La dura verità della fiaba. Terza istantanea da Teatro fra le Generazioni

Nel corso di questo ultimo giorno di festival, ha colpito soprattutto la necessità di un teatro che potesse definirsi tout-public, cioè adatto a tutte le fasce d’età e quindi stratificato e leggibile a più livelli. Sappiamo, tuttavia, che differenziare le fasce d’età resta un importante e fondamentale compito per coloro che decidono di definire il proprio teatro in base al destinatario al quale si rivolgono, se è vero che esiste un’istanza pedagogica nel teatro ragazzi. Come diventa possibile, allora, realizzare spettacoli che possano davvero riattivare un immaginario collettivo, spettacoli in cui tutti i piani della rappresentazione risuonino in ognuno degli spettatori, anche se in modo diverso, evitando di strizzare l’occhio ora agli adulti ora ai bambini con facili trovate?
Crediamo che una risposta possibile sia arrivata dal drammaturgo Francesco Niccolini con Digiunando davanti al mare e dal regista Michelangelo Campanale con la sua Biancaneve, la vera storia. I due spettacoli hanno in comune il desiderio di suscitare negli spettatori lo stupore che, se per i bambini è un naturale rapportarsi con il mondo, per gli adulti diventa la possibilità di recuperare la scintilla dell’infanzia.
E quale racconto si presta più di tutti a generare questo effetto se non la fiaba, che nasce notoriamente per parlare agli adulti per poi invece addolcirsi, creando come effetto secondario la dannosissima credenza per cui esisterebbero argomenti inadatti ai bambini, dei temi-tabù?

Michelangelo Campanale si smarca da questo modo comune di pensare e lo dichiara apertamente nel titolo dello spettacolo: ci parlerà della vera storia di Biancaneve recuperando l’idea della fiaba come magistra vitae e per questo sincera e senza veli dietro i quali nascondere ciò che non vogliamo vedere. Una bambina dimenticata dalla madre, troppo occupata a curarsi della propria bellezza. Una madre-matrigna che offrirà alla figlia la mela avvelenata, dopo aver già tentato di liberarsene più volte: la gelosia diventa più forte dell’amore materno. Un messaggio duro, ma “è la verità”, continua a dirci l’ultimo dei sette nani che è sempre in scena ad assicurarsi che tutto vada come deve andare, perché la vita, per quanto possa essere difficile da accettare, è fatta anche di dolore e di cattiveria.
Il teatro “immersivo” di Campanale prende per mano lo sguardo dello spettatore e corre insieme a lui attraverso la storia, un galoppare mozzafiato tra grandi apparati scenografici, luci forti e cangianti che raccontano gli umori dello spettacolo e all’improvviso una musica, quando tutto rallenta o si ferma, a sottolineare momenti culminanti o gesti simbolici, come il dono mortale della mela. Adulti e bambini condividono lo stupore che arriva da questo spaesamento, da questo tuffo che coglie impreparati, finché non si “prende” la temperatura dell’acqua e si nuota insieme.
Il teatro di Campanale, infatti, come lui stesso dichiara, mutua dal cinema elementi visivi e sonori, affinché ogni spettatore possa essere raggiunto e comprendere e sentire in base al linguaggio che più lo rappresenta.


