Ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Intervista con Beatrice Baruffini

Proviamo a ritessere i fili di una riflessione più ampia sul teatro per e con l’infanzia e, in generale, su quei nodi tematici e di senso che riguardano la “dimensione dell’infanzia” nel suo intero. Guardiamo al rapporto fra infanzia e arte, non solo infanzia e teatro, e più in generale fra arte e giovinezza attraverso le voci di chi si  confronta con tali dimensioni attraversandole con il suo percorso artistico ed esistenziale o analizzandole dal punto di vista teorico.
Pubblichiamo a seguire le riflessioni di Beatrice Baruffini, attrice e autrice del Teatro delle Briciole. L’inchiesta completa, in costante aggiornamento, si può raggiungere seguendo questo link

Cosa trovate, cosa vi spinge, cosa vi muove, nel teatro che dialoga con le nuove generazioni? Che cosa ci vorreste trovare? Di quale teatro per le nuove generazioni abbiamo bisogno, oggi?

Mi sono avvicinata all’infanzia con fare cauto, in silenzio, con grande rispetto. Poi sono rimasta lì, perché in quel luogo, in quel modo di essere, con quegli occhi, mi sono sentita bene. Mi sono trovata. Si riconoscono subito gli sguardi di chi è consapevole che non sarebbe potuto nascere altrove. Questo non significa che debba restare per sempre lì. Tutt’altro. Un teatro che dialoga con l’infanzia, non arriva solo a chi è bambino in quel preciso istante, ma tocca tutti: ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Per l’adulto questo teatro ha il compito di dissotterrare tali tracce, recuperarle, ricordargliele. Per farlo bisogna essere fedeli all’infanzia, non tradirla, non giudicarla, non presupporre di averla compresa. L’infanzia è, e deve essere, nostra complice nella creazione del mondo, nella ricerca del sapere, insieme ci facciamo testimoni del presente. Di questo abbiamo bisogno: di un teatro che consideri il pubblico suo complice per poter agire. Un teatro onesto dunque, coraggioso, che si prenda cura della relazione che crea, resistente, profondo, meraviglioso, che parli a tutti.

Volendo intendere il didattismo come una trasmissione cattedratica del sapere, unidirezionale, il teatro ha per propria missione la vocazione al coinvolgimento. Come il vostro lavoro riesce a tradurre l’uno nell’altro? Quindi a non dare l’idea di insegnare ma accogliere in una visione?

Questo succede naturalmente se si considera questo teatro arte e non insegnamento. Sono due cose ben distinte. Le visioni nascono a volte da intuizioni, a volte da contenuti, da racconti, e ci si innamora di essi per diversi motivi. Ci attraggono, ci mandano in crisi, suscitano continui interrogativi, ci appassionano. Ci spaventano. Non insegnano mai, non danno risposte, anzi, devono fare esattamente il contrario. Se questa materia viene scelta, trattata, trasformata, modificata, ripensata, ricreata è perché c’è una necessità artistica forte di farlo, ma non dobbiamo essere noi, noi autori, noi creatori, a decidere che a volte, quella materia, trasformata in teatro, insegna anche qualcosa.

Come i temi problematici della contemporaneità possono entrare negli spettacoli e quali strategie possono essere messe in atto per la loro salvaguardia verso un pubblico così particolare?

Credo non si possa evitare il presente: è dappertutto. Sarebbe come far finta di niente, non prendervi parte, non reagire, disinteressarsi. Il teatro ha il compito di chiedere al presente e se per il teatro d’infanzia il presente è bambino, è delicato, fragile, nuovo, è a volte per la prima volta, non potrà fare a meno di farsi custode attento, garbato, gentile. Nel teatro il presente entra sempre, per sua vocazione: è un atto di resistenza, un tentativo di afferrarlo e di sviscerarlo, anche quando lo fa attraverso una favola, una fiaba, una storia antica. Non dobbiamo avere il timore di mostrare paure e incertezze, dobbiamo solo trovare le parole giuste per raccontarle.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come tenete conto nella creazione di questi nuovi ritmi del contemporaneo? Più in generale come può il teatro entrare in relazione con essi?

