e farò sempre questa cosa”. Loro cambiano e tu devi cambiare di conseguenza, anche andandogli contro. Come per noi che facciamo teatro ragazzi è sano misurarci con altri pubblici di riferimento, così mi sembra altrettanto sano e necessario il percorso inverso. I ragazzi rappresentano uno stimolo eccezionale per mettere in gioco ciò che ritieni già acquisito e provare a misurarti con percorsi, linguaggi e tematiche nuove.

GM: Peter Brook stesso, in particolari fasi della preparazione dei suoi spettacoli, portava i propri attori nelle scuole per mettere, diciamo, “sotto stress” il lavoro fin lì compiuto attraverso la relazione con i ragazzi. Non mi stupisce questa esigenza delle compagnie di ricerca.

Renata Coluccini

Provando a fare uno sforzo di immaginazione, cosa chiedereste al teatro ragazzi del futuro?

RC: Penso che il teatro ragazzi in questo momento per svilupparsi abbia bisogno di essere sostenuto in maniera seria, anche economicamente. Non può vivere solo dello sbigliettamento, perché una politica che voglia intercettare esigenze e desideri dei ragazzi è costretta a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. Riempire le sale non è qualcosa di positivo a priori, il teatro ragazzi dovrebbe a volte sperimentare misure e dimensioni diverse, anche piccole… Mi piacerebbe che si potessero creare davvero delle reti fra le realtà che già stanno operando sul territorio: un aspetto fondamentale, su cui stiamo lavorando già in vari modi. Infine vorrei che ci si potesse concedere dei margini di errore, perché penso che la ricerca passi anche da questo. A volte il rischio è ritrovarsi presi da doveri produttivi di tempi, di ritmi, di dati ministeriali e non, che impediscono di concederti quella che è una ricerca che sbaglia per trovare la strada… come Pollicino, appunto. Questa è la mia utopia. La mia utopia sarebbe un festival dell’errore, dove portare tutti i propri percorsi sbagliati ma da cui trovare, poi, delle strade.

GM: Aggiungerei anche che il teatro-ragazzi è un ambito che merita un ulteriore approfondimento critico, ed è per questo che ci sforziamo di unire la qualità artistica in quanto tale con approcci e stimoli che definiscano un riferimento per il pubblico giovane. Rispetto al teatro “per adulti”, il teatro ragazzi è forse un po’ meno studiato e approfondito dall’esterno. Sarebbe molto importante riuscire a sviluppare nei prossimi anni uno sguardo di questo tipo.

RC: L’altro tentativo che stiamo facendo adesso, anche con il festival di Castelfiorentino, è quello di circondarci o trovare dei “complici”. Il contatto con l’università ad esempio, con figure che si occupano di aspetti educativi, creativi e pedagogici legati ai giovani (come accadrà nel convegno organizzato il 2 maggio), ha l’obiettivo di creare un movimento di pensiero che non sia limitato solo al teatro, ma con cui provare ad affrontare insieme il futuro. Si tratta proprio di ritrovare un movimento culturale in senso lato, di cui una componente importantissima deve essere il teatro.