Digiunando davanti al mare è uno spettacolo che invece segue il flusso pacato della narrazione, che procede per guizzi improvvisi e momenti di puro ascolto e contemplazione. Giuseppe Semeraro, eccezionalmente nei panni di narratore, ora nelle vesti di Danilo Dolci, ora in quelle di un personaggio vivace e sopra le righe come ‘Zimbrogli’, che sembra descrivere con i suoi modi e con la stessa storia della sua vita la Sicilia intera, ci regala una grande prova d’attore. La drammaturgia di Francesco Niccolini offre un quadro molto suggestivo della Sicilia degli anni Cinquanta, una terra povera, in cui l’unico estremo atto di protesta può essere solo quello di continuare a digiunare, ma davanti a tutti, davanti al mare, pacificamente, con la musica di Bach come sottofondo. Danilo Dolci, poeta, intellettuale e pedagogo, prende a cuore quella terra e inizia a combattere per i diritti degli ultimi, pescatori, disoccupati, contadini, per scuotere l’Italia tutta ricordando che uno dei principi della Costituzione riguarda il lavoro, come diritto, ma anche come dovere. Ed è per questo che il grande movimento popolare creato da Dolci sfocerà nello “sciopero alla rovescia” durante il quale i disoccupati lavorano gratuitamente per la collettività. Una manifestazione pacifica che però porterà all’arresto, tra gli altri, di Dolci e successivamente ad un processo che non si risolverà a favore dei fautori della manifestazione.
Una storia, dunque, una fiaba senza lieto fine, ma che ci tiene tutti raccolti intorno al fuoco, mentre la voce di Semeraro, flebilmente illuminato dalle luci di scena, cambia tono e potenza e lingua. È il teatro di narrazione, senza artifici, nudo e ancestrale. Lo stupore del pubblico viene dalla possibilità di concedersi un momento di sospensione dalla realtà pur immergendosi completamente in essa. Non si può far altro che “stare insieme alle cose” come direbbe Marco Baliani rispetto alla sua esperienza di narratore.
È il corpo del narratore che parla, che si trasforma e ci mostra la fame, la dignità, la forza, la sofferenza. È un gioco fisico e sensoriale di “andata e ritorno” dal narratore al personaggio. Gli spettatori non possono fare altro che cedere all’abbraccio della narrazione, che ci riporta al gesto più antico e naturale che conosciamo, un gesto che ha la forza del rito e che è quindi rivolto a tutti: l’ascolto.

Nella Califano




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




L’istinto dello spettatore bambino. Intervista a Michelangelo Campanale

Abbiamo visto Biancaneve, la vera storia, prodotto dal Crest di Taranto con testo e regia di Michelangelo Campanale. Abbiamo intervistato questo artista attorno al suo processo creativo e all’esigenza di fare teatro per un pubblico di bambini.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

Nel teatro delle nuove generazioni sento che c’è ancora il teatro. Nel teatro ragazzi il confronto è alla pari, è onesto, ti fa capire che le famiglie hanno bisogno di grande rispetto. Per questo è giusto affrontare il teatro ragazzi con molta meticolosità nel tentativo di portare il linguaggio del teatro per intero. Guardando mia figlia e il rapporto con la scuola, credo che il problema sia che oggi si affronta un solo linguaggio, quello verbale. Il teatro ha di certo il linguaggio verbale e forse uno dei principali problemi di oggi in Italia è che spesso solo quel livello viene considerato. Eppure i bambini hanno ancora tutti i linguaggi pronti, il punto è svilupparli: il teatro ti dà questa possibilità. È capace di inglobarli tutti, compresi cinema e nuove tecnologie. C’è la parola, sì, ma c’è l’immagine, la pittura, la luce, i costumi, le scenografie.
Si tratta di un passaggio fondamentale: in teatro si ha la possibilità di dimostrare ai bambini che non esiste solo la parte verbale e che la drammaturgia non è solo questo. Non è solo la parola, è anche la parola, tutto quanto deve arrivare insieme. Per me è importante, specialmente lavorando con le fiabe, comprendere che i discorsi vengono veicolati non solo dicendoli ma anche mostrandoli, mettendo un elemento accanto all’altro. Nella fiaba, un archetipo può essere forte nel momento in cui semplicemente arriva allo spettatore, non solo indicando le cose e chiamandole con il loro nome, per capirci, non solo dicendo che il fuoco brucia, ma dimostrando questa realtà attraverso tutti i linguaggi. Io, che ho un problema di dislessia, ho avuto difficoltà proprio in questo, non potevo passare soltanto attraverso la parola, dovevo arrivarci in qualche altra maniera.  Se la drammaturgia ospita tutti i linguaggi allora prorompe completamente la forza che deve avere il teatro.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Come è possibile evitare il didattismo? Come il vostro lavoro riesce a non limitarsi a insegnare ma invece riesce ad accogliere delle istanze dentro la consegna di una visione?

Mi piace sempre lasciare che uno spettacolo abbia molte interpretazioni. Se lavoro spesso con la fiaba è perché la fiaba è antica, ed è stata scremata dal tempo; ha poche parole, ma sono quelle giuste, e – se aperta il più possibile e se viene il più possibile rispettata – mette sempre le persone in discussione. Spesso, nei miei spettacoli, mi capita che per la stessa scena gli spettatori piangano o si arrabbino. Nella maggior parte dei casi non è perché lo scelga veramente, ma perché raccontando la fiaba fino in fondo, portando il racconto alla radice, guardando la fiaba anche dal punto di vista antropologico, questa muove elementi di cui io stesso non sono consapevole. Se si vuole fare arrivare un certo messaggio è secondo me importante lasciare alcune ambiguità, in modo che lo spettatore bambino possa lasciar agire il proprio istinto.

