Lunedì scorso l’atteso Premio Eolo Awards, istituito nel 2006 e dedicato a Manuela Fralleone, ha assegnato come ogni anno i maggiori riconoscimenti del teatro ragazzi italiano ad artisti e progetti. Non potendosi svolgere come di consueto all’interno del festival “Segnali”, organizzato ogni anno dal Teatro del Buratto e da Elsinor, a causa dell’emergenza sanitaria i cinque vincitori sono stati annunciati in diretta streaming sulla pagina Facebook del Festival “Segnali” dal direttore della rivista on-line “Eolo”, Mario Bianchi, insieme all’attrice Daria Paoletta.
Di seguito i vincitori delle cinque categorie di quest’anno e le rispettive motivazioni
MIGLIOR SPETTACOLO
“Mattia e il nonno”
produzione Compagnia Factory di Lecce/Fondazione Sipario Toscana
Per aver proposto con
estrema poesia e delicatezza, traendolo dal libro omonimo di Roberto
Piumini, il tema della morte, così spinoso da offrire al pubblico
dei ragazzi. Per mezzo dell’interpretazione felice e leggera di
Ippolito Chiarello, lo spettacolo, si muove sulla sapiente e
immediata riscrittura che Tonio De Nitto ha fatto del libro. La
narrazione dell’interprete ci accompagna amorevolmente, mano nella
mano, in compagnia del piccolo Mattia e di suo nonno, che da poco lo
ha lasciato, in un viaggio fantastico attraverso uno scenario sempre
vivo e pulsante, che ci farà comprendere in modo poeticamente
profondo come tutte le persone che abbiamo amato, non spariranno mai,
rimanendo in maniera durevole dentro di noi.
MIGLIOR DRAMMATURGIA
Davide Giordano per “Terry”
produzione Teatro delle Briciole
Per aver affrontato in modo coraggioso e innovativo nella forma e nei contenuti il tema del bullismo, mostrandocene in diretta, attraverso la figura protagonista di Terry, personaggio mutevole in tutta la sua complessa e contraddittoria essenza, tutte le precipue caratteristiche con cui questo orrendo fenomeno si manifesta. Lo spettacolo ha oltremodo la capacità di mostrarsi, attraverso una drammaturgia dirompente, tutta in divenire, sempre diverso, perché ogni volta diversi sono il pubblico e la reazione degli spettatori che ha davanti, perché ogni volta è diverso l’oggetto che, salito sul palco, si presta all’attenzione morbosa del protagonista, proposto con sapienza interpretativa dallo stesso Giordano.
MIGLIOR PROGETTO
“Teatro scuola vedere fare”
Casa del Contemporaneo e Le Nuvole di Napoli
Il Progetto, in collaborazione con Agita e Casa dello Spettatore è un progetto di condivisione, confronto e dialogo tra la scuola e il teatro che, d’intesa, mirano ad avvicinare le nuove generazioni ai linguaggi artistici ed espressivi come forma di conoscenza e di relazione con gli altri e il mondo coinvolgendo attivamente gli allievi, gli insegnanti e i genitori, costantemente accompagnati da un’equipe multidisciplinare di esperti. La classe diventa un vero e proprio laboratorio teatrale, che dura quanto l’intero anno scolastico, da ottobre a maggio che porta alla creazione di un vero e proprio spettacolo teatrale che viene proposto durante il festival Maggio all’infanzia. Nel contempo gli insegnanti stessi collaborano all’ideazione della stagione teatrale di spettacoli da proporre ai ragazzi in orario scolastico e alla famiglia riunita nelle domenicali.
TEATRO DI FIGURA DEDICATO A GIOVANNI MORETTI
Natale Panaro
Natale Panaro, creatore instancabile, da oltre trent’anni, di tutte le forme con cui il teatro di figura si esprime non solo sul palco. Formatore, scenografo, illustratore, scultore, attrezzista, costruttore di costumi, burattini, marionette, pupazzi, maschere, oggetti, nei materiali più disparati: legno, cuoio, carta, cartone, cartapesta, lattice, gommapiuma, vetroresina. Per 8 anni fin dal suo inizio ha partecipato alla trasmissione televisiva RAI “L’Albero Azzurro” e nel 2011 e 2012 alla trasmissione “Ma che bel castello!” di Rai YoYo. Ha collaborato inoltre con attrezzerie e sartorie teatrali (Rancati e Brancato di Milano), con compagnie di teatro, balletto e teatro di figura (Piccolo Teatro di Milano, Ater Balletto di Parma, Teatro del Buratto e Scuola di animazione Yorick di Milano, Casa di Pulcinella di Bari). Attualmente a Tortona è responsabile del laboratorio dell’Atelier Sarina, dove sono visibili molti dei suoi lavori e dove tiene laboratori per bambini e stages per adulti (I laboratori di NAT)
RICONOSCENZA TRIBUTATA A UN MAESTRO
Chiara Guidi
Maestra, nel senso più nobile del termine, cofondatrice della prestigiosa compagnia Socìetas Raffaello Sanzio – oggi Societas – ha creato al suo interno un percorso autonomo e riconoscibilissimo legato all’infanzia punteggiato da preziosissimi spettacoli come Hänsel e Gretel (1993), Buchettino (1995) ancora oggi presente in molte stagioni teatrali, Pelle d’Asino (1996), La prova di un altro mondo (1998), La terra dei lombrichi. Una tragedia per bambini (da Alcesti di Euripide) (2014), Fiabe giapponesi (2017) in cui lo spazio teatrale è letteralmente stravolto e messo a disposizione della fiaba e dei bambini che vi partecipano in modo diretto. Fino al recente Edipo. Una fiaba di magia (2019) – che riconduce il mito alle sue origini ancestrali – ogni creazione di Chiara Guidi è costruita come esperienza unica del bambino mai come esercizio di routine, rito insostituibile per la sua crescita. È d’obbligo segnalare sempre in termini di estrema avanguardia la sua Scuola Sperimentale di Teatro Infantile (1995-98) e gli osservatòri Màntica e Puerilia al Teatro Comandini di Cesena.
Redazione
Segni New Generation Festival Quarto: verso possibili conclusioni
Nel programma della XIV edizione di Segni New Generations Festival (Mantova, 26 ottobre -3 novembre 2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni di scambio in una dimensione europea. I Dialoghi sulle estetiche del teatro ragazzi sono stati progettati e coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G (Cristina Cazzola, Cristina Carlini, Giuliana Ciancio, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto con le istituzioni; drammaturgie.
Dove mi colloco; quello che
penso
Primo
novembre; Teatro Accademico del Bibiena, Sala Piermarini.
Cinquantasette tra operatori e operatrici, artisti ed artiste. Se ne
stanno seduti, in attesa che si cominci. Prendono parola Carlotta
Garlanda e Cristina Garlini di Living, come avvenuto nei giorni
precedenti, ma questa volta – spiegano – «più
che parlare dovrete compiere un gesto».
«Via
le sedie»
quindi, «addossatevi
alla parete di sinistra, che funge da linea di partenza»
e «collocatevi
poi tra il principio e il fondo della sala»
a seconda «di
quanto siete in accordo o meno con la frase che di volta in volta vi
diremo».
Si tratta, insomma, di prendere posizione rispetto ad alcune tra le
affermazioni venute fuori nelle tre giornate precedenti; si tratta di
manifestare fisicamente l’unicità del proprio parere (che non
potrà mai coincidere del tutto con quello degli altri, tanto quanto
il corpo mio e il corpo tuo non possono occupare lo stesso punto
nello spazio) e si tratta di mettere quest’unicità in relazione
con chi, pensandola in maniera diversa, si dispone altrove:
rimanendomi accanto o stando all’opposto da me. Sorta di sondaggio
carnale, la pratica messa in atto da Living aiuta a capire come si
percepisce e come percepisce il proprio lavoro chi si dedica alla
teatralità per le nuove generazioni. E come un fosse un sondaggio ne
riporto perciò i risultati.
Primo.
“Il teatro per ragazzi viene considerato di serie B”.
In
quaranta (70,1% del totale) sono d’accordo; in sette restano al
centro della sala (12,2%) mentre in dieci (17,5%) sono in aperto
dissenso. I disequilibri delle politiche nazionali («In
Austria il governo non investe quanto in altre iniziative culturali»,
«Ad
Honk Hong si pensa non valga la pena sostenere opere più brevi o dai
contenuti apparentemente semplificati»,
«I
bambini non votano: per questo in Italia il teatro per l’infanzia è
di serie B»),
la specificità del pubblico («i
nostri spettatori non scelgono direttamente: c’è chi lo fa per
loro»), il ridotto sostegno produttivo e le paghe al ribasso danno
il senso di una minorità che certi vantaggi oggettivi (le maggiori
possibilità di tournée, il bacino d’utenza scolastico, lo
sbigliettamento delle
matinée) non
scalfisce.
Secondo.
“Il processo creativo è condizionato dai mediatori”.
In
quarantatré (il 75,4%) sono d’accordo: presidi, insegnanti o
assessori possono influenzare in principio o in
fieri proposta, tema e
forma di uno spettacolo: la tal Giornata della Memoria, ad esempio, e
l’urgenza sociale del momento, i programmi didattici, il successo
di certi prodotti commercio-televisivi (considerati più facili da
fruire) sono «fattori fin troppo impattanti». In sette (12,2%)
restano in forse – «non sempre il mediatore incide e i temi
trattati sono quelli offerti dal nostro presente» –; altrettanti
(12,2%) sottolineano il ruolo necessario di maestri e istituzioni:
«in fondo si tratta di comprendere a chi ci si rivolge e in che modo
occorre farlo davvero».
Terzo.
“Partecipazione significa coinvolgimento attivo del pubblico”.
La
maggioranza ritiene che la presenza degli spettatori non sia
declinabile solo in termini di attivismo fisico esercitato
all’interno di uno spettacolo e dunque: in quattro (7,1%) se ne
stanno nel mezzo – «soprattutto per la genericità del quesito»
afferma qualcuno; perché «non dovremmo dimenticare che il teatro
lavora sulle relazioni tra gli esseri umani» dice qualcun altro –
mentre in cinquantatré (92,9%) rivendicano il valore assunto dalla
contemplazione oculare, dall’ascolto che avviene in platea, dalla
coesistenza vissuta frontalmente.
Quarta
e quinta frase – “È
responsabilità delle istituzioni individuare le politiche adatte
alla crescita del teatro ragazzi”; “Il settore ha una
scarsa capacità di percepirsi come tale e non lavora in quanto
categoria” – vanno
assieme: nonostante determinino reazioni diverse. Si tratta infatti
di comprendere cosa possa un Ministero, una Regione o un Comune
rispetto al teatro e in che modo – con un Ministero, una Regione o
un Comune – ci si rapporta non come artista o compagnia ma in
quanto comparto lavorativo.