Francesco Brusa, Camilla Fava, Francesca Serrazanetti




Fiabe melanconiche dei nostri giorni tristi: sesta istantanea da Segnali

Cari cuccioli di Compagnia Rodisio
Cari cuccioli è uno spettacolo tenero, pieno di poesia e delicatezza, un haiku che contiene immagini emozionanti, create con una perfezione scenica dove ogni elemento è pesato nei minimi dettagli. Manuela Capece e Davide Doro – fondatori della compagnia Rodisio, ideatori e interpreti del lavoro qui presentato – appaiono come figure  smussate e indefinite dalla fitta nebbia che accoglie il pubblico appena entra nella sala teatrale. Rivolto ai bambini dai 2 ai 5 anni, accompagnati dalle loro famiglie, lo spettacolo non utilizza parole, ma si affida alla potenza di immagini visionarie che, intrecciate a una colonna sonora dai toni fortemente lirici, affascinano piccoli e adulti conducendoli al di là del bosco, in un territorio impalpabile e soffice, un posto segreto dove vi sono cura e dolcezza. I due attori  attraverso gesti coreografici e pochi oggetti che piano piano appaiono dal nulla e si collocano nello spazio – una finestra, una poltrona, un materasso, un fuoco acceso, un albero fiorito, la luna piena – ricreano una casa essenziale, un ambiente pronto ad accogliere ciò che verrà, il futuro che cresce. Cari cuccioli lavora su più livelli interpretativi e intreccia elementi ripresi dalle fiabe classiche e archetipi ancestrali: si attraversa il bosco e si bussa alla porta perché il nuovo è ciò che non si conosce e che proviene da fuori. Se lo spettacolo per i bambini può rappresentare un’iniziazione all’esperienza teatrale, per i genitori è il racconto della condizione che si attraversa quando ci si prepara a diventare genitori. La casa è pronta, il latte è nella tazza, il fuoco è acceso e si aspetta che la nuova vita, il caro cucciolo, bussi a quella porta. Il rito è iniziato. (c.t.)

Alan e il mare di Giuliano Scarpinato
Ci sono spettacoli che dividono il pubblico in maniera netta. O almeno l’impressione, all’uscita, è che vi siano punti di vista contrapposti. Raramente capita, come nel caso di Alan e il mare, ultimo lavoro di Giuliano Scarpinato, che la spaccatura sia così marcata che si trovino spettatori in lacrime, perché commossi e altri paonazzi, perché arrabbiati. Alan e il mare è – almeno questa la sensazione al debutto a Segnali di Milano, con un pubblico però solo di adulti e di addetti ai lavori – uno di quegli spettacoli che non lascia indifferenti e che pone subito alcune domande cruciali, anche metodologiche, che sono poi le domande che riguardano il settore del teatro ragazzi, ma che in realtà comprendono tutto il teatro. Dopo il polverone di Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, spettacolo sull’identità sessuale, Scarpinato, sempre per un pubblico a partire dai 7-8 anni, sceglie un argomento altrettanto scottante, come i viaggi tragici dei tanti stranieri che scappano dalle guerre. Una provocazione o il desiderio di spingere il teatro ragazzi dentro le grandi questioni dell’attualità? Una mossa à la page o “necessaria”?

La prima domanda riguarda dunque la tematica: è opportuno raccontare a bambini di sette-otto anni le tragedie degli immigrati che muoiono in mezzo al mare? Un po’ frettolosamente, a rischio di ideologia, si può rispondere di sì, basta trovare la forma giusta (d’altronde Art Spiegelman ha  raccontato l’olocausto con i fumetti, riuscendoci, Benigni con il cinema, meno convincente…). E dunque: qual è la forma giusta? Come si racconta una tragedia? Lo spettacolo parla di un padre (Federico Brugnone) che si imbarca con il proprio figlio a Bodrum per fuggire dai bombardamenti. Una terribile tempesta colpisce lo scafo e il bambino muore affogato. La storia si sviluppa dal punto di vista del padre che, in preda a deliri o sogni o visioni, mantiene un filo, un dialogo, un rapporto con il figlio, trasformatosi in una sorta di pesce. Il padre tenta invano di trascinarlo fuori dall’acqua, fino a che, in un processo doloroso di accettazione del lutto, si immerge nelle profondità marine, alla scoperta di un nuovo mondo. Ci sono sentimenti di angoscia, di paura, ma anche molta dolcezza e immaginazione. La tragedia viene infatti strutturata con le dinamiche della fiaba. Il figlio – interpretato dal bravo Michele Degirolamo – sguscia sul palcoscenico come un pesce fuor d’acqua, e il pensiero va subito a Colapesce, antichissima storia siciliana e di tutto il meridione, di cui esistono decine di varianti (oggi disponibili per Donzelli con le bellissime immagini di Fabian Negrin, probabilmente il più bravo e costante illustratore di fiabe dei nostri anni). E allora la domanda potrebbe diventare: è opportuno trasformare una realtà tragica in una fiaba (dai risvolti tristi in questo caso, ma che contiene in sé, quasi per statuto, una sorta di “cura”, di catarsi, di rielaborazione?). Le “fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino, ammonendoci, in un certo senso, rispetto alle derive più evasive e inconsistenti. Le fiabe cioè andrebbero prese sul serio, perché rispondono ad elementi profondi dell’animo umano. Ma che tipo di processo educativo si può innescare nella dinamica che trasforma la realtà in fiaba? Quali i pericoli? Come si evita la rappresentazione ammiccante e finzionale, inevitabilmente fallace? La “cura” di cui è portatrice la fiaba, anche quando parla di morte, di cosa è fatta? Come evitare la retorica sentimentale?