Parlando de Biancaneve, la vera storia, ho trovato molto forte l’idea dello specchio come figura che divide due metà: quella della madre e della figlia, che per tutta la drammaturgia non fanno che inseguirsi in una somiglianza. Mi sembra un tema molto attuale. Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Io vorrei sempre tentare di non essere retorico. E dirselo è già sbagliato. Penso che se ci si mette al servizio del racconto si scoprono i suoi elementi. Ad esempio, l’idea di lavorare su Biancaneve è venuta osservando mia moglie e mia figlia a tavola. Nelle piccole cose mi sono reso conto che quello è un luogo di battaglia, dove si può decidere tutto: io ti ho dato la vita, ma posso darti anche la morte. Nella crescita ti rendi conto che quell’intimità è importante. Ho osservato tutti gli allievi che ho conosciuto nei laboratori che la mia compagnia – La Luna nel letto – conduce e tutte le persone che in questi venti anni hanno lavorato con me, incontrando – a stretto contatto anche con la psicologa che segue tutti i miei lavori – anche persone affette da anoressia o bulimia. A un certo punto Biancaneve racconta della madre e ho scritto il testo pensando proprio a questo: «Ci sono madri che possono dare alla luce e madri che possono spegnere la luce».
Ho tante persone in compagnia e ho visto quanto le madri entrino in confusione proprio a tavola; le lotte di potere arrivano proprio lì, se il bambino non vuol mangiare, ad esempio. Siccome quello è un fatto istintivo, il bambino riconosce tale dinamica ed è lì che nasce il ricatto, il potere. È lì che, se le carte non vengono giocate bene, può succedere un guaio.

Il potere è al centro della tua lettura, dunque…

È difficile inquadrare Biancaneve, perché è una fiaba così piena di materiali che non voglio costringerla al solo ragionamento sul potere. Però questo è un tema a cui sono molto legato. Io mi sono innamorato di Il trono di spade, ci sono infatti anche molti riferimenti nei costumi. In una delle prime puntate un grande re spiega a un ragazzino che si appresta a governare che cosa sia il potere. È molto affascinante. Il potere tra la madre e la figlia è complesso, perché tutto il lavoro sta sulle piccole cose, i ricatti si muovono sui dettagli. Io ho visto ragazzine distrutte dalle madri. E allora ho pensato che di attuale c’è questo. Tuttavia sento il bisogno di tenere un’ambiguità sul ruolo della madre. Tutti i bambini, quando per alzata di mano faccio questa domanda, per difendersi dicono che quella madre è una “matrigna”. L’escamotage della parrucca che cambia spinge i bambini a identificare un passaggio da madre a matrigna, la vedono diversa da quella che è all’inizio. Però, voglio dire, pensiamo a Medea, una storia che arriva da molto lontano. Quante madri, in senso metaforico o reale, uccidono i propri figli? I bambini non possono sopportare questa idea, però nella storia originale – non quella dei Grimm – pare che quella matrigna sia invece proprio la madre di Biancaneve. Io tengo quell’ambiguità, ho tolto la battuta che chiariva questo passaggio, su consiglio della psicologa, e ora ognuno ci vede quello che vuole.

Anche il rapporto con il cibo è a mio modo di vedere molto attuale. Quella battuta della madre – «Mastica e ingoia» – è presa fedelmente da una conversazione udita in un ristorante, era una madre a parlare alla figlia. Quell’«ingoia» riduce a qualcosa di meccanico un atto conviviale. Infine, il tema dell’invidia: quante madri si vestono come le figlie e non vogliono invecchiare? Nella scena finale abbiamo inserito Sei bellissima di Loredana Bertè. Quella canzone è meravigliosa perché quel suo conflitto con Dio, sulla bellezza che lei pure aveva da giovane, l’ha portata a quello che è oggi, lei è proprio una strega. Bertè avrebbe dovuto morire a 27 anni come tutti i cantanti rock maledetti, sarebbe stato un mito, perché lì senti proprio lo struggimento e la potenza di questa artista; quel testo, allora, diventa giusto per quella scena, si tratta di simboli che identificano il rapporto delle madri con l’invecchiamento e la perdita della bellezza.
L’attualità sta anche nell’ultima battuta. Adesso si parla di immigrazione e della tragedia dei profughi bambini. Io dico ai bambini spettatori che sono già fortunati per il fatto di essere nati in Europa e non in un paese in guerra, sono fortunati di trovarsi ora in un teatro. Noi raccontiamo di un bambino (il nano Cucciolo, ndr) che ha conosciuto Biancaneve, ma quando siamo andati a fare ricerca sulla fiaba originale abbiamo scoperto che nella foresta dello Spessart, in Germania, dove è ambientata, fino a poco tempo fa nelle miniere non lavoravano solo i nani, ma anche i bambini.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale è sempre più rapido e incontrollabile. Come tieni conto di questi nuovi ritmi? Può il teatro entrare in relazione con quei ritmi?