Nel
primo caso domina l’incertezza: in trentasei (63,1%) non sanno dire
la funzione specifica che toccherebbe alle istituzioni (la «messa a
disposizione di spazi e risorse» forse, e «il monitoraggio
qualitativo», «l’analisi delle ricadute economiche dirette e
indirette sui territori», «la concessione di fondi non legata alla
vendibilità di un titolo»); il 24,5% (quattordici partecipanti)
richiama le istituzioni «al proprio dovere» – definire
«politiche che agevolino sinergie produttive, sostengano il rischio
creativo, promuovano la sperimentazione interdisciplinare, tutelino
la professionalità e consentano l’applicazione in concreto del
diritto all’accesso del fatto artistico, a cominciare dai soggetti
più fragili e poveri» – mentre in sette (12,2%) rivendicano
distacco, alterità, indipendenza assoluta dalla Politica.
Nel secondo caso invece la divisione è netta: in cinque non parteggiano (8,7%) mentre i cinquantadue rimanenti si dividono perfettamente a metà (44,6% da un lato, 44,6% dall’altro): «non riusciamo a essere un insieme», «siamo frastagliati e divisi», «non costituiamo un movimento unitario», «non abbiamo un lessico comune né sappiamo rappresentarci» dicono in ventuno e – di contro – «rispetto ad altri ambiti parliamo di più tra noi», «le occasioni di confronto si stanno moltiplicando», «c’è il lavoro svolto in questi anni da Living, da Facciamolaconta, da C.Re.S.Co.» e «pensate anche a questa giornata che stiamo passando qui, adesso, in questo teatro» rispondono gli altri ventuno.
Ciò che mi sembra
La
quarta giornata ha una funzione riepilogativa – le estetiche sono
assenti: cos’è per me la regia, come scrivo i miei testi, che
relazione scenico-drammaturgica ho con il pubblico, come uso il corpo
sul palco, in che modo declino questo o quel tema, qual è il lessico
che la mia compagnia ha sviluppato negli anni, che storie sto
narrando adesso agli spettatori e quali vorrei invece loro raccontare
domani. Non se ne parla, dunque, e non mi sorprende. È la
conseguenza (consueta) dell’incapacità che gli artisti hanno nel
dire poeticamente di sé ed è la conseguenza del pericolo che
sentono nel mettere in discussione il modo in cui stanno provando a
esistere in scena e della difficoltà che hanno nel trovare parole
che raccontino davvero il percorso tentato, già così incerto e
fragile nella pratica quotidiana. Come avviene di solito, anche in
questo caso si privilegiano dunque gli aspetti economico-
organizzativi.
Gli
operatori e gli artisti del teatro per le nuove generazioni si dicono
dunque nel complesso marginali, influenzati dai mediatori con cui
interloquiscono, indotti ad allestire processi che prevedano una
partecipazione diretta del pubblico che non sempre è necessaria
tanto quanto si dicono incerti nelle relazioni con le istituzioni e
incapaci di pensarsi collettivamente ed è – questa –
un’autorappresentazione identica a quella che la teatralità
(italiana, in particolare) esprime quasi in ogni occasione di
confronto, approfondimento e dibattito. La condizione limitrofa che
lamentano, insomma, è la stessa che appartiene ai teatranti in
quanto teatranti in un Paese che è penultimo in Europa per
investimento in istruzione, che destina alla cultura la metà di
quanto destinano in media gli altri Paesi europei (l’1,1% a fronte
del 2,2%) e il cui Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo si è più
che dimezzato in trent’anni (-54,81% dal 1985 a oggi) tanto da
incidere sul PIL odierno solo per lo 0,019%. L’influenza dei
mediatori subita dal teatro ragazzi rispecchia l’influenza subita
anche in altri contesti ed occasioni dai teatranti – quando
producono con un Nazionale vedendosi imporre dal direttore autore e
titolo, regista o parte del cast, un numero miserrimo di giorni di
prova; quando la loro creatività viene piegata alle esigenze
turistico-culinarie di Regioni e Comuni; quando l’assessore o il
programmatore ricorda che il 2019 è l’anno di Primo Levi per cui
conviene lavorare su La
tregua, I
sommersi e i salvati, Se questo è un uomo
– mentre la partecipazione attiva del pubblico, prima che
un’esigenza compositiva, fa punteggio nei bandi. Basterebbe
ricordarsi che in Italia il Codice dello Spettacolo, atteso da
quarant’anni, è decaduto perché non sono stati redatti i decreti
attuativi per rendersi conto di quanto sia disattenta, friabile e
incerta l’interlocuzione istituzionale mentre – circa
l’incapacità di pensarsi come collettività sindacalizzata – si
consulti Vita da
artisti ovvero la
ricerca sulle condizioni di lavoro dei professionisti dello
spettacolo redatta dalla CGIL e dalla Fondazione Di Vittorio nel
2017. Intermittenza d’impiego; prevalenza di paghe basse; ritardi
nel ricevere il dovuto; mancato rispetto del CCNL (mansioni non
previste dal contratto, ore di lavoro non retribuite, prove svolte
gratuitamente); insopportabili disparità generazionali, geografiche
e di genere; quota crescente di ricatti, soprusi e discriminazioni
professionali; tecnici e artisti che, a fronte di un infortunio
subito, hanno continuato a lavorare per paura di essere sostituiti.
Siamo “lavoratori autonomi con scarse tutele e diritti” ed
esercitiamo il mestiere “in preoccupanti condizioni di precarietà”
dice di sé l’84,8% dei professionisti dello spettacolo in Vita
da artisti tanto
quanto dicono di sé i teatranti presenti nella sala Piermarini del
Teatro Accademico di Bibiena.
Mancata dunque l’analisi estetica – mancata una riflessione compartecipata sulle effettive specificità di settore, che sono specificità innanzitutto creative – a fine giornata non mi resta che questo: la certezza che le questioni politiche riguardanti il teatro per nuove generazioni siano le stesse che riguardano l’intero comparto teatrale nazionale.
Alessandro Toppi
Lo sguardo bambino, fra pedagogia e spinte artistiche. Una riflessione dal Puglia Showcase Kids 2019
Si dice al bambino non si può mentire, l’infanzia è innocente, pura, lo sguardo bambino privo di sovrastrutture. Questo sguardo, che va dunque stimolato in diversi e variegati modi, può orientarsi libero sulla scena: ricondurre a unità narrativa ciò che è solo accennato oppure disarticolare ciò che invece pare stare in un complesso organico, soffermarsi su elementi secondari ed elevarli a principio, personificare luci e scenografie dentro storie parallele per scordarsi, magari, del protagonista. È diretto lo sguardo-bambino, ride solo se gli vien da ridere e piange solo quando ha di fronte a sé qualcosa che lo porta a piangere. Reclama sincerità lo sguardo-bambino. Eppure, verrebbe da dire, anche dentro al gioco finzionale del teatro il bambino mente. Può mentire, perlomeno. L’immaginazione di intrecci alternativi o la deliberata trasfigurazione di parti dello spettacolo sono – oltre che felici esercizi di fantasia e di libertà spettatoriale – innanzitutto dei modi in cui i ragazzi “negoziano” il loro essere prossimi alla scena. Mentono a se stessi, per non voler sostenere verità forse troppo pressanti. Mentono a noi, adulti, per conservare una visione – questa sì, più “pura” – che risponda solo ai propri intimi desideri e paure. Se l’infanzia è un’invenzione (e, in una certa misura, lo è, come ricordano le indagini di Neil Postman – La scomparsa dell’infanzia e di George Boas – Il culto della fanciullezza), i caratteri di innocenza e spontaneità che siamo soliti attribuire allo sguardo-bambino sono perlopiù delle nostre proiezioni. Sono anzi gli strumenti con cui, andando a tutelare e proteggere lo statuto infantile, tuteliamo e proteggiamo innanzitutto quello adulto da una vicinanza che rischia di essere pericolosa: la vicinanza con il noi-bambino, sulla negazione del quale si basa buona parte della nostra “architettura sociale”. D’altronde (per riprendere un tema non secondario a teatro, che avevamo già provato a sviscerare qui), ricorda la psicanalista Alenka Zupancic nel suo recente saggio Che cosa è il sesso: «Se la sessualità infantile costituisce una “zona” così pericolosa e sensibile, non è virtù della sua distanza e del suo contrasto con la sessualità adulta, ma al contrario per la sua prossimità. Se la sessualità infantile non è coperta né dalla biologia né dal simbolico (“cultura”), lo scandalo più grande della teoria freudiana sta nel dire che, in tutto e per tutto, questa situazione non cambia poi così tanto quando diventiamo adulti». Perciò il teatro ragazzi è, almeno in teoria, un viaggio nell’inconscio, un gioco di specchi multipli. Postulando uno spettatore “privilegiato”, ne postula anche la sua radicale alterità rispetto al linguaggio teatrale stesso e questo fa sì che il parlare di sé in scena (“il parlare di sé della scena) sia sempre un discorso indiretto, sebbene estremamente diretti sembrino i mezzi espressivi con i quali lo si sostiene.
Gli spettacoli del Puglia Showcase Kids 2019, che si è svolto entro la cornice del Napoli Teatro Festival, si rapportano in vari modi a tale contraddizione. Se Canto la storia dell’astuto Ulisse, scritto e diretto da Flavio Albanese, prova a modulare l’andamento ritmico della narrazione sulla base delle reazioni dei ragazzi, intessendo dunque un rapporto con il pubblico e con l’opera trasposta in scena che è, al contempo, di intima complicità e di sfrontata messa in discussione, Tonio De Nitto con Diario di un brutto anatroccolo sembra invece attestarsi su un territorio di “trasfigurazione iperbolica” della fiaba originale, per cui l’intreccio viene di volta in volta riadattato, traslato per metafore, “universalizzato” sino a divenire danza, gesto; Tutina e il cervo di Maristella Tanzi e Francesca Giglio pare “replicare” l’attitudine fanciullesca in una serie di quadri di movimento che si sviluppano in maniera mimetica (a partire dagli esercizi laboratoriali sperimentati con i bambini nella fase preparatoria dello spettacolo) rispetto a esercizi laboratoriali per ragazzi , mentre Operastracci di Enzo Toma fissa quasi una soglia di “delicatezza scenica” entro la quale costruire accenni coreografici, al limite fra l’astratto e il naturalistico, fra l’allusivo e il didascalico; Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale e Zanna Bianca di Niccolini/D’Elia, l’uno attraverso i corpi dei performer e l’altro attraverso la parola (che scaturisce dal rapporto con la materia), esplorano la dimensione più sensoriale e sensuale della narrazione, concepiscono gli spettacoli come delle “scenografie in movimento” vive, grondanti di colori e stimoli percettivi; Costellazioni. Pronti, partenza… spazio!, spettacolo senza parole di Savino Italico, Olga Mascolo, Anna Moscatelli e Giorgio Rossi, stimola la percezione dello spettatore riproducendo l’assenza di gravità grazie all’utilizzo del corpo dei danzatori, che riesce a descrivere l’atmosfera di un fantastico viaggio nell’universo; Così Pulcilele… omaggio a Emanuele Luzzati di Paolo Comentale e Schiaccianoci swing di Stefania Marrone e Cosimo Severo pongono l’accento sull’onirico, sullo sfilacciarsi dell’intreccio che fa tutt’uno col dipanarsi dell’energia scenica verso linguaggi extra-teatrali quali il concerto o i giochi di ombre e figure; con Ahia! di Damiano Nirchio, il linguaggio del teatro di figura si mescola al teatro d’attore per affrontare uno dei più grandi interrogativi della vita, lasciando dei momenti di vuoto, nel quale a parlare è la scenografia, pensata per accogliere ombre e proiezioni, e concedere allo spettatore un momento privato di riflessione; Biancaneve, la vera storia di Michelangelo Campanale, affronta in maniera diretta i termini del rapporto tra l’adulto e l’infanzia, che vorrebbe essere preservata, addolcita, fino a nascondere la verità, quella di una madre che è disposta a uccidere la propria figlia pur di strapparle il primato della bellezza; allo stesso modo Nel castello di Barbablu di Raffaella Giancipoli la crudezza della fiaba non viene risparmiata agli spettatori e si rivela tutta nella figura del protagonista, nei suoi modi che destano inquietudine, nei suoi comportamenti ambigui, che esplodono nella rabbia verso la sua sposa maltrattata e minacciata.