Scarpinato ha talento e coraggio, ma sceglie di camminare su una strada scivolosa e per mantenere il giusto equilibrio è obbligato ora a togliere, ora ad aggiungere elementi; è costretto a pigiare su uno stato emotivo, per ottenere un primo piano efficace, ma qualcosa sullo sfondo va inevitabilmente a perdersi. La guerra e l’iniziale disperazione sono appena accennate e lo spettacolo si concentra sul rapporto padre e figlio (la madre, con il velo, è solo un’immagine virtuale, muta, che sembra vivere ormai in un altro mondo, una vera alterità nella sua assenza…). La scenografia è composta da pannelli, organizzati come fossero le schegge di uno specchio rotto, sui quali sono proiettate immagini che riscaldano il clima emotivo, spesso contraddistinto da forti elementi di pathos e di commozione, e da momenti ludici. Ad esempio il viaggio verso il mare si segue sullo schermo in soggettiva, come un videogioco, con bonus da guadagnare e nemici da sconfiggere. Qualcuno si lamenta, sostenendo che trasfigurare questi viaggi disperati con il filtro del game è una falsificazione o una mancanza di rispetto. È però vero che, di fronte al pubblico dei più piccoli, il video gioco è una porta di ingresso fortissima, una sintesi visiva molto efficace, che trasmette, metaforicamente, l’idea di pericolo e di viaggio. Che il viaggio dei migranti oggi sia l’unico riconducibile in qualche modo alle narrazioni picaresche è un fatto evidente e che, anche nella disperazione assoluta, possa entrare l’avventura, come genere letterario, lo ha dimostrato Primo Levi con il suo romanzo forse più bello, La tregua. Il genere dell’avventura non è il videogame, ma che nell’immaginario collettivo vi sia stato questo slittamento è assodato e con questa immagine è giusto forse fare i conti. Ma è questo – l’avventura – che si vuole trasmettere? Solo in piccola parte, perché lo spettacolo è ricco di tante altre invenzioni ed è costruito con abilità nella mescolanza di registri e di tecniche, con una sensibilità tutta contemporanea, concentrandosi soprattutto sul rapporto padre-figlio. Forse è addirittura troppo pieno di elementi, che rischiano di confondere qualche passaggio e forse, a tratti, è teso a sedurre e a sorprendere. Ad esempio i tentativi di riportare “in vita” il figlio, l’idea di una sopravvivenza oltre la morte (nel ricordo), sono allo stesso tempo visioni di un uomo impazzito per troppo dolore, sogni, miraggi, cortocircuiti temporali tra passato, presente e futuro… La parabola fiabesca impone in qualche modo una conclusione, una chiusura, per cui si corre nell’elaborazione del lutto. In questo caso storia e fiaba stridono tra loro: da una parte il lutto che ferma tutto, blocca la storia, fa precipitare lo stato emotivo, dall’altra la fiaba che deve trovare una conclusione, far ripartire la vita e che perciò rischia di apparire una scorciatoia.

La cifra un po’ barocca dello spettacolo può infastidire, perché per una vicenda del genere ci si aspetterebbe più sobrietà, così come apparentemente avviene per altri lavori presenti al festival Segnali. In realtà lo stile è la forza dello spettacolo. I due attori, in dialogo con la scena, riescono a dar vita a un linguaggio vivace e convincente. La forma è sofisticata ed è padroneggiata con sicurezza. Certe invenzioni visive e gestuali non possono che avvicinare la “storia” al pubblico dei più piccoli. L’intenzione è chiara. E anche le nuove tecnologie, oltre che per gusto, vengono utilizzate come “ponti”: si sta parlando dell’oggi, non dell’Odissea, e questi stranieri usano gli stessi nostri oggetti.