Non possiamo fare a meno di confrontarci con questi ritmi, dobbiamo capirli, studiarli, perché solo in questo modo li possiamo usare: per portare l’attenzione dove desideriamo oppure, per sovvertirli.
Spero di non trovare mai nulla, perché questo significherebbe avere in mano delle risposte, supporre di sapere, avere chiara la direzione. Finirebbe tutto.




Alla riconquista del futuro: quinta istantanea da Segnali

Racconto alla rovescia di Momom e Nido di Teatro Telaio
Se la vita è un conto alla rovescia, allora la morte è la regina dei conti alla rovescia. Ma cosa accade quando il contare si trasforma in un raccontare? Racconto alla rovescia della compagnia Momom, che narra l’incontro del piccolo Arturo con una Morte più ironica che temibile, ruota attorno a un cambio di prospettiva: il conto alla rovescia non è la fine di qualcosa bensì il tempo per fare qualcosa. A capirlo è proprio il curioso Arturo che, aprendo uno alla volta i doni della Morte con un conto alla rovescia del pubblico in sala, riscopre il suo piccolo ma ricco bagaglio di esperienze: il tempo impiegato per capire il significato del sì e del no, quello per capire che si è uguali ma anche diversi dagli altri, il tempo per fare silenzio. All’apertura di ogni regalo le parole del narratore, e unico attore in scena, Claudio Milani si interrompono per dare spazio a corde, palloncini, fiori e farfalle che, interagendo con il protagonista, raccontano per metafora l’insegnamento di Arturo. Narrazione e linguaggi visivi si alternano sistematicamente sul palcoscenico, dando vita a una fiaba contemporanea, ironica e poetica, per sua stessa natura accessibile, a più livelli e in modi differenti, a tutto il pubblico in sala.

 


Di un linguaggio non verbale (fatto di gesti e di un fischietto/richiamo per uccelli) si serve anche la compagnia Teatro Telaio per Nido, terzo spettacolo della “trilogia degli affetti” che nei due capitoli precedenti, sempre senza l’utilizzo della parola, raccontava ai bambini l’amicizia (Storia di un bambino e di un pinguino) e l’innamoramento (Abbracci). Due uccellini, alle prese con il loro primo uovo, cercano in tutti i modi il luogo adeguato per proteggere il prezioso dono. Al centro del palco un complicato nido che gli uccellini, con bastoncini di legno, costruiscono e ricostruiscono per tutta la durata dello spettacolo: lunghissime pagine di istruzioni, litigate, capricci, colpi di genio e richieste di aiuto da parte degli amici, per arrivare a rendersi conto che alla fine ciò che serviva era sempre stato lì, a portata di mano. Con delicatezza lo spettacolo racconta ai più piccoli non solo le difficoltà, i tempi e la felicità di diventare genitori, ma, più in generale, il faticoso percorso per realizzare qualcosa di importante: la costruzione (nello spettacolo concreta e centrale) necessita di tempo, di impegno e di moltissimi tentativi. (c.l.)

Ok Robot di Teatro delle Briciole
La fantascienza è un genere letterario tra i più significativi del Novecento, anche se in Italia solo da una ventina d’anni si considera culturalmente rilevante. Eppure autori come Wells (da rileggersi La macchina del tempo nella bellissima traduzione di Michele Mari appena uscita), Asimov o, più di recente, Vonnegut o Dick o Ballard hanno influenzato moltissimo il nostro immaginario e sono autori che si prestano bene ad essere letti in classe, perché offrono moltissimi spunti. Sono, come si diceva un tempo, ricchi di “immaginazione sociologica”. Ci si interroga su cosa sarà l’uomo e il mondo in un prossimo o remoto futuro per capire qualcosa in più di chi siamo oggi. Il cinema è stato, e continua ad essere, l’alleato più forte della fantascienza, anche se spesso gli esiti sono tristemente appiattiti sugli effetti speciali e di poca sostanza. Il teatro ha fatto sempre più fatica a immergersi nella fantascienza, anche se, per un’area della ricerca, certe opere e alcuni autori sono stati molto citati e masticati, con esiti spesso felici. È questa solo una premessa per dire che Io robot del Teatro delle Briciole, per la regia di Beatrice Baruffini, è molto interessante, anche per quanto concerne la tematica scelta. Il nostro presente, come disse Ballard pochi anni prima di morire, è ormai già intessuto di futuro e i cambiamenti sono così rapidi che diventa difficilissimo fare previsioni o immaginare altri orizzonti. Compiere un “esercizio di futuro”, in relazione ai cambiamenti già in atto, è utilissimo per mantenere vivo quello sforzo di “prefigurazione” che è alla base sia del discorso educativo, sia dell’analisi critica. Siamo tutti immersi nella rivoluzione digitale/robotica e il rapporto tra tecnologia e infanzia si trova ad essere sempre più discusso (vedi i vari interventi ad esempio di Franco Lorenzoni).