In generale, quasi tutti gli spettacoli sembrano attestarsi su “evocazioni tematiche” il più possibile ampie e indefinite. Appoggiandosi nella maggior parte dei casi su storie e parabole che già sono inserite in un immaginario comune, le proposte del Puglia Showcase Kids 2019 immergono fin dall’apertura del sipario il bambino nel vivo delle questioni che intendono affrontare: la paura, il distacco, il mistero della nascita e della morte, l’evasione dal reale, il ripetersi della gioia e della festa, un rapporto – non sempre pacificato – con l’animalità… Come a voler rendere ancora più immediata tale immersione, in molti scelgono il corpo e i movimenti per veicolare l’espressività narrativa (Diario di un brutto anatroccolo, Tutina e il cervo, Operastracci, Cappuccetto Rosso, Costellazioni. Pronti, partenza… spazio!); chi, invece, si appoggia alla parola lo fa comunque servendosi di un linguaggio altamente descrittivo e immaginifico (Zanna Bianca) oppure ancorandosi a contesti poetico-mitologici ben riconoscibili (Canto la storia dell’astuto Ulisse) o alla spontanea intelligibilità e allo spontaneo coinvolgimento offerto dal commento sonoro (Schiaccianoci swing) o riscrivendo i classici per lasciare emergere temi scottanti (Biancaneve, la vera storia e Nel castello di Barbablu) oppure ancora lasciando che la parola venga veicolata da una figura (Pulcilele… omaggio a Emanuele Luzzati e Ahia! ), in modo che si ponga da una parte una distanza tra il pubblico e la narrazione, percepita come onirica e surreale, e dall’altra si inviti lo spettatore a una più profonda immedesimazione, perché non ci si rispecchia nel personaggio, ma nella sua essenza, nelle sue stesse domande. Al netto delle differenze fra i singoli spettacoli, c’è dunque la volontà (e la capacità) di “sostare” assieme al bambino in “zone di condivisione” di una pratica scenica, all’incrocio fra lo sguardo infantile (vale a dire, la sua presupposta purezza) e lo sforzo pedagogico dell’artista. C’è, cioè, la volontà quasi di “oliare” il meccanismo teatrale, di sfrondare la mise en scene, per restituire una visione il più possibile lucida, chiara, dritta al cuore degli eventi e al motore delle scelte. È un lavoro, a tutti gli effetti, di “cura”: individuazione delle esigenze, ricerca di un alfabeto comune, spostamento della prospettiva verso il fruitore. Viene da chiedersi, però, se l’attenzione pedagogica non rischi a volte di andare a discapito della sperimentazione artistica. Non tanto a livello di linguaggi, rispetto ai quali anzi il Puglia Showcase Kids 2019 offre anche felici episodi di elaborazione scenica e potenza espressiva, quanto proprio in vista di un ripensamento del referente e del suo statuto spettatoriale. A quale bambino si rivolge il teatro ragazzi? Si scorge, a tratti, un’aderenza talmente completa e ricercata da parte degli spettacoli con lo sguardo del pubblico che essa sembrerebbe rispondere a un’idea, se vogliamo, un po’ infantile dell’infanzia: quella cioè di uno spettatore giustamente privo di sovrastrutture, ma dimentica del fatto che è l’infanzia stessa a essere una sovrastruttura. Col rischio dunque di appiattirsi sul senso comune, di fare un teatro aimmagine e somiglianza del bambino invece che – attraverso quest’ultimo – provare a immaginarsi un teatro che assomigli a noi tutti, nella (perturbante) alterità che ci accomuna.
Francesco Brusa (con contributi di: Nella Califano, Andrea Pocosgnich)
Pulcilele: sfaccendato cronico e antieroe ribelle
C’è una piccola casa immersa nel buio, un teatrino di legno disegnato semplicemente, in stile cartoon inquadra tutto, storia e personaggi; sul tetto della piccola casa dorme un Pulcinella. Un lavoro, questo di Granteatro Casa di Pulcinella, che nasce per omaggiare Emanuele Luzzati quando nel 2017 trascorsero 10 anni dalla sua scomparsa. Il gruppo guidato da Paolo Comentale, che ha avuto la possibilità di mostrare Pulcilele… omaggio a Emanuele Luzzati nell’ambito della vetrina Puglia Showcase Kids 2019 all’interno del Napoli Teatro Festival si è lasciato ispirare dal lavoro di creativo dell’artista genovese allestendo uno spettacolo in cui la poesia scaturisce da un approccio leggero ma non superficiale: si comincia dalle radici della commedia, il diverbio moglie e marito. La donna accusa l’uomo di essere un perdigiorno, di pensare solo a dormire e di non cercarsi un lavoro; Pulcinella fugge dai propri obblighi per rintanarsi nel sogno: è qui che si apre una parentesi onirica, che è di fatto il cuore dello spettacolo, nella quale il protagonista, seguendo le note e i ritmi della musica di Gioacchino Rossini, si ritrova in un mondo di avventure tra principesse rapite, cavalieri malvagi, animali parlanti e surreali figure da circo. I fondali mutano con grazia mostrando cangianti cromature pastello e mettendo in mostra le differenti tecniche legate al teatro di figura: dai classici burattini fino ai pupazzi che si muovono con i manovratori a vista (oltre a Comentale l’altro burattinaio è Giacomo Dimase); una complessità del segno che rende ancor più dinamica la messinscena e rappresenta anche un ulteriore piano di decodifica per la platea. Bambini e adulti si trovano di fronte alla relazione, visibile, tra attore e pupazzo, spettatori di un mestiere antico che qui si rivela profondamente moderno, tra i colori e le forme di Emanuele Luzzati ripresi nell’idea scenografica di Bruno Soriato. Come d’altronde è contemporaneo questo piccolo Pulcinella dal naso adunco (creato da Natale Panaro come gli altri oggetti e burattini): antieroe senza orizzonte, perdente perché indolente, incapace di produrre e dunque di essere. Preferisce sognare e fuggire poi su di una barchetta in mezzo al mare, consegnando allo spettatore questo piccolo mistero. Paolo Comentale attraverso una scrittura semplice e diretta non rischia di cadere nella trappola del patetismo, non ha bisogno di giudicare moralmente: Pulcinella è sconfitto dalla vita, ma allo stesso tempo è un ribelle, la fuga in mare aperto lascia interrogativi irrisolvibili sul suo futuro, ma è essa stessa metafora anche di un tragico abbandono, in direzione contraria alla retorica delle resilienza forzata.
Andrea Pocosgnich
Il teatro ragazzi è in viaggio: comincia il Puglia Showcase Kids 2019
Si balla fino a tardi al Napoli Teatro Festival, che quest’anno, in occasione del Puglia Showcase Kids 2019, grazie all’idea del Puglia Village, trasforma il Giardino Romantico di Palazzo Reale nel luogo in cui la città può vivere il teatro in maniera non convenzionale, attraverso l’incontro e lo scambio conviviale tra artisti, operatori e pubblico. Tanti gli spettatori napoletani, con una consistente partecipazione dei bambini, accompagnati sia dalle scuole che dalle famiglie e come di consueto in occasione del festival partenopeo, del pubblico proveniente da diversi paesi.
La presenza della vetrina pugliese al Napoli Teatro Festival, che per la prima volta apre una sezione dedicata al teatro ragazzi con il Puglia Showcase Kids 2019, un progetto della Regione Puglia, ideato e realizzato dal Teatro Pubblico Pugliese, ha dato dunque una visibilità anche a livello internazionale al teatro per le nuove generazioni, che da tempo aspetta un giusto riconoscimento; potrebbe trovare proprio in questa esperienza una più ampia diffusione, dimostrando che l’etichetta ha a che fare con il destinatario al quale si rivolge e non con l’idea che si tratti di un teatro “minore”. Ne hanno già dato prova, nella giornata di ieri, i due spettacoli in programma, che hanno affrontato in maniera poetica e delicata il tema del viaggio.
“Costellazioni. Pronti, partenza… spazio!”, uno spettacolo di Savino Italiano, Olga Mascolo, Anna Moscatelli e Giorgio Rossi, prodotto da Sosta Palmizi/I nuovi scalzi affida le uniche parole a Margherita Hack: «Nella nostra galassia ci sono quattrocento miliardi di stelle, e nell’universo ci sono più di cento miliardi di galassie. Pensare di essere unici è abbastanza improbabile». È nella natura dell’uomo l’istinto all’esplorazione e i protagonisti di questa storia intendono vedere più da vicino quel mondo fatto di stelle e di pianeti che osservano, scintillante, quando sono con il naso all’insù. Un bizzarro macchinario li aiuterà nell’impresa. Con il linguaggio della danza i tre attori in scena raccontano la poesia del sistema solare e dei corpi celesti, soffermandosi sul silenzio nel quale essi sono immersi, mostrandoci spesso immagini lente, sospese, come se tutti insieme fluttuassimo nell’infinito e misterioso universo che ci fa sentire piccoli e grandi insieme. Quell’infinito che vorremmo dominare navigando nelle acque nere in cui le stelle non indicano alcuna direzione, ma brillano quiete. Ci scontriamo però con le leggi dello spazio e del tempo, con la distanza che si calcola in anni luce e allora ridimensioniamo le nostre pretese, tutte umane, di essere al centro di un sistema del quale rappresentiamo solo una parte infinitesimale. Siamo arrivati a mettere piede sulla luna, ma raggiungere qualsiasi altro pianeta, ospitale come la Terra, per adesso è un’impresa impossibile. E ancora ci sostengono le parole tranquille e lucide della Hack, fondamentali per non farci perdere, per riportarci alla nostra misura di uomini e ricordarci che ci resta la Terra, della quale dovremmo avere cura. Lo strano macchinario esce di scena, si ritorna a casa, a guardare le stelle con il naso all’insù.