Più che insistere sulla disperazione della guerra o su differenze culturali tutto lo spettacolo punta sulle similitudini. E il dolore di un padre per la morte del proprio figlio è cosa universale, propria della natura umana. È come se tutta la storia volesse concentrarsi su questo aspetto e quindi paradossalmente subisse un processo di “normalizzazione”. L’impressione finale è che la forza di questo lavoro (che ha senz’altro forza) coincida con il suo stesso limite, cioè l’ambizione. L’ambizione di camminare sul filo di tante cose: dei sentimenti dei padri e dei figli, della cronaca e della fiaba, della politica e dell’indignazione, dei nuovi media e del nostro immaginario. È una bella ambizione, che in parte trova risposta concreta e in parte lascia qualche dubbio, che vale la pena tenere sospeso. Tra le altre cose pare un po’ insistito il riferimento al “caso” mediatico suscitato dalla foto, che ha fatto il giro del mondo, di Aylan Kurdi, il piccolo profugo senza vita sulla spiaggia, da cui lo spettacolo prende spunto. Un riferimento che forse porta fuori strada. Piuttosto rimane grande la curiosità delle reazioni che potrebbe avere un bambino. I bambini sono immersi dentro questa trasformazione epocale ancor più degli adulti. Nelle scuole dei più piccoli storie di stranieri giunti in Italia in modo rocambolesco sono all’ordine del giorno. Ecco che di fronte a un richiedente asilo che si incontra per strada un bambino può chiedere cento cose: chi è? Da dove viene? Come ha fatto ad arrivare fin qui? In un certo senso con questo spettacolo è come se si dicesse che dietro a un’immagine mediatica, dietro a un volto si può nascondere un grande lutto, un grande dolore, una storia terribile di ingiustizia, un essere umano come noi, ma a tutte le altre domande dovranno rispondere genitori, insegnanti, educatori. (r.s.)

Mister Green di Elsinor-Vat Teater
Qual è il rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura? È ancora possibile trovare un contatto con l’ambiente prendendo le distanze dalle sovrastrutture che la contemporaneità ci impone? Siamo disposti a ritrovare un dialogo “ecologico” con la realtà, rinunciando alle comode mediazioni della modernità? Queste domande sembrano essere al centro del progetto Mister Green, seconda presenza internazionale a Segnali, frutto di una coproduzione di Elsinor con la compagnia estone Vat Teater. Si tratta di un lavoro dal forte impatto visivo, con una scenografia fatta di videoproiezioni che accompagnano un uomo comune totalmente “urbanizzato” (interpretato da Rauno Kaibiainen) in un’avventurosa prova di sopravvivenza, dalla città alla foresta e ritorno. La sfida per lui sarà affrontare un’intera notte in mezzo a una natura selvaggia prima di riuscire a tornare alla civiltà, cercando di compiere azioni apparentemente elementari (accendere un fuoco o allontanare un animale) o di trovare un complice dialogo con le piante. Imprese in cui, forse, i ragazzi del pubblico sarebbero ben più abili dell’adulto che si trovano davanti. L’interpretazione mette in luce goffaggini e inadeguatezze, sconfinando a tratti nella macchietta. Se l’articolazione delle tematiche e l’apertura di domande proposte dalla drammaturgia rischiano di restare legate all’evidenza della pura vicenda, ad accompagnare gli spettatori verso nuove sollecitazioni è l’uso delle videoproiezioni: la suggestiva sovrapposizione di immagini a grande scala e movimenti scenici avrebbe potuto tuttavia indagare maggiormente le potenzialità di un’interazione, andando oltre la definizione di un’ambientazione. Tra scenari apocalittici e visioni oniriche, la domanda sul rapporto dell’uomo con la natura può trovare spazio per sconfinare in un immaginario da inventare e allargare il suo significato. (f.s.)

Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazzanetti, Carlotta Tringali




Festival Segnali. Intervista a Renata Coluccini e Giuditta Mingucci

Dal 2 al 5 maggio si svolge la XXVII edizioni del Festival Segnali, organizzato dai Centri di Produzione Teatrale Teatro del Buratto e Elsinor. Ospiti di Segnali, che si svolge a Milano al Teatro Verdi e al Teatro Sala Fontana e a Cormano saranno 19 spettacoli tra cui 5 produzioni di Compagnie Lombarde sostenute da NEXT, progetto della Regione Lombardia per la produzione e circuitazione della compagnie del territorio. Un cartellone nutrito e variegato che vuole rivolgersi sia ad addetti ai lavori sia al pubblico cittadino, con 12 debutti nazionali e due ospitalità dall’estero. Oltre agli spettacoli si segnala il convegno Teatro è scuola (mercoledì 3) con i rappresentanti del Mibact e Miur, delle Istituzioni Regionali, delle Università, delle Associazioni di categoria e degli operatori di settore e lo storico appuntamento con la consegna degli EOLO AWARDS organizzati dalla rivista di teatro ragazzi Eolo e dedicati a Manuela Fralleone, premi destinati agli spettacoli e agli artisti che si sono distinti nell’ambito del teatro ragazzi.

Abbiamo incontrato le direttrici artistiche Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, chiedendo loro di approfondire alcuni nodi legati a Segnali e in generale alle arti in dialogo con le giovani generazioni.

Segnali è un festival di lungo corso, quali sono le domande che lo nutrono, e come sono cambiate nel tempo?

Renata Coluccini La storia di Segnali è complessa perché il festival nasce innanzitutto come vetrina promossa dalla Regione. Inizialmente, dunque, non era organizzato soltanto da Elsinor e Teatro del Buratto ma anche da altre realtà lombarde. Al di là dell’aspetto di vetrina annuale di produzione, il festival ha sempre voluto rivolgersi a un pubblico ampio pur partendo dalla specificità dello sguardo dei ragazzi. Negli ultimi anni ci sono stati dei ripensamenti strutturali, da un’iniziale sostegno molto forte da parte della Regione, che ha generato tra l’altro un’apertura internazionale del festival, siamo passati a un periodo in cui Elsinor e Teatro del Buratto sono state le sole realtà organizzative. Quest’anno annunciamo il ritorno del sostegno della Regione che si concretizza nel progetto Next – Laboratorio delle idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo, un’iniziativa che si rivolge a un pubblico di adulti ma ospita la parte relativa al settore ragazzi all’interno di Segnali. Pensiamo dunque di poter rimarcare una certa solidità del festival, anche durante i tempi di “crisi”, ottenuta anche grazie al completo appoggio delle compagnie che vi hanno di volta in volta partecipato.

Giuditta Mingucci Nell’edizione che sta per iniziare sperimentiamo una spiccata apertura verso la città, parte di un generale ampliamento e maturazione del festival. Accennavamo prima alla questione del tout public, il nostro volerci rivolgere a tutti: quella del “teatro ragazzi” è una definizione che rischia di chiudere, invece è necessario ribadire come sia una forma d’arte potenzialmente fruibile da qualsiasi tipo di spettatore. Ovviamente i ragazzi rimangono i referenti principali, ma resta “teatro”, dunque una proposta fruibile da diverse collettività; assistere a una replica di teatro ragazzi costituisce un prezioso momento di scambio all’interno delle famiglie o nuclei che si presentano in sala con i bambini, ma anche fra le diverse famiglie. Quella che avviene a teatro è una relazione che accade in ambito artistico e culturale, non in un centro commerciale, luogo di incontro che rischia ormai di restare l’unico per le famiglie, a Milano come altrove.