Se c’è rispetto dell’arte teatrale intesa come artigianato, che nel corso dei secoli ha inglobato praticamente tutti i linguaggi, allora sarà di per sé già in dialogo, in confronto con il modo contemporaneo di comunicare.
La mia compagnia ha da poco prodotto un allestimento de L’abito nuovo, testo scritto da Pirandello e De Filippo. In questo testo si vede proprio la differenza tra i due: il secondo ha respirato il palcoscenico, è nato lì sopra, infatti c’è stato un conflitto da un teorico e un pratico. Le parole di De Filippo parlavano al pubblico, non sempre anche quelle di Pirandello. De Filippo si domandava sempre come e soprattutto perché dire questa o quella battuta. Aveva 30 anni quando ha scritto quel testo insieme a un Premio Nobel.
Dunque dico che se si porta la sapienza del teatro con tutti i suoi linguaggi, basta quello.
Nello spettacolo ho voluto lasciare momenti di silenzio assoluto, di ritmo basso, ma se c’è tensione quella tensione se la godono tutti. In Biancaneve c’è una scena in cui la protagonista si avvicina lentamente alla mela offerta dalla madre e in tutte le repliche si produce a un’attenzione assoluta, un assoluto silenzio.
Il teatro è allora un’occasione per impostare un ritmo alternativo, ma non puoi non tenere conto del modo in cui gli spettatori sono abituati a interagire. Per me il contatto con i bambini è fondamentale nei laboratori, proprio per capire quali sono le domande, di che cosa bisogna parlare, che cosa bisogna studiare approfonditamente. E nei laboratori e nelle prime presentazioni al pubblico devo immediatamente capire che ritmo hanno i bambini, un ritmo che cambia di anno in anno e che ha bisogno di una precisa qualità dell’attenzione, che va creata. Devi misurarla con loro, che possono essere molto più onesti e diretti degli adulti. Allora i ritmi dello spettacolo si assestano facendolo, la tensione va creata ogni volta, devi capirlo insieme a loro.
La bellezza è che i bambini, interrogati, ti rispondono in maniera diretta dicendo che si annoiano, quella è la bellezza del teatro ragazzi. Torno qui alla prima domanda. Io faccio anche regie di prosa, ma non è la stessa cosa. Qui incontri il pubblico, senza nessuna costruzione dietro, incontri persone che non sono mai entrate in un teatro. Alle domenicali trovi bambini, genitori e nonni, tre generazioni di spettatori nella stessa platea. È lì che respiri il teatro, è la più grande soddisfazione.

 

Sergio Lo Gatto




Quanto teatro c’è nel teatro ragazzi? Prima istantanea da Maggio all’infanzia

Maggio all’Infanzia è molto più di un festival, è un denso momento di ritrovo per un intero ambiente. Sotto un sole incandescente ma temperato dalla brezza spinta avanti dal mare, artisti, operatori e spettatori più o meno giovani si incontrano attorno a una programmazione fitta di spettacoli e attività collaterali (dal 18 al 21 maggio 2017). Non è facile, dunque, dare conto di questa fervida attività, anche perché il ritmo altissimo porta chi attraversi il festival a confrontarsi in breve tempo con una pluralità di linguaggi, di stili, di urgenze tematiche e modalità di presentazione.
In questa prima istantanea da Bari, allora, sperimentiamo un approccio che dai singoli spettacoli parte e che a essi ritorna, ma tenendo come bussole alcune istanze generali che possono forse stimolare un ragionamento più ampio.