Quello di Flavio Albanese è ancora un viaggio, il viaggio. “Canto la storia dell’astuto Ulisse” è uno spettacolo in cui si definisce a poco a poco la figura del famoso re greco, a partire da una conversazione iniziale insieme al pubblico, con il quale si parla dell’aedo Omero, che forse non è mai esistito, suggerisce il narratore sotto gli occhi sgranati dei bambini. L’interprete e autore della Compagnia del Sole accenna alle incredibili vicende dell’Odissea, ma non solo, perché quello di cui canta Albanese è anche un viaggio metaforico. Si parla del tempo, del tempo degli uomini e del tempo degli dei, irraggiungibili e immutabili, come corpi celesti. La narrazione, sostenuta dalle meravigliose figure d’ombra di Emanuele Luzzati, realizzate da Teatro Gioco Vita, ci porta in un tempo lontano, ma sempre presente, il tempo delle storie. Ulisse, quando la dea Calipso gli chiese se volesse o meno l’immortalità, ci pensò a lungo, finché non si rese conto che la vera immortalità si raggiunge con la gloria. Senza storia non c’è gloria e se la vita non finisce mai ci si ritrova in un lungo tempo immutabile in cui non c’è storia.
ASPETTANDO IL PUGLIA SHOWCASE KIDS 2019 AL NAPOLI TEATRO FESTIVAL #2
Puglia Showcase Kids 2019 al Napoli Teatro Festival Italia: teatro per una terra che ha bisogno di futuro
ANDREA ZANGARI
Il Napoli Teatro Festival Italia ospita per la prima volta, dal 2 al 5 luglio, una sezione dedicata al teatro ragazzi,e lo fa attraverso Puglia Showcase Kids2019, un progetto della Regione Puglia, ideato e realizzato dal Teatro Pubblico Pugliese, finanziato nell’ambito delle FSC 2014-2020 “Interventi per la tutela e valorizzazione dei beni culturali e per la promozione del patrimonio immateriale”, Progetto Sviluppo e Internazionalizzazione della Filiera Culturale e Creativa dello Spettacolo dal Vivo – Teatro Danza. Teatro Pubblico Pugliese sin dalla sua fondazione si impegna espressamente a promuovere, fra le altre declinazioni delle arti sceniche, il teatro ragazzi, ma sempre con uno sguardo aperto all’orizzonte nazionale e internazionale. Le quattro giornate vedranno susseguirsi tre spettacoli ogni giorno: sul palco del Teatro Nuovo e del Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale andrà in scena una selezione dei migliori lavori di teatro ragazzi prodotti in Puglia. Il programma evidenzia una selezione aperta a diversi linguaggi, includendo la danza, il teatro di figura e le riletture dei classici, per ricordarci come il teatro ragazzi non sia un’arte a sé, ma segua la multiforme potenzialità dei dispositivi teatrali tout court.
Consapevolezza che sfugge al pubblico adulto e a volte alla critica, disorientati dall’etichetta: teatro ragazzi. Due parole giustapposte con in mezzo un vuoto in cui si sovrappongono e scompaiono tutte le possibili preposizioni, altrettante virtuali limitazioni che darebbero alla formula ben più specifici orizzonti. Si potrebbero nominare infatti unteatro per ragazzi, un teatro con i ragazzi, un teatro dei ragazzi. Di ognuno intuiamo le profonde e diversissime implicazioni poetiche, produttive, politiche. Da forme di spettacolo che parlino ad un pubblico di ragazzi, a quelle che portano in scena i ragazzi, a quelle che si generano nei corpi e nelle menti dei ragazzi. Anche se, fra queste, a Napoli per Puglia Showcase Kiss 2019, vedremo naturalmente un teatro per ragazzi, le tre modalità possono anche coesistere nel singolo spettacolo. Se volessimo trovare le origini del teatro ragazzi in una storia del genere ancora intentata (almeno in Italia), dovremmo indicare nella cultura degli anni ’60-70 una svolta radicale: da forma pedagogica strettamente didascalica e moraleggiante, a performance laboratoriale, ancora condotta nelle scuole, in cui i bambini riempiono lo spazio della finzione col loro corpo e la loro immaginazione. Una modalità in cui sono i ragazzi a fare teatro. Del resto, va citata anche la tradizione del teatro di figura. Chi, da bambino, non ha mai visto uno spettacolo di burattini, nelle piazze o sul sagrato di una chiesa, o ad una festa di paese? Ma i bambini non sono i soli spettatori. Va fugato il malinteso secondo cui il teatro dei burattini sia solo un intrattenimento per bambini: è piuttosto un teatro popolare, aspetto che peraltro denuncia una delle invarianti più intriganti del teatro ragazzi: la vasta accessibilità. Un format per i più piccoli non può dimenticare gli adulti che accompagnano i bambini a teatro (se ne parlava tra le nostre pagine in una bella intervista alla compagnia Tam Teatromusica). E allora il teatro ragazzi è sempre un teatro che presuppone uno spettatore che condivide, che va mano nella mano con un altro, per il quale opera la scelta stessa dello spettacolo: scelta particolare che può diventare simbolo di quella universale del teatro tutto. Non bisognerebbe aggiungere altro per indicare la profondissima importanza politica e formativa che il teatro ragazzi può assumere (si potrebbe parlare di paideia, e non sarebbe poi così strano nella fu Parthènope, ma non ci dilungheremo).
Nonostante, o forse proprio per questa stratificazione di modelli e potenzialità, la formula teatro ragazzi lascia perplessi molti addetti del settore. Da più parti è stata sollevata l’obiezione che l’etichetta stessa nasconda un abbassamento del genere nell’ambito delle discipline sceniche: che sia quel “ragazzi” a fare di quello un teatro minore. Se questo fosse vero, ci uniremmo all’obiezione. Eppure, al contempo, “teatro ragazzi” indica, senza risolvere l’aporia della diade, un et-et, una coesistenza, una duplice polarità. La prassi scenica, da un lato, e l’alterità di una fase della vita che mette in scacco ogni schematica pedagogia, dall’altro. Bisogna ammettere che lo stesso termine “ragazzi” evoca margini anagrafici piuttosto ampi. Più preciso appare il corrispettivo inglese kids theatre: teatro per bambini, in tal caso la traduzione lascia meno spazio a disamine. Ma l’italiano, si sa, è lingua provvida di sfumature, indulgente, poetica: rompe il legame meccanicistico fra le parole e le cose, ammicca ai nessi poetici più che alle deduzioni filosofiche. Così anche teatro ragazzi è una formula imperfetta e tutto sommato generosa: contiene tutto quanto appena suggerito, e molto di più. Un di più che feconda la dimensione fiabesca, inscindibile, forse, alla narrazione rivolta al bambino, ma che, nella misura in cui l’onnipresente alterità infantile abita in ciascun di noi, parla a tutti gli spettatori. Ed è proprio nella fiaba che il bambino impara a trattare esperienzialmente con l’alterità, con il grande altro da sé che spesso assume le fattezze del mostro: allora forse il teatro ragazzi è necessario tanto di più oggi, in tempi di narrazione politico-mediatica indirizzata a rifiutare l’alterità che è lo straniero.
“Diario di un brutto anatroccolo” di Tonio De Nitto. Foto di Eliana Manca
Proprio la relazione col diverso, la ricerca di sé in relazione col mondo, l’identità come processo abiteranno spesso, in varie forme e linguaggi, la programmazione di Puglia Showcase Kids. Basta scorrere alcuni fra i titoli in cartellone (qui il programma completo): da Costellazioni. Pronti, partenza…Spazio! Di Giorgio Rossi, un viaggio dalla terra verso lo spazio interplanetario (età 4-5 anni; 2 luglio – Teatro Nuovo Napoli), al Diario di un brutto anatroccolo di Tonio De Nitto, ispirato al classico di H.C. Andersen (età da 6 anni; 2 luglio – Teatro Nuovo Napoli); da Canto la storia dell’astuto Ulisse di Flavio Albanese, a proposito di viaggi nell’ignoto, con le figure d’ombra dello scenografo Emanuele Luzzati (età: da 8 anni; 2 luglio – Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale), a Operastracci di Enzo Toma e Silvia Ricciardelli, dove una montagna di stracci diventa pretesto per raccontare il corpo e l’identità che cambiano (età da 8 anni; 3 luglio – Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale). Puglia Showcase Kids 2019 sarà anche occasione per vedere gli ultimi due premi Eolo (assegnati dall’omonima webzine che per prima si è occupata sistematicamente del teatro ragazzi): Cappuccetto Rosso secondo Michelangelo Campanale, in cui al centro della fiaba è messo il famigerato lupo (età: da 6 anni; – 4 luglio – Teatro Nuovo Napoli), e Zanna Bianca di Francesco Niccolini e Luigi D’Elia, dove ancora il lupo è protagonista nella trama ispirata alla vita di Jack London(età: 4-14 anni; 4 luglio – Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale). Completano il cartellone Tutina e il cervo di e con Maristella Tanzi e Francesca Giglio (riservato a 20 spettatori; età 2-5 anni; 3 luglio – Teatro Nuovo Napoli); Biancaneve, la vera storia, scritto e diretto da Michelangelo Campanale (età da 6 anni: 3 luglio – Teatro Nuovo Napoli);Pulcilele… Omaggio a Emanuele Luzzati, di Paolo Comentale (età da 6 anni; 4 luglio – Teatro Nuovo); Schiaccianoci Swing, di Cosimo Severo e Stefania Marrone (età: da 5 anni; 5 luglio – Teatro Nuovo Napoli);Ahia! di Damiano Nirchio (età: da 6 anni; 5 luglio- Teatro Nuovo Napoli);Nel castello di Barbablùprodotto da Kuziba, spettacolo di cui “Scene Contemporanee”, in collaborazione con EOLO – rivista di teatro ragazzi, recentemente parlava qui (età 7-12 anni; 5 luglio – Cortile della Carrozze di Palazzo Reale).
L’incontro fra Puglia Showcase Kids 2019 e Napoli Teatro Festival Italia sarà anche occasione per un forum d’approfondimento sul teatro ragazzi, apertamente volto ad approfondire l’importanza strategica del teatro ragazzi come motore per la crescita futura dei territori, nonché ad illustrare le politiche e le risorse da parte degli enti ministeriali e territoriali che operano a favore dello sviluppo del settore. La conferenza, dal titolo “Il Teatro per Ragazzi in Italia”, vedrà il saluto speciale in video del regista olandese Jetse Batelaan, fresco di Leone d’Argento, che si occupa da anni di teatro ragazzi e che dirige dal 2013 il Theater Artemis, fra le più floride compagnie di teatro ragazzi in Europa. Del denso programma appare forse questa una delle suggestioni più feconde: il teatro ragazzi è per definizione un’arte aperta al futuro, un tempo la cui promessa non è più scontata, specie per questo Mezzogiorno, specie nel settore teatrale. Che però oggi, fra Puglia e Campania, s’incontra per mostrarsi nella sua forma migliore.
Puglia Showcase Kids 2019 è un progetto della Regione Puglia, ideato e realizzato dal Teatro Pubblico Pugliese, finanziato nell’ambito delle FSC 2014-2020 “Interventi per la tutela e valorizzazione dei beni culturali e per la promozione del patrimonio immateriale”, Progetto Sviluppo e Internazionalizzazione della Filiera Culturale e Creativa dello Spettacolo dal Vivo – Teatro Danza.