R. C. Per noi il teatro ragazzi deve essere innanzitutto un atto d’arte con una dimensione educativa. Ne rifuggiamo però una concezione esclusivamente didattica e divulgativa, che sfocia spesso in un atteggiamento didascalico (concezione che a volte viene applicata al teatro in generale). Esiste cioè una sorta di “plusvalore” del teatro ragazzi: si tratta di avere una chiara consapevolezza rispetto al pubblico ma cercando anche gli strumenti per parlare a tutti, di modo che lo spettacolo possa diventare un momento d’arte e, come tale, di comunità e condivisione.

G. M. Il festival non è un luogo in cui gli spettatori sono passivi e gli artisti semplicemente espongono ciò che hanno creato, ma vorrebbe porsi come occasione di un confronto reale, affinché oltre agli strumenti di crescita ed educazione che noi adulti offriamo ai ragazzi si creino le condizioni per capire cosa possiamo imparare noi dai giovanissimi.

R.C. I concetti che sono tornati più spesso nei nostri discorsi sono “responsabilità”, “verità” e “onestà”: parole d’ordine che vediamo come centrali per chi si occupa di teatro ragazzi oggi.

 

In cosa consiste la particolarità dei ragazzi a teatro e in che modo tale particolarità può essere “trascesa” in vista di quell’allargamento a un pubblico più ampio cui fate riferimento?

R. C. Diciamo che ogni operazione di creazione teatrale ha di fronte a sé un pubblico, ideale o reale. Nel nostro caso si tratta di un tipo molto concreto di spettatore e questo implica che non ci si può adagiare su preconcetti o astrazioni, a maggior ragione se pensiamo al fatto che siamo immersi in un’epoca di cambiamenti sociali velocissimi e costanti. È come se per ciascuno spettacolo, al di là ovviamente della professionalità raggiunta, partisse una scommessa inedita perché il pubblico a cui ci rivolgiamo cambia senza sosta. Il teatro ragazzi non ti può far invecchiare, ti costringe a un movimento incessante e non ti consente mai di dire: «Ho acquisito il mio linguaggio e il mio stile e ora lo posso riproporre». Oltre a variare gli spettatori poi variano anche le persone che si occupano dell’infanzia e della cultura in generale con cui devi fare i conti, variano le idee dunque… Non a caso il teatro ragazzi agli inizi si trovava in stretta prossimità col teatro di ricerca. Il teatro ragazzi è o dovrebbe essere ricerca, una ricerca che non può avere fine.

G. M. I ragazzi sono un pubblico particolare perché non hanno alcuna ragione per starti a sentire se non il loro sincero interesse. È dunque un tipo di pubblico estremamente onesto e, proprio per questo, per certi versi difficile. Reagisce molto, magari negativamente, ma riesce a dare tantissimo a chi sta in scena. Ed è molto curioso. Capita a volte che gli adulti vengano a complimentarsi dopo uno spettacolo. I ragazzi invece non ne sentono il bisogno perché sanno di averlo già fatto ampiamente in sala, percepiscono di essere in un contatto molto stretto con gli artisti. Io credo che in questo momento storico la condivisione con i ragazzi sia fondamentale per recuperare il loro sguardo sulla realtà. Un modo di vedere le cose più ingenuo, meno influenzato dall’esperienza, dunque più “pulito” ma anche più “creativo” perché non guidato da sovrastrutture. La condivisione di uno spettacolo fra generazioni diverse diventa allora un momento speciale proprio per questa disomogeneità di esperienze che dà impulsi e spunti ulteriori a tutti.

R. C. Qui torna il concetto del teatro come comunità in cui la diversità riesce a farsi “valore di confronto”. Entrando un po’ nello specifico del programma del festival, abbiamo invitato spettacoli per tutte le fasce di età che comunemente rientrano nella definizione di teatro ragazzi. Siamo riusciti ad abbassare la “soglia di partenza” rivolgendoci anche ai bebè, poi ci sono ovviamente offerte per le altre fasce dei piccolissimi, degli “intermedi” e degli adolescenti.

 

Vista la sua fisionomia, il teatro ragazzi può costituire un’occasione di dialogo intergenerazionale per affrontare le tematiche sociali più complesse. Va “salvaguardato”, protetto, il pubblico di ragazzi e bambini o gli si può mostrare tutto?