Altrove, soprattutto di fronte a quegli spettacoli che portano temi controversi e che introducono svolte di semantica non del tutto pacificate, ci siamo trovati in passato a domandarci se del teatro venga realmente evidenziata la capacità di offrire una lente caleidoscopica, complessa e stratificata.
Tutti gli elementi che lo caratterizzano – la fruizione collettiva, l’insieme di rituali che lo rendono un evento di socialità, ma anche la straordinaria universalità dei linguaggi – sono di per sé garanti di opportunità di comunicazione ogni volta nuove, in potenza mai davvero prevedibili.
Cerchiamo qui di osservare come i primi spettacoli visti siano aperti a misurarsi con tutto lo spettro della teatralità.

 

 

Lo Schiaccianoci Swing, immaginato da Cosimo Severo per la Bottega degli Apocrifi, riesce davvero a catturare anche i più piccoli, proponendo un ingegnoso miscuglio di performance musicale e teatro fisico. La fiaba originaria di E.T.A. Hoffmann si tramuta in un lungo sogno dadaista, riorganizzato in uno spazio ampio e ben disegnato, con uno schermo di tela e di alluminio, una poltrona che corre su ruote dove si addormenta la piccola Marie. Nell’animarsi, i giocattoli finiscono preda di una sorta di incantesimo che – e lo si capisce nelle note di contrabbasso, percussioni, chitarra e violino e nel modo in cui vengono suonate – minaccia continuamente di mandarli in mille pezzi. L’attenzione degli spettatori – una platea gremita nella sala grande del Kismet – è tenuta da un semplice ma raffinato gioco di luci e controluci, da un utilizzo ritmico e però garbato dello spazio, anche aiutato da una giusta prossemica. In questo tentativo di transizione di linguaggio (da fiaba a concerto) si ripensa in maniera originale lo schema drammaturgico (di Stefania Marrone), si sfruttano gli strumenti del teatro per guidare anche in un’appuntita ricerca musicale, che spazia di genere in genere e finisce per farsi parola.

Per certi versi simile è Biancaneve, la vera storia, il progetto del Crest che produce un allestimento di Michelangelo Campanale pronto a riconsegnare in una nuova veste la figura complessa di Biancaneve. Il punto di partenza è la fiaba originale tedesca, ben lontana dalla “messa in zucchero” di Walt Disney del 1937 (sbeffeggiata nella prima scena) e invece orbitante in un universo cupo e poco rassicurante. Qui la matrigna vanitosa è prima di tutto una madre, che sceglie di ripudiare la figlia per il timore che le usurpi il trono della bellezza. La storia è narrata da uno dei sette nani, ed è mirabile l’uso della struttura drammaturgica, divisa in sette racconti (uno per nano), in grado di regalare al pubblico gli strumenti per dividere cognitivamente sequenze e durata del racconto. Il tema della dualità aspetto esteriore/aspetto interiore (come dire superficie e profondità) è trattato, insieme a un fine ragionamento sul potere, con garbo ed eleganza, anche qui facendo leva sulla sapiente creazione di uno spazio di “maraviglia”, semplice ma efficace, come in molte scene curate in passato da Campanale. Se c’è una piccola resa alla retorica sta nel messaggio lanciato al giovane spettatore, che nell’epilogo viene distanziato e rimesso al sicuro, come se una storia di abbandono così terribile non potesse davvero riguardarlo. Ma in un ritmo incalzante ma non forsennato trovano posto una accanto all’altro comicità e lirismo, si può parlare di morte e di paura, di cattiveria umana e di redenzione.

La questione se i mezzi del teatro ricevano o meno giustizia è materia anche per altri tre lavori visti in questa prima giornata, messi a punto non certo con sciatteria, ma in qualche modo legati da una sorta di compressione delle possibilità.