Aspettando il Puglia Showcase Kids 2019 al Napoli Teatro Festival #1
Quest’anno il Napoli Teatro Festival apre per la prima volta una sezione speciale dedicata al teatro ragazzi: si tratta del Puglia Showcase Kids 2019, un progetto della Regione Puglia, ideato e realizzato dal Teatro Pubblico Pugliese. Quattro giorni, dal 2 al 5 luglio, in cui 12 spettacoli di teatro e danza contemporanea abiteranno gli spazi del Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale e del Teatro Nuovo di Napoli, con un focus sullo stato del teatro ragazzi in Italia. L’osservatorio critico di Planetarium sarà presente in questa occasione di confronto e di riflessione sul teatro dedicato alle nuove generazioni in qualità di media partner del Puglia Showcase Kids 2019. Il festival si avvicina e noi abbiamo chiesto al gruppo PaneAcquaCulture di introdurre queste quattro giornate di spettacoli e approfondimenti. Pubblichiamo l’articolo di Elena Scolari (https://paneacquaculture.net/2019/06/25/focus-sul-teatro-ragazzi-al-napoli-teatro-festival-2019-puglia-showcase-kids/)
Focus sul teatro ragazzi al Napoli Teatro Festival: Puglia Showcase Kids 2019
ELENA SCOLARI | Si parla ancora di teatro ragazzi, che bella notizia! Siamo lieti che alle consolidate ma solite realtà che curano questo settore si aggiungano altri spazi di attenzione verso un segmento dello spettacolo dal vivo che non si deve trascurare. Ancora più significativo (o almeno lo speriamo) è che la sezione Puglia Showcase Kids2019 (teatro e danza per ragazzi dal 2 al 5 luglio) abbia trovato ospitalità nell’ambito del Napoli Teatro Festival; questo perché la collocazione all’interno di una grande kermesse – è il caso di usare questo termine, per il NTF – frequentata da pubblico e critica che più volentieri guarda al cosiddetto teatro di prosa serale, può creare incontri imprevisti e permettere perfino che qualche spettatore o giornalista si “imbatta” in uno spettacolo per ragazzi scoprendone qualità e piacevolezza.
Sì perché, come già sostenuto in altre occasioni, uno dei problemi ancora non sconfitti del reparto teatrale per la gioventù è proprio l’abitudine ottusa a metterlo sempre in “riserve”, con la pelosa intenzione di salvaguardare un’arte delicata e da proteggere, in realtà ottenendo l’effetto recinto, come PAC raccontava alcuni mesi fa.
Ma davvero è ancora necessario spiegare perché il (buon) teatro per ragazzi è importante? Temiamo di sì, principalmente perché la conversazione intorno al tema si svolge tra chi in questo campo lavora e quindi piove sul bagnato, e raramente si riesce ad avere un dialogo concreto e di vero confronto con le istituzioni, con le amministrazioni, con le scuole. A questo proposito citiamo la recente scelta unilaterale di Regione Lombardia: il bel progetto NEXT, sostegno per le compagnie lombarde, prima, alla produzione, poi, alla circuitazione, è mutato negli anni mettendo il settore giovanile sempre più a margine fino a eliminarlo completamente nel bando 2019/20. Si attendono ragguagli su un sostitutivo – ma per ora assai vago – progetto legato alle scuole di cui ancora poco si sa.
Cappuccetto Rosso – La luna nel letto
Portare i bambini a teatro, prima di tutto, li immerge in una dimensione di fantasia che prende improvvisamente vita nel buio delle sale, dà corpo fisico a personaggi e storie magnifiche e spaventose che fino a un attimo prima stavano disegnati sui libri o chiusi nel rettangolo della tv; la sorpresa di fronte a un trucco e lo stupore per una scenografia inaspettata sono sensazioni che costruiscono le fondamenta della memoria estetica dei bambini contribuendo a sviluppare il gusto e quindi anche la personalità. Uno spettacolo per i bambini può anche mettere in scena situazioni difficili in cui i piccoli si possono trovare nella vita e suggerire loro una chiave, magari metaforica, per trovare il giusto modo di affrontarle. Spaventarsi a teatro è divertente perché succede insieme a una piccola comunità di tuoi pari, ed è anche fondamentale per capire che i pericoli si superano. La funzione strettamente pedagogica non deve però passare in primo piano trascurando l’arte: quando c’è cura e perizia nel racconto, creatività nella scrittura, attenzione allo stile di oggetti e scenografie, il senso emerge senza bisogno di esplicite morali.
Ecco alcuni motivi del perché è indispensabile che il teatro “ragazzevole” sia sempre più visto e sempre più mescolato al teatro tout-court, come auspichiamo avverrà dal 2 al 5 luglio a Napoli presso il Teatro Nuovo e il Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale (qui il programma dei 12 spettacoli pugliesi in “vetrina”).
AHIA! – Teatri di Bari
Momento felice per la regione Puglia, che quest’anno ha portato a casa due premi Eolo (la rivista on line che per prima si è occupata di teatro ragazzi): Inti Theatro con Zanna Bianca di Francesco Niccolini e La luna nel letto con Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale. Entrambi si potranno vedere nelle giornate napoletane, insieme agli spettacoli di altre importanti compagnie pugliesi (e più d’una è impegnata anche nel teatro per adulti, per altro) come Factory Compagnia Transadriatica con Diario di un brutto anatroccolo (qui la recensione di PAC), Cantieri TeatraliKoreja con Operastracci, Crest e Teatro di Bari con Biancaneve la vera storia, La bottega degli apocrifi con Schiaccianoci swing.
Il Cappuccetto rosso di La luna nel letto (qui la recensione di PAC) è sognante, onirico, simbolico, colmo di immagini bellissime che non è frequente vedere; in questo lavoro si entra nella fiaba con dinamismo e una ininterrotta catena di quadri danzati senza parole. È un esempio brillante di come si possano sviscerare gli aspetti ambigui di una fiaba celebre – la tentazione, la seduzione, la curiosità verso l’ignoto – con buone idee coreografiche e interpreti convincenti. Kuziba Teatro – finalista di In-box 2018 con Vassilissa e la Babaracca – presenta Nel castello di Barbablù (qui la recensione di PAC) spettacolo con raffinate macchine sceniche e portoni semoventi che racchiudono le dimensioni della paura e del tradimento. Il lupo/cane Zanna bianca di Francesco Niccolini con Luigi d’Elia è ispirato ai romanzi e alla vita avventurosa di Jack London, splendido inno alla libertà e alla natura, in cui si mostra quanto ognuno di noi abbia un proprio “richiamo della foresta” da seguire.
Zanna Bianca – Inti Theatro
Ciò che sottende a queste brevi note su alcuni dei lavori in programma è la trasversalità dei migliori spettacoli di teatro e danza pensati per ragazzi: quando sono creazioni artistiche a tutti gli effetti parlano a tutte le età ed è giusto che possano essere visti da tutti, anche ben oltre la maggiore età.
Nel calendario di questa sezione “giovanile” il 4 luglio è inserito l’incontro Il teatro per ragazzi in Italia nel quale si affronteranno questi due temi, alla presenza di numerosi operatori del settore nonché rappresentanti di MIBAC e MIUR: – l’importanza strategica del Teatro Ragazzi per la crescita culturale dei territori, non solo per la creazione di nuovo pubblico ma soprattutto per la valenza sociale che la partecipazione attiva al teatro comporta nelle giovani generazioni – le risorse e l’attenzione che MIBAC e MIUR, Regioni ed Enti Territoriali dedicano a questo settore in relazione allo sviluppo della filiera.
Le due questioni sono senza dubbio assai ampie per essere affrontate in un focus di tre ore e mezza e con tanti relatori. È però significativo che si orienti la discussione non nell’ottica di una santificazione della disciplina in sé ma anche in relazione ai reali “effetti benefici” che il teatro può avere per i bambini e i ragazzi, sia nel vederlo (ma soprattutto nell’imparare a guardarlo) sia nella costruzione di progetti che li vedano direttamente coinvolti. Non di sole favole è fatto il teatro per bambini e ragazzi, spesso è stato l’alveo dove nuovi linguaggi sono stati sperimentati e poi adottati sulla scena anche da registi e attori, in produzioni destinate al pubblico degli adulti, che non raramente vivono paure e meraviglie forse più sfaccettate ma non così distanti da quelle dell’infanzia.
Canto la storia dell’astuto Ulisse – Compagnia del Sole (qui la recensione di PAC)
Il punto economico è, poi, cruciale e sarà interessante sentire le informazioni sulle linee guida future che i due ministeri presenti vorranno dare durante il focus.
Altrettanto interessante sarà il contributo video di Jetse BATELAAN, direttore artistico del Theater Artemis e Leone D’Argento a La Biennale Teatro 2019; il regista olandese sarà presente alla Biennale Teatro di quest’anno con due diversi spettacoli e siamo curiosi di ascoltare la sua prospettiva sul teatro ragazzi. I paesi stranieri, in generale, subiscono meno gli steccati di genere che in Italia sono ancora da abbattere, a favore di uno sguardo più “rotondo” verso l’arte e lo spettacolo da vivo.
Puglia Showcase Kids 2019 è un progetto della Regione Puglia, ideato e realizzato dal Teatro Pubblico Pugliese, finanziato nell’ambito delle FSC 2014-2020 “Interventi per la tutela e valorizzazione dei beni culturali e per la promozione del patrimonio immateriale”, Progetto Sviluppo e Internazionalizzazione della Filiera Culturale e Creativa dello Spettacolo dal Vivo – Teatro Danza.
Tre anni di In-Box Verde: quando il teatro emergente non è solo una questione anagrafica
Dieci anni fa nasceva a Siena un progetto che sarebbe diventato un unicum in Italia, grazie alla sua ambiziosa missione: permettere la circuitazione degli spettacoli di compagnie emergenti. Si tratta di In-Box, una vera e propria visione della compagnia Straligut, che consapevole, per esperienza, delle difficoltà legate alla diffusione dei propri spettacoli, ha ideato un progetto a sostegno delle compagnie. Una visione che in poco tempo si è concretizzata in un grande progetto, a metà tra un concorso, una vetrina e un festival, una rete che riunisce oltre 60 sostenitori e che in dieci anni ha premiato ben 47 compagnie emergenti. Fabrizio Trisciani e Francesco Perroni, due tra i fondatori di Straligut, spiegano che per loro parlare di compagnie emergenti non vuol dire identificarle dal punto di vista anagrafico, ma qualitativo. L’obiettivo di In-Box è infatti proprio quello di offrire visibilità a tutte quelle realtà teatrali che pur realizzando spettacoli di qualità non hanno la possibilità di far circuitare e quindi conoscere le proprie produzioni. Da qui l’idea di mettere in palio delle tournée di repliche pagate che, in molti casi, hanno permesso alle compagnie di rimettersi in gioco dopo un momento di impasse.
Un
progetto che nasce da un’esigenza e da un desiderio e che trova un
sentito sostegno da parte di numerosi soggetti, non può che
svilupparsi in un clima familiare
e accogliente. È questa, infatti, l’atmosfera che si respirava a
Siena nel corso dei tre giorni in cui i 6 finalisti di In-Box Verde,
dedicato al teatro per le nuove generazioni, hanno presentato i
propri spettacoli in presenza della giuria che ne ha decretato i
vincitori, agli operatori e agli alunni delle scuole primarie della
provincia di Siena.