G. M. La riflessione sui temi, in particolare quelli considerati socialmente dei tabù, riguarda il teatro ragazzi a livello mondiale. L’Assitej (International Association of Theatre for Children and Young People) negli ultimi anni ha dedicato differenti attività proprio a questo discorso. In generale la risposta è sì, con i ragazzi si può affrontare qualsiasi tematica, chiaramente è necessario trovare le modalità giuste per farlo.

R. C. In questo momento c’è anche da pensare a quanto certi argomenti possano “fare mercato” e attirare un certo tipo di attenzione. Ad ogni modo, è vero: ci sono temi difficilissimi da affrontare con i più piccoli, come la morte, generalmente però non sono i bambini a scappare, ma gli adulti che li accompagnano.

Che tipo di ragionamento e di azioni può mettere in atto una struttura teatrale perché si instaurino relazioni virtuose con chi si occupa della mediazione, con la scuola, le famiglie?

R.C. Il problema oggi non è semplice. Fra l’altro la scuola in alcuni casi subisce le pressioni delle famiglie, può accadere per esempio quando un insegnante fa una scelta rischiosa. Proprio per questo bisogna insistere ancor di più sia nel riprendere un dialogo realmente diverso con la scuola – e io credo sia una necessità condivisa da entrambe le parti – sia nel ripensare i momenti d’incontro che riuniscono questo pubblico eterogeneo, come le repliche domenicali per le famiglie. Non possiamo banalizzare, a volte accusiamo di cecità gli insegnanti perché decidono di non prendere alcuni spettacoli, senza considerare che loro subiscono diverse pressioni o operano scelte legate alle necessità didattiche. È anche vero, però, che secondo me questi sono tempi in cui è urgente riaffrontare certi temi, riparlare di educazione, e non didattica, di responsabilità e di etica (altra parola che mi piacerebbe tornasse nel vocabolario). Educazione al teatro e all’andare a teatro, perché a volte s’è persa anche quella. C’è molto lavoro da fare.

G.M. Il discorso sulla mediazione credo debba tener conto anche di come è strutturato il teatro ragazzi in Italia. Confrontandoci con alcune esperienze europee ci stiamo accorgendo che diversi tentativi vanno nella direzione di sollecitare, soprattutto negli adolescenti, l’attivazione di relazioni autonome con il teatro, e quindi di lasciarli liberi di scegliere cosa vedere. Questo anche perché vengono fatte loro proposte che possono cogliere in autonomia, non legate all’orario scolastico, per esempio, ma a momenti in cui possono muoversi da soli, così come del resto accade per il normale teatro di prosa. Certe questioni riguardano da vicino la struttura che si occupa della proposta e potrebbero essere un’occasione per ripensare approcci, strategie diverse. Con questo festival, sia in fase di programmazione che di promozione, in qualche modo ci abbiamo provato. L’apertura alla città, la scelta di non rivolgere l’invito solo agli operatori cercando il contatto diretto con il pubblico di riferimento, vanno in questa direzione.

 

Siamo giornalmente esposti a forme di intrattenimento culturale fondate sulla velocità di trasmissione e di fruizione. Come può il teatro tener conto di questi ritmi, entrarvi in relazione?

G.M. Credo che il teatro abbia tutto l’interesse e il desiderio di dialogare con questa dimensione. Poi può trovare le forme più diverse per includerla o meno. Senz’altro, però, il teatro ha come specificità il qui e ora, quindi l’incontro; è un gioco che si fa tra attori e pubblico, una parte attiva, anche se con minori responsabilità. Nel qui e ora si dà la possibilità di confrontarsi con questa domanda, che non è detto interessi tutti gli artisti come tematica o strumento (penso all’uso della tecnologia, che è innanzitutto un grande strumento).

R.C. Rispetto ai cambiamenti delle modalità di fruizione secondo me si tratta di questioni di cui chi fa teatro, per necessità, sta tenendo conto. In realtà non mi sembra sia un problema perché il discorso può essere integrato in maniera organica nelle domande che, da artisti, ci poniamo riguardo il linguaggio da usare. C’è una cosa comunque che vorrei dire: chi fa teatro ragazzi, a mio parere, deve partire da un’urgenza comunicativa che a sua volta rispecchi la dimensione comunicativa del pubblico dei ragazzi. È necessario sapere quali sono le istanze che li fanno vibrare, e cercare di “lavorarle” sia sul piano contenutistico che linguistico.