Lo spettacolo sceglie come protagonisti due robot dell’ultima generazione, che capitano in un luogo che non conoscono e che poi scoprono essere la “pancia della grande ruspa”. Non sanno perché sono stati scartati. Tutto funziona correttamente. In questo strano luogo incontrano altri due prototipi di robot: prima una sorta di “casco virtuale” che fa loro girare la testa, come una droga o un sogno indotto, poi un piccolo robottino degli anni venti, un po’ giocattolo, un po’ da museo meccanico. L’idea è bella. C’è una prospettiva anche temporale della tecnologia che, seppure per piccoli tratti, offre la possibilità di ragionare su una “storia delle scienze robotiche”. I due attori (Simone Evangelisti e Agnese Scotti) sono bravi a utilizzare la voce metallica e a segmentare il movimento secondo lo stereotipo del robot-burattino. Si solletica l’immaginario collettivo (dai cartoni al cinema, ma soprattutto si cita il mondo dei video musicali da Laurie Anderson con O Superman, che nel 1981 fu anche performance, a Bjork con All is Full of Love e poi Lady Gaga e cento altri), facendo indossare bianchissime tute spaziali ai due attori e creando uno spazio vuoto di sospensione. I due robot nella ricerca del loro difetto iniziano a fare domande sempre più “esistenziali”, uscendo fuori dai binari della meccanica e intraprendendo una sorta di viaggio di conoscenza nella natura umana, come fu per il mitico e citato Blade Runner. È proprio su questo piano che si ricercano agganci con il pubblico dei più piccoli per mettere al centro una questione sulla “diversità” e sulle “grandi domande”. I robot, in un certo senso, nel loro spaesamento sono alla ricerca di una propria strada, sono come “bambini” che chiedono e interrogano. La drammaturgia si inventa anche un bel gioco, adoperando il meccanismo dell’ipertesto, o per meglio dire delle “connessioni” che crea in automatico google. I due robot parlano come macchine, le frasi spesso sono luoghi comuni oppure sono citazioni di qualcosa (film, teatro, libri…). Anche se i riferimenti spesso non sono subito evidenti, è piuttosto chiaro il procedimento. La lingua di google o le definizioni enciclopediche di wikipedia si mescolano a vicenda, con un’idea di lingua meccanica che potrebbe avere molte implicazioni. Complessivamente il lavoro offre moltissimi spunti, però, forse anche perché fresco di debutto, ha qualcosa che non funziona. O almeno questa è l’impressione, anche se andrebbe visto con un pubblico di bambini e ragazzini. Tutti gli ingredienti sono intelligenti, però sembra ancora che vada trovato il ritmo giusto, che si creino, soprattutto nel testo, maggiori porte di ingresso, per favorire frizioni e anomalie. Potenzialmente lo spettacolo sarebbe anche molto divertente, perché cova allo stesso tempo un’ironia sottile e momenti di comicità da teatro dell’assurdo. Ma entrambe le dimensioni faticano ancora a emergere. “C’è qualcosa che funziona poco”, come si chiedevano appunto i robot, “ma non sappiamo cosa”. E dunque la ricerca può diventare l’ottima occasione per continuare ad andare a fondo. (r.s.)

 

Camilla Lietti, Rodolfo Sacchettini