Assistere
alla messinscena degli spettacoli selezionati per In-Box Verde,
significa comprendere da un lato i tipi di linguaggi che le compagnie
decidono di utilizzare per rivolgersi al giovane pubblico e
dall’altro in che modo queste scelte vengano valutate da soggetti
tutti diversi tra loro come festival, compagnie, teatri pubblici e
privati e rassegne. Il risultato è una pluralità di punti di vista
rispetto alla visione che si ha del giovane pubblico, dei suoi gusti,
delle sue necessità.
La
fiaba resta ancora uno dei territori più esplorati, un luogo in cui
sperimentare differenti modalità di narrazione e dal quale attingere
per parlare ai bambini delle tappe fondamentali della crescita.
È infatti proprio una fiaba ad aprire la manifestazione. La compagnia pugliese Kuziba, finalista di In-Box Verde 2018, e che rappresenta un esempio di quelle realtà teatrali che anche grazie a In-Box sono riuscite a rilanciare il proprio lavoro, presentano, fuori concorso, lo spettacolo Nel castello di Barbablu. Una curatissima scenografia accoglie gli elementi principali della fiaba: le porte e le chiavi, vale a dire la soglia da varcare e la possibilità di farlo attraverso la trasgressione. La grande porta del castello si dischiude sinistramente lasciando intravedere l’ambigua figura di Barbablu: un uomo elegante e apparentemente gentile, ma che non mostra il suo sguardo, nascosto dal cilindro che indossa. Barbablu, del quale avvertiamo la presenza prima ancora che si palesi, perché ne udiamo il fischiettare lento e monotono, pare non condividere in maniera sincera la stessa gioia della sua sposa, che già vede solo come un’altra delle sue vittime: danza con lei fin quando ne ha voglia, poi la lascia bruscamente e quando i suoi ordini non sono immediatamente esauditi la voce si fa severa, poi spaventosamente minacciosa. Una dinamica del genere rende immediato il paragone con la donna sottomessa a un uomo violento e, infatti, questa è anche una storia di femminicidio, che, come spesso accade, comincia con un uomo inizialmente affascinante e premuroso (“tu sei la padrona … puoi andare dove vuoi, aprire tutte le porte che vuoi”) ma pronto a incollerirsi alla prima occasione (“ma quello stanzino deve rimanere chiuso. Se dovessi aprirlo, la mia rabbia sarà terribile e non so dirti cosa ti farò”). A muovere il lavoro della compagnia, è l’istinto della curiosità, quello di una giovane sposa, che quando si ritrova tra le mani le decine di chiavi che aprono le decine di stanze del misterioso castello di Barbablu, non riesce a rispettare la promessa di utilizzarle tutte, meno che una. La chiave, come elemento intrigante che stimola la disobbedienza, diventa quasi ossessione, desiderio di sperimentare il proprio limite. D’altra parte l’immagine della soglia è un classico della fiaba. La soglia, metaforicamente, rappresenta la possibilità dell’attraversamento, è l’esperienza iniziatica, che originariamente passava dal confronto diretto con la morte, finalizzata al superamento delle paure e necessaria a misurare il coraggio di spingersi oltre il limite imposto per seguire un istinto, che è quello della crescita. È infatti proprio con la morte che la giovane sposa di Barbablu si confronta una volta varcata la soglia e da quel momento non sarà più possibile tornare indietro. La spensieratezza dell’infanzia è stata, di colpo, lacerata come un velo sottile, dietro il quale si nasconde il buio da attraversare.
Il
tema della disobbedienza è quello che ispira anche la Compagnia
Zaches Teatro, che con il suo Cappuccetto
Rosso
si aggiudica il secondo posto a In-Box Verde. In questo caso la
trasgressione avviene da parte di Cappuccetto Rosso, che attraversa
il bosco da sola per raggiungere la casa della nonna. Si tratta di
uno spettacolo ricchissimo di simboli, in cui gli Zaches hanno saputo
sapientemente utilizzare le moltissime versioni della fiaba
esplorandone e sviluppandone gli elementi più inquietanti,
concentrandosi in particolare sul rapporto tra il lupo e la bambina,
un vera e propria relazione amorosa che culmina nella scelta di
Cappuccetto Rosso di infilarsi sotto le coperte insieme al lupo, che
ha appena divorato la nonna. Si tratta di un momento molto delicato
della storia, che si sviluppa sempre su due livelli, uno segue le
vicende della fiaba che tutti conosciamo, l’altro si costruisce a
partire da elementi simbolici. Questo doppia lettura si fa molto
chiara quando la bambina, sola in un bosco buio, invaso da ombre e
suoni sinistri, viene consolata dalla presenza di un cerbiatto, con
il quale fa amicizia. Subito dopo dei suoni confusi. La bambina esce
di scena di corsa e ritorna con un fazzoletto sporco di sangue: il
cerbiatto non è stato risparmiato dal bosco, perché la Natura non è
sempre gentile, come non lo è la vita, e non a caso, proprio quando
la bambina prende coscienza di questo, diventa chiaro che quel sangue
simboleggia anche il passaggio dall’infanzia alla pubertà. Il
finale, che può sembrare irrisolto, perché si sospende nel momento
clou della storia, chiude invece coerentemente il cerchio del
racconto. All’inizio dello spettacolo, infatti, una bambina ascolta
la fiaba di Cappuccetto Rosso fino al momento in cui il lupo divora
la protagonista, per poi addormentarsi e sognarne, immedesimandosi
nel personaggio stesso della fiaba e risvegliandosi, alla fine,
cresciuta, nel suo letto. Questa trasformazione è stata possibile
proprio grazie al superamento della prova iniziatica che passa
attraverso la morte, la pancia del lupo, così come la sposa di
Barbablu, scoprendo la morte oltre la porta proibita, non può essere
più la stessa: si spezza l’incantesimo perfetto dell’infanzia.
A
proposito delle tematiche e dei linguaggi, che variano a seconda del
proprio destinatario, quando spettatori non sono più bambini, ma
adolescenti, diventa molto sentito il tema della diversità, della
percezione di sé in mezzo agli altri, del timore di non essere
compresi. È il caso di Storto,
della compagnia toscana InQuanto Teatro, che ha ricevuto la menzione
speciale della giuria del Premio Scenario 2011 e che si è
classificato terzo a In-Box Verde. Lo spettacolo, tratto da Mongoloide,
un testo autobiografico di Matilde Piran, vede due adolescenti che,
accomunati dal sentimento di sentirsi diversi, storti, appunto,
decidono di scappare. Lui è un amante dei fumetti e pensa che questa
sua passione lo allontani dagli altri, che hanno interessi molto
diversi dai suoi; lei ha un fratello disabile e teme di essere
giudicata non per quello che davvero è, ma solo in quanto sorella di
un bambino affetto da sindrome di Down. La fuga che mettono a punto è
piuttosto una sfida con se stessi: “ce la faremo?” sembrano
chiedersi. Non importa davvero dove andare e se ci arriveranno mai.
Nessuno dei due, forse, parte davvero con l’idea di non tornare più
e neppure di andare troppo lontano. Ciò che conta è dimostrare a se
stessi di essere riusciti a partire, mettendo in moto una vecchia
auto sgangherata, costruendo alla meglio una capanna per ripararsi
dalla pioggia, per poi cedere alla prima telefonata di un adulto che
va in loro soccorso. Non un adulto qualsiasi, ma una “prof”, che
nasconde una vita molto più trasgressiva di quello che pensano e
anche questo dimostra loro che le apparenze, spesso, non corrispondo
alla verità e che bisogna sempre grattare sotto la superficie.
Questa piccola avventura permette ai due protagonisti di uscire allo
scoperto e di affermare la propria identità, il diritto di
sbagliare, di essere storti. È interessante la scelta di utilizzare
delle proiezioni sullo sfondo che seguono le vicende della storia
reinterpretandole graficamente nello stile del fumetto. La storia si
svolge dunque da un lato a partire dal corpo e dalle intenzioni degli
attori e dall’altro attraverso il susseguirsi di immagini
riconoscibili agli spettatori, che possono sovrapporle ironicamente
alla propria biografia. D’altra parte è questa l’età delle
caricature, dei soprannomi, della necessità, insomma, di
identificarsi o di identificare l’altro in maniera marcata, per
dimostrare disprezzo o profondissimo affetto. È il periodo degli
eccessi, in cui spesso risulta difficile comunicare, esprimersi, ma è
comunque necessario; e allora a volte si sceglie di farlo utilizzando
altri linguaggi, come i protagonisti di Storto:
l’uno si rifugia nell’attività del disegno, l’altra nell’ostentare
un atteggiamento ruvido che sembra fatto apposta per scoraggiare
chiunque voglia avvicinarsi. Scopriremo che questa apparente chiusura
nasconde la necessità di sentirsi accettati per quello che si è, e
a volte, quello che si è, è molto meno terrificante di quello che,
per provocazione, ci si impegna a dimostrare.
Una
parola che accomuna lo spettacolo precedente con A
naso in aria di
Schedìa Teatro, è evasione. In
questo caso l’evasione è quella dalla vita quotidiana e in
particolare dalla città, che con le sue luci al neon non ci permette
più di distinguere le stelle, a meno che, non ci spingiamo in un
parco, di notte, per metterci “a naso in aria”, come il
Marcovaldo di Italo Calvino. Lo spettacolo si ispira proprio a questo
poetico romanzo e infatti la scenografia è costruita con l’utilizzo
di lettere che formano la parola degli oggetti rappresentati, come
se gli attori si trovassero tra le pagine di un libro. Il
protagonista di Marcovaldo si
trova a vivere incredibili avventure perché si concede alla poesia
delle cose che lo circondano ed è ciò che accade ai due
protagonisti dello spettacolo: ogni volta che si incontrano al parco,
assistono a eventi meravigliosi, come l’alternarsi delle stagioni, la
trasformazione di un bruco in una farfalla, la vita di animali di
ogni sorta. Queste piccole scoperte sono possibili solo grazie
all’osservazione paziente, alla contemplazione del mondo che intorno
a loro si anima e che spesso risulta invisibile agli occhi di chi non
sa soffermarsi. Si tratta di un lavoro molto delicato in cui
proiezioni e ombre si alternano per restituire l’immagine di un mondo
nascosto, da guardare al microscopio, perché occorre attenzione e
dedizione per individuarne le molteplici forme. È una storia
d’amore, tra un uomo e una donna, forse, ma anche e soprattutto per
la vita. A
naso in aria
non intende esprimere un giudizio negativo sulla città, ma
sottolinea la necessità di conservare uno sguardo aperto, per poter
immaginare spazi nuovi che ci corrispondano e ritagliarci un luogo
segreto per il nostro mondo interiore, pur accettando che le luci al
neon si confondano con quelle delle stelle, purché ne impariamo a
riconoscere la differenza.