Come fa questa urgenza comunicativa, che quindi si tramuta in linguaggio pensato per i più piccoli, a non lasciare fuori e “funzionare” anche per gli adulti che accompagnano i ragazzi a teatro?

G. M. In generale possiamo dire che il linguaggio funziona se l’adulto ha a che fare quotidianamente con i ragazzi; poi ovviamente può succedere che il lavoro vada a segno sui ragazzi e non sugli adulti, ma questo evidenzia una differenza generazionale e personale.
Il rischio ci può essere ma allo stesso tempo è un’occasione per interrogarsi: portare il proprio figlio o i propri alunni a vedere qualcosa che entusiasma i giovanissimi ma non gli adulti può rappresentare l’apertura di un dialogo sulle ragioni che portano le due generazioni a sentire qualcosa vicino o distante. Inoltre gli spettacoli vengono costruiti su più livelli: basti guardare per esempio ai film di animazione che sembrano pensati per i bambini e di fatto sono rivolti agli adulti che li accompagnano… ma pensiamo anche al teatro greco in cui la commedia presentava diversi livelli di lettura andando dalla comicità più popolare a quella ideata per un pubblico dotato di una comprensione più raffinata.

 


Riannodando un po’ i fili della conversazione, e senza pretendere di essere esaustivi, vorremmo chiedervi se secondo voi sono ravvisabili delle tendenze estetiche e poetiche negli ultimi anni…

G. M. Sicuramente ce ne sono – penso al tipo di interpretazione, per esempio – ma non è una domanda facile a cui rispondere; da un lato faccio fatica, dall’altro non vorrei proprio rispondere per non ingabbiare alcune specificità che si trovano nel teatro ragazzi italiano che ha anime diverse…

R.C. Per esempio un fattore comune può essere rappresentato dall’utilizzo delle nuove tecnologie… Ma per aggiungere altro ci devo pensare almeno 2 o 3 giorni! (ride, ndr).
Quest’anno facendo le scelte artistiche mi sono posta diverse domande a cui non ho ancora dato delle risposte; preferirei coltivarle ancora un po’. A volte si scelgono gli spettacoli dicendo: «Questo è per il festival, questo no anche se…». A mio parere il teatro ragazzi è andato avanti per anni senza porsi troppe domande ed è arrivato il momento in cui tutti torniamo a porcele, in maniera profonda. È necessario coinvolgere altri sguardi e persone che mettano in discussione il sistema, perché il rischio è diventare una famiglia in cui tutti si conoscono, dando per scontate alcune cose, impedendoci di mantenere uno sguardo aperto.

G. M. In questo momento, generazioni diverse abitano il teatro ragazzi, lo portano avanti e vi si confrontano. È un momento di grande apertura rispetto all’estero, è in atto un confronto anche con quanto accade in altri Paesi che sta portando a interrogarci sul nostro stesso modo di operare, manifestando altre possibilità. È una sfida che riguarda più settori, non solo il nostro.
R.C. Spostare lo sguardo per tornare al proprio punto di vista o per andare altrove è fondamentale. Io faccio parte della “vecchia guardia” del teatro ragazzi e posso dire che nei primi anni si avvertiva ed era in atto un confronto che è andato via via sparendo, lasciando spazio alle esigenze del mercato, alle urgenze più aziendali che artistiche…

G. M. Quando poi si trova un linguaggio comune o dei punti su cui ci si intende, ci si ritrova a darli per scontati…

R.C. Una delle mancanze di una certa generazione è non aver tramandato la storia di quello che è accaduto. Le conoscenze, gli stili, i modi, le visioni sono state trasmesse solo in minima parte alle generazioni successive.

G. M. Le generazioni successive servono a fare delle domande! A mettere in crisi le cose.

 

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Carlotta Tringali