Quelle ragazze ribelli del Teatro Due Mondi sceglie il teatro per ragionare sulla necessità di opporsi alle «convenzioni, discriminazioni, stereotipi culturali», espressa da cinque donne, diverse per provenienza e per momento storico vissuto. Nelle note si parla di «conferenza spettacolo»: e in effetti la modalità didattica è chiara fin da subito, dall’uso dello spazio, liberato per ospitare solo uno schermo bianco, dove a volte corrono ombre e sagome. Il resto dell’azione è un dialogo con la Storia, apparentemente distaccato, e tuttavia reso più personale dall’effettiva impersonificazione delle due con i vari personaggi. Si tratta certo di simboli più che di personaggi, ma proprio questa minuzia di rappresentazione (soprattutto nell’anziana “staffetta” che ricorda gli scampati pericoli nel passare le informazioni ai partigiani), pur se temperata con l’ironia, rende meno chiara l’impostazione generale. L’abbondanza di esempi, che necessita ogni volta di una spiegazione da zero del contesto spesso gravida di termini complessi, finisce per sovraccaricare di informazioni i piccoli spettatori, senza fornire loro indicazioni di linguaggio sufficientemente coerenti. Allora, pur essendo da lodare il tentativo di approcciare temi complessi, la Resistenza, le proteste punk delle Pussy Riot e una crociata individuale contro la segregazione razziale vengono consegnate all’interno di un sistema di segni non sufficientemente chiaro, che tenta di far rientrare nello schema conferenza un vortice di linguaggi, rischiando di appiattire le profonde differenze di contesto tra gli esempi scelti e lasciando l’archetipo “girl power” come unico appiglio.

L’arco di Atalanta di Luna Comica, in scena alla Casa di Pulcinella, riprende il tema della «eroina in mezzo agli eroi» poggiando sulla scrittura di Gianni Rodari e sul corpo e la voce di Carla De Girolamo. La trama mitologica che fa da colonna è già per sé molto densa e ricca di riferimenti culturali, geografici e tematici. Se nelle prime sequenze il gesto pulito e la voce presente dell’attrice riescono a tenere insieme l’attenzione dello spettatore, è quando da un’avventura si entra nell’altra che il corpo – pur esperto nel gestire la centralità del palco – sembra non bastare più. Il linguaggio della narrazione finisce per plasmarsi troppo sulle cadenze dialettali utili a differenziare i personaggi, dimenticando come le proprietà trasformative degli oggetti e della figura e il disegno delle luci possano essere fondamentali nell’architettura del racconto teatrale. Pur se solide appaiono certe posture dello scheletro e certe inflessioni della voce, il ritmo si appiattisce in una storia troppo ancora ancorata al respiro della letteratura.

 

Le Manifatture Teatrali Milanesi producono invece un interessante «kit didattico» attorno al loro L’arte della menzogna, un monologo scritto da Valeria Cavalli e da lei diretto con Claudio Intropido. I destinatari sono gli insegnanti, sponda per i riceventi primari, gli alunni. Il tema dell’omosessualità è associato alla difficoltà di posizionare un’identità complessa dentro a un mondo che pare organizzare le proprie conoscenze sul principio di riconoscibilità. Il generoso lavoro dell’attore, Andrea Robbiano, consegna al pubblico dai 12 anni in su una narrazione in prima persona che attraversa il vissuto di un giovane milanese tormentato – fin dalla prima adolescenza – da una straordinaria capacità di mentire, risolta solo nell’ultima frase, quando Diego riesce a confessare al padre, severo carabiniere, il suo “peccato originale”. Ma per farlo dovrà prima vomitare tutte le bugie accumulate sullo stomaco, una per ogni importante scelta di vita, dallo sport preferito alla carriera nell’Arma.
È dunque interessante, da un punto di vista drammaturgico, questa sorta di “effetto domino” che, innescato da una giustapposizione di compromessi verso una società conformista, srotola d’un tratto un’intera coscienza. Le perplessità restano però riguardo alla messa in opera del linguaggio teatrale. Se il kit didattico è curato nel dettaglio e disegna uno schema di contatto che dimostra di conoscere alla perfezione il destinatario, la scelta di incaricare un solo attore di un’autobiografia incespica con l’idea di partenza. La definizione di un’identità complessa si realizza qui a contatto con altre identità molto più bidimensionali, proiettando sul lavoro fisico e vocale un mondo interno che non contempla a fondo le ragioni di certe chiusure mentali. Se pur originale è la messa in musica di certi passaggi dentro una narrazione cantata e suonata alla chitarra, la catarsi del personaggio – presentato fin dal principio come fiancheggiatore degli spettatori che a propria volta chiede comprensione – resta allora imprigionata dentro la fatica (emotiva e fisica) del protagonista. Questi accentra su di sé l’attenzione in una narrazione fortemente didattica, a tratti a rischio di non problematizzare a sufficienza il punto di vista contro il quale quella verità rivelata vorrebbe ergersi.

 

Sergio Lo Gatto