La
proiezione di immagini è uno dei linguaggi adoperati dalla compagnia
Il teatro nel baule per Storia
di uno Schiaccianoci,
uno spettacolo in cui si alternano teatro d’attore, narrazione,
fumetto e teatro di figura. Lo spettacolo è tratto dal racconto di
Hoffman “Lo schiaccianoci e il re dei topi”, che ispirò
Tchajkovskij per il suo celebre balletto “Lo Schiaccianoci” e
si sviluppa attraverso una sequenza di immagini che non intendono
illustrare, come dichiara la stessa compagnia, ma accennare, proprio
come avviene nei fumetti. Si vuole raccontare con l’aiuto del
disegno, della luce e del colore per ricreare un’atmosfera surreale e
onirica, nella quale si intrecciano due storie: quella dello zio
Drosselmayer, in carne e ossa davanti a noi spettatori e quella di
Marie, la nipotina, intrappolata nel regno delle bambole, che vediamo
proiettato sullo sfondo, con il suo Schiaccianoci, un giocattolo
trovato sotto l’albero di Natale. I due si sono avventurati in quel
luogo per combattere il re dei topi e sciogliere l’incantesimo della
signora Toponia, che ha reso orrende le sembianze dello
Schiaccianoci. Marie non si cura dell’aspetto del suo amico e lo
accetta per quello che è: sarà proprio questo amore incondizionato
a salvarlo. La storia si svolge a partire dal susseguirsi delle
immagini di Marie e dello Schiaccianoci alle prese con la loro
avventura in una sorta di dimensione parallela con la quale zio
Dosselmayer comunica attraverso una grande macchina zeppa di
ingranaggi da azionare. Lo zio fa di tutto per riportare a casa
Marie, e intanto si rivolge al pubblico e a un topolino suo aiutante
utilizzando dei neologismi. Questa scelta linguistica se da una parte
contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più surreale, dall’altra
intende stabilire un contatto immediato con il mondo dell’infanzia.
Alla fine Marie, che per noi spettatori era stata fino a quel momento
solo un’immagine, liberata dal regno delle bambole, raggiunge lo zio.
In questo caso vediamo come l’utilizzo delle proiezioni sia servito a
raddoppiare i piani della storia, per cui lo spettatore assiste
contemporaneamente al racconto del narratore, lo zio, e alla storia
che si svolge nel regno delle bambole, una dimensione altra alla
quale abbiamo accesso grazie alle immagini che si alternano sullo
sfondo descrivendo la storia. Una storia nella storia, dunque, alla
fine della quale, la sorpresa più grande è quella di vedere Marie
che finalmente è riuscita a raggiungere lo zio, proprio come se
fosse saltata fuori dalle pagine di un libro.
Ancora
ombre e pupazzi per Il
mulo,
uno spettacolo dell’Associazione 4gatti, in cui si intende raccontare
uno dei tanti momenti drammatici della prima guerra mondiale
attraverso gli occhi di un mulo, protagonista della storia insieme a
un alpino. Il mulo, Biagio, non capisce davvero cosa stia accadendo
intorno a lui, ma sente che qualcosa sta cambiando. Dove sono finiti
i campi d’erba grassa? Perché gli controllano i denti e le zampe e
lo portano via? L’alpino, Chicco, sa benissimo che tornare vivi a
casa è l’unico grande obiettivo da perseguire. E a casa sua vuole
portare anche Biagio, così scrive in una lettera alla madre. I due,
però, a casa non torneranno mai. Una storia triste come la guerra,
ma che riesce a strappare qualche sorriso, grazie alle colorite
espressioni del dialetto lombardo, all’ingenuità di Biagio e alla
dolcezza di Chicco, che non perde mai la sua umanità e cerca la
bellezza nell’unico grande gesto che riesce a riempire ancora l’anima
quando tutto intorno crolla: l’affetto verso un altro essere vivente.
La
necessità della compagnia è quella di mantenere viva la memoria e
per farlo si servono dell’omonimo libro di Francesca Sangalli, che
racconta la storia dell’amicizia tra un asino e l’ufficiale Federico
Bertolini ispirandosi alle memorie del bisnonno. Una storia narrata
con semplicità, in cui si cerca di coinvolgere il giovane pubblico
nell’esercizio della memoria.
Ed
è proprio di memoria, quella dell’uomo, che passa attraverso le
storie, fondatrici di civiltà, che parla lo spettacolo vincitore di
In Box Verde, Kanu,
della compagnia Piccoli Idilli. Si tratta della narrazione di Bintou
Ouattara che avvolta in una lunga veste bianca racconta una storia
africana (malinkè) utilizzando in alcuni passaggi la lingua bambarà,
mentre Daouda Diabate e Kadi Coulibaly, griot del Burkina Faso,
cantano e suonano strumenti tradizionali, come kora, gangan, bara e
calebasse, luminosissimi nei loro costumi azzurri. Azzurro perché
questa è anche un racconto di acqua, come sugerisce un bambino del
pubblico. È la triste storia della nascita del fiume Niger, che si
genera dopo la morte della prediletta tra le mogli di un re. Il re
per il dolore raggiunge l’amata, che ormai è una cosa sola con
l’acqua sparente del fiume, e per stare sempre con lei si trasforma
in un ippopotamo. Questa è la storia di un amore che non ha lieto
fine, anzi, di due amori, perché il re, a sua volta, è amato di un
amore profondissimo e non corrisposto da un’altra delle sue mogli,
che lo segue fino al fiume e si trasforma in un coccodrillo per non
lasciarlo mai. Kanu
in lingua bambarà significa proprio amore. Bintou è seduta in mezzo
al pubblico, i musicisti cominciano a suonare, la festa inizia,
perché questo spettacolo è una festa, ha la semplicità e la
genuinità della festa collettiva che si celebra con gioioso
coinvolgimento. Infine, anche la narratrice raggiunge il palco e
prende parte alla festa ringraziando per tutte le cose belle che le
sono capitate durante la giornata, come una sorta di preghiera che
invoca gratitudine e non chiede, ma ringrazia per quello che c’è. La
storia ha inizio ed è scandita da canti e danze alle quali il
pubblico è invitato a partecipare. La narrazione diventa il pretesto
per la condivisione, che passa attraverso la parola, la voce, il
suono, il movimento. Una grande energia invade il teatro. Una storia
triste che non genera tristezza, ma che invita a rispettare il ciclo
della vita, ricordando che l’amore è la forza dal quale si genera la
vita come la morte e che tutto questo ci appartiene profondamente e
ci lega l’uno all’altro.
Passando in rassegna gli spettacoli presenti a In box Verde risulta evidentissimo l’utilizzo delle nuove tecnologie per parlare al giovane pubblico, certo perché si tratta di un linguaggio più immediato per i cosiddetti “nativi digitali”, ma anche perché le compagnie stesse, spesso, sentono la necessità di sperimentare nuovi linguaggi, com’è giusto che sia, perché tutto cambia e si rinnova. L’importante è che il teatro possa restare il luogo in cui il tempo si sospende per la durata di una storia, il luogo in cui si racconta. E che lo si faccia con ombre, pupazzi, proiezioni, fumetti, forse poco importa se lo spettacolo proposto riesce ad accompagnare lo spettatore in un viaggio privato, pur se vissuto insieme agli altri, in cui si possano innescare domande, pensieri nuovi, confronti con qualcosa che si sente diverso o simile a noi. In fondo il bisogno di ascoltare e di raccontare nasce con l’uomo e non si perde, ma si trasforma. Sicuramente il compito del teatro è quello di aprire delle possibilità, di portare gli spettatori lontano dalla realtà quotidiana affinché ci ritornino in qualche modo cambiati. I modi per farlo sono molteplici, i linguaggi svariati. Probabilmente, al di là dei mezzi, l’unica strada auspicabile per un teatro che si rivolga alle nuove generazioni resta quello di partire dai suoi destinatari e di rivolgersi a loro con rispetto e onestà.
Nella Califano
La fiaba a teatro: il diritto alle emozioni
Gli spettacoli presentati al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino, hanno suscitato una serie di riflessioni relative alle scelte operate da artisti e compagnie per rivolgersi al giovane pubblico e che riguardano da una parte i contenuti degli spettacoli e dall’altra i linguaggi utilizzati e le modalità di messinscena. Tutti questi ragionamenti nascono dalla questione relativa al legame, che esiste o che dovrebbe esistere, tra arte e pedagogia nel teatro ragazzi, dal momento che esso si definisce in base al proprio destinatario: lo spettatore bambino nella sua fase di formazione.
In che modo il teatro
tenta di assumersi questa responsabilità?
Buona parte delle compagnie presenti al festival hanno scelto di mettere in scena una fiaba, o di utilizzarne la struttura o, ancora, di prenderne in prestito degli elementi, producendo spettacoli molto diversi tra loro. Questo tipo di scelta, se operata con consapevolezza, si fa portatrice di un intento pedagogico, essendo le fiabe contenitori di archetipi che appartengono all’intera umanità e che proprio nelle fiabe si tramandano destando riflessioni, confronti, rispecchiamenti, rifiuti. La fiaba, attraverso un processo di immedesimazione e catarsi, permette a chi la ascolta di vivere intensamente le vicende della storia, ma tenendosene alla giusta distanza. Occorre, quindi, munirsi di grande onestà e coraggio per affrontare la fiaba e trasmetterne i contenuti allo spettatore senza depotenziarla.
La
fiaba spesso è crudele, inquietante, perché è un viaggio
nell’inconscio, nelle paure più profonde e
remote, la fiaba scava
nelle viscere dell’uomo fino alla notte dei tempi e poi riemerge e ci
interroga.
La compagnia Zaches Teatro sembra avesse bene in mente tutto questo quando ha deciso di destinare a bambini di quattro anni un Cappuccetto Rosso misterioso e scuro, in linea con le prime versioni della fiaba. La protagonista, una bambina, ascolta con attenzione e timore la storia che una donna le racconta, finché non si addormenta, ripensando al dialogo finale tra Cappuccetto Rosso e il lupo, che ancora la fa tremare sotto le coperte. Il corpo della bambina, durante il sonno, è sospeso a mezz’aria, come tra due mondi, e quando finalmente si adagia, diventa subito chiaro che sta per iniziare il suo viaggio nella fiaba. Comincia così la messinscena di una delle storie più conosciute di Charles Perrault che, come voleva l’autore, non termina con un lieto fine, ma con un ammonimento rivolto segnatamente alle giovinette. Non soltanto alla versione di Perrault si fa riferimento, ma anche a delle varianti antecedenti che sono state raccolte da Yvonne Verdier. Il lavoro della compagnia si sviluppa a partire dall’elemento comune a tutte le versioni di questa storia: l’allontanamento dalla madre, che rappresenta la possibilità di disobbedire per andare incontro ai pericoli, imparando a riconoscerli e ad affrontarli da soli, per cercare la propria strada, per sperimentare, per crescere. La storia viene raccontata utilizzando il linguaggio evocativo della danza, della musica e del teatro di figura. Pochissime le parole. Lo spettatore è piuttosto rapito dai movimenti dei personaggi, misurati, cadenzati, perfettamente coordinati. Si tratta di coreografie in cui il gesto è spesso secco e frammentato. Questa scelta, insieme all’utilizzo delle maschere indossate dalla madre e dalla bambina, contribuisce a rendere l’atmosfera surreale, onirica e carica di presentimenti. È arrivato il momento di raggiungere la nonna e senza ricevere alcuna raccomandazione la bambina si avvia nel bosco. Ombre di rami spogli come lunghe dita pronte ad afferrare, un fortissimo vento che sembra nascondere parole tremende, la pioggia battente, suoni sinistri. Tutto si prepara per l’arrivo del lupo, che non sia fa attendere. È un bellissimo pupazzo dal pelo scuro e dallo sguardo vivissimo. L’attore che lo manovra è vestito di abiti eleganti e sembra proprio una di quelle persone garbate e piene di complimenti e di belle maniere dalle quali Perrault ricorda alle giovinette di diffidare. Questo lupo dalla doppia natura, una umana e l’altra animale, non spaventa la bambina, che ne è piuttosto ingenuamente incuriosita. È un lupo insinuante, si avvicina poco a poco, lascia che la bambina cominci a fidarsi, per poi avvolgerla con un filo rosso che la trattiene. Si muove con delicatezza, annusa, esplora il corpo disteso di Cappuccetto Rosso, un gesto che trova il suo culmine nella scena finale, quando la bambina si libera della sciarpa rossa, nella quale la madre l’aveva avvolta prima di lasciarla andare nel bosco, e si distende accanto al lupo. Come non ricordare le parole del lupo di Perrault: “Spogliati e vieni a letto con me”. La bambina sprofonda in quel letto, che si apre sotto di lei come una voragine. Ha inizio forse, in quel misterioso momento, il viaggio di iniziazione nella pancia-caverna del lupo. Questa immagine dello sprofondamento, dalle molteplici interpretazioni, ricorda anche Alice che cade giù nella tana del Bianconiglio, per poi riemergere cambiata, cresciuta, dopo un lungo viaggio, un sogno, ma così reale. Lo stesso accade alla nostra bambina, che si risveglia tra le lenzuola, ma è una giovane donna, che ha superato le sue paure perché è stata capace di guardare il lupo negli occhi: “Che paura ho avuto, era così buio nella pancia del lupo!”, scrivono i fratelli Grimm. La compagnia Zaches non omette i particolari inquietanti e ambigui della storia, perché intende mettere lo spettatore di fronte alla propria paura per riconoscerla e sconfiggerla. È in linea con questo ragionamento la scelta di lasciare che il lupo si aggiri, a un certo punto, tra le poltroncine del teatro, per dare a ognuno la possibilità di sperimentare un incontro ravvicinato con il personaggio più temuto delle fiabe e di reagire a proprio modo a quell’inaspettato confronto. C’è chi piange, chi si allontana, chi azzarda una carezza. La fiaba, in fondo, non è altro che la possibilità di sperimentare i nostri limiti ed è per questo che amiamo farci raccontare, ancora e ancora, sempre la stessa, aspettando il lupo con paura ed eccitazione, per vedere che effetto ci farà, stavolta.
Un
altro spettacolo nato dalla scelta di mettere in scena una fiaba
rifuggendo dagli addolcimenti è “Pinocchi”, per la regia di
Andrea Macaluso, che decide di raccontare solo i primi quindici
capitoli
della storia di Collodi. Lo spettacolo si interrompe infatti con l’impiccagione di Pinocchio. Gli attori in scena sono tre: hanno età diverse e fisicità diverse, presenze sceniche forti o meno marcate, e sono tutti protagonisti, a turno, dello spettacolo, che nasce dalle loro improvvisazioni sul personaggio di Pinocchio. Lo stesso Collodi scrive che ha conosciuto una famiglia intera di Pinocchi. Pinocchio diventa dunque un aggettivo, che può essere attribuito a chiunque. Macaluso e gli attori giocano su questa intuizione e lavorano sul concetto di “pinocchitudine”, uno stato d’essere che apparterrebbe a ognuno di noi. Gli attori mostrano al pubblico il proprio personalissimo modo di essere Pinocchio, restituendo alla fiaba una delle sue più potenti caratteristiche: essere specchio di chi la fruisce. Siamo tutti Pinocchio, ma ognuno lo è a modo suo. La scelta di mettere in scena una fiaba in assenza di scenografia, e puntando tutto sui corpi degli attori, sulle loro coreografie di movimenti, e sulle luci e le musiche, che scandiscono l’atmosfera del racconto, sono coerenti con il tentativo di Macaluso di portare in scena la fiaba senza abbellimenti, una narrazione a tre voci. I temi che emergono dalla prima versione di “Pinocchio” – temi scuri, complessi, come quello della morte – vengono raccontati mettendo in scena fedelmente le vicende della fiaba di Collodi, senza alcun tentativo di semplificazione. Gli unici oggetti in scena hanno piuttosto un valore simbolico, come le pere che Pinocchio divora con avidità, oppure la corda annodata a cappio, che racconta senza mezzi termini la fine del protagonista. Le parole sono quelle di Collodi, non ci sono interferenze neppure nel linguaggio. È una messinscena, questa, che richiede attenzione e che è importante seguire immergendosi fiduciosi in un meccanismo asciutto e simbolico, che si pone in termini di grande rispetto nei confronti della fiaba e dei suoi contenuti.
“Amici per la pelle”, per la regia di Renata Coluccini, utilizza invece la struttura della fiaba per raccontarci una storia di amicizia tra un uomo e un’asina. Trattandosi di una fiaba moderna ritroviamo dei riferimenti al mondo contemporaneo, che vanno dal problema della disoccupazione a quello dell’ambiente. Zeno è stato licenziato, sente il peso del fallimento e della solitudine, è stufo della sua vita precaria e insoddisfacente. Molly è prigioniera in un allevamento dal quale sa che non uscirà viva. È un’asina molto intelligente che diffida dall’uomo. Decide di scappare, ma è sola, perché gli altri asini sono rassegnati al loro destino e non vogliono neppure provare a darsi un’opportunità. Zeno e Molly hanno questo in comune, essere incompresi e quindi soli. Non è un caso, dunque, che Zeno possa sentire la voce di Molly, pur essendo un uomo: i due si somigliano molto più di quanto credano e questa vicinanza emergerà in maniera così forte che non potranno fare a meno di continuare insieme questo viaggio di scoperta. Molly è determinata, ha un obiettivo molto preciso e apparentemente semplice: raggiungere il suo luogo dei sogni abitato solo da animali, perché gli uomini sono banditi. Zeno invece è confuso, forse perché è un uomo e gli uomini spesso dimenticano che il loro obiettivo profondo è semplice. I due si incontrano mentre fuggono dalle loro precedenti vite, un allontanamento inevitabile e necessario, come accade spesso nelle fiabe. Zeno, travestito da asino per lavoro, viene scambiato da Molly per un animale della sua specie, ma non ha il coraggio di contraddirla e si mette in cammino insieme a lei, che le racconta la sua storia e il suo desiderio. Sembra l’inizio di una grande e infinita amicizia, ma noi spettatori, che conosciamo la vera identità di Zeno, sappiamo che prima o poi Molly scoprirà il suo segreto, e già ci chiediamo come ci si sente quando si viene traditi. Nonostante tutto, Zeno e Molly si ritroveranno e saranno fondamentali l’uno per l’altra. Renata Coluccini costruisce, dunque, una fiaba che parla di amicizia, di tradimenti, di ricerca della propria natura presentando allo spettatore due personaggi molto diversi: un uomo, nel quale possiamo riconoscerci, e un animale capace di parlare, che rappresenta in qualche modo quel bisogno di evasione dalla quotidianità, di un luogo magico in cui poter vivere un’avventura, essere un’altra persona, cambiare pelle, metterci alla prova. Senza Molly, Zeno è un ragazzo come tanti che decide di perdersi nel bosco per allontanarsi dai pensieri opprimenti. Probabilmente, se non fosse stato scambiato per un asino, se non fosse stato al gioco e se non si fosse fatto prendere dal sentimento dell’amicizia, sarebbe solamente tornato più tardi a casa dopo una lunga passeggiata. Invece, forse, Zeno, che è riuscito a farsi rappresentante di ogni spettatore, dopo questo viaggio, sarà una persona diversa e comunque più ricca. La fiaba rende possibile tutto questo perché ci permette di vivere contemporaneamente dentro e fuori dalla realtà e di applicare poi, nella vita, ciò che abbiamo sperimentato nel momento immersivo dell’ascolto.
Se “Amici per la pelle” utilizza la struttura della fiaba, “Buono come il lupo” è un lavoro costruito intorno a quello che viene considerato l’antagonista di moltissime fiabe.
Il lupo di Giallo Mare Minimal Teatro e I sacchi di sabbia ha perso il suo aspetto ferino, è in piedi su due zampe, veste elegantemente, sembra un impiegato pronto a sbrigare il suo lavoro di ufficio. È alla fine di un programma di riabilitazione per diventare buono, che per un lupo significa sopprimere tutti i propri istinti, primo tra tutti quello di essere un predatore. Noi spettatori assistiamo alla verifica delle competenze acquisita durante questo percorso. Il lupo esegue, con grande sacrificio, le richieste avanzate da una donna, della quale possiamo sentire solo la voce. Le prove sono durissime per un lupo, come quella di accarezzare un uccellino a ora di pranzo, piuttosto che mangiarlo! I bambini reagiscono divertiti, a volte interdetti, a volte increduli, di fronte a questo uomo ben vestito ed educato che non sembra affatto il temutissimo – e amatissimo – personaggio delle fiabe che conoscono. Per fortuna alla fine il povero lupo, stremato dalla grande fatica di fingere di essere quello che non è, si ribella ritornando alla sua natura selvaggia. E gli spettatori sono rallegrati dal fatto che la storia sia finita come doveva finire. Il lupo ha un ruolo ben preciso: scatenare la paura. È necessario il confronto con questo personaggio. Penso a “Il narratore” di Saki. Una vecchia zia cerca di tenere buoni i suoi nipotini che si agitano nel vagone di un treno e racconta loro la storia di una bambina buona e amata da tutti, che grazie alle sue virtù viene salvata da un toro. Questo racconto non desta alcun interesse nei piccoli interlocutori, ma quando un viaggiatore, che aveva assistito alla scena, prende la parola raccontando di una bambina “orrendamente” buona, tanto da essere divorata da un lupo, ecco che la storia diventa per loro interessante. La zia, però, è scandalizzata. Non si raccontano certe cose ai bambini. Questa storia la dice lunga anche su ciò che noi crediamo sia giusto destinare ai bambini nella loro fase di formazione.
È necessario che le fiabe conservino quella parte scura, misteriosa e inquietante che le caratterizza, perché rappresentano l’unico luogo protetto in cui sperimentare dei sentimenti tutti umani, dei quali però a volte abbiamo paura o ci vergogniamo. E possiamo farlo senza temere giudizio degli altri verso le emozioni che proviamo, perché tutto quello che accade quando si ascolta una fiaba, accade dentro di noi. Le fiabe difendono il diritto alle emozioni e il teatro, uno dei pochi luoghi in cui ancora si raccontano, può contribuire a mantenerne vivo questo ruolo fondamentale e necessario.
Nella Califano
Mario Bianchi a tutto campo
Durante la ventinovesima edizione del Festival Segnali di Milano abbiamo conversato con Mario Bianchi, fondatore della rivista on-line “Eolo”, vera e propria “colonna” dell’osservazione critica sul teatro ragazzi. Un’intervista “a tutto campo”, in cui Mario ci racconta della sua infatuazione per la scena dell’infanzia, tratteggia alcune evoluzioni storiche del teatro ragazzi e butta una sguardo sul futuro prossimo.