Cosa può un burattino? “Macbeth all’improvviso” di Gigio Brunello

È proprio di un certo tipo di teatro mostrare i confini della scena, dichiarare esplicitamente la finzione per saggiarne poi le capacità di tenuta, l’abilità nel “trasmutarsi” di livello in livello rappresentativo. Così fa, praticamente sin dall’istante in cui si accendono le luci e si apre la baracca, Macbeth all’improvviso di Gigio Brunello, un piccolo classico della ricerca per burattini. È infatti lo stesso burattinaio a porsi giusto un passo “al di qua” del patto narrativo, allentandolo, anzi, proprio nel momento in cui sembrerebbe doverlo stringere nella maniera più solenne: «Buonasera a tutti. Sono il burattinaio che questa sera farà lo spettacolo. Purtroppo devo iniziare con un piccolo cambiamento di programma. La tragedia Macbeth all’improvviso prevista per oggi non si fa». Un faro da 500 watt illumina con toni caldi Gigio Brunello, in piedi davanti alla baracca. È fuori dalla scena propriamente detta (almeno per ciò che concerne la grammatica del teatro di figura), ma allo stesso tempo e senza alcun dubbio è in scena, cioè calato dentro una parte che è già teatro, che costituisce al di là di ogni ragionevole dubbio un racconto. Il Macbeth non si farà: mancano i costumi e gli oggetti rifiniti per bene, e pare poi che l’artista – per sua stessa ammissione – non si sia preparato a sufficienza. Perciò, una volta entrato finalmente in baracca, Gigio Brunello dà vita, o perlomeno ci tenta, a tutto un altro genere di spettacolo restando, però, pienamente nell’ambito della meta-narrazione, del meta-teatro: il primo personaggio a presentarsi sul palco, dopo un “consueto” Arlecchino che interloquisce col pubblico “facendo gli onori di casa” («Mi scuso col pubblico ma prima di cominciare vorrei dissociarmi con una mia dichiarazione. Anche per il rispetto che il pubblico si merita») e mettendosi in giocoso contrasto con il burattinaio («Tutte scuse. La verità è che gli manca il coraggio di rappresentare il Macbeth»), è infatti un cosiddetto “generico”, un burattino cioè che costituisce usualmente la “struttura base” sulla quale vengono elaborati tutti gli altri burattini. Un semplice “scheletro” grezzo di legno, capo e volto intercambiabili a piacimento proprio come intercambiabili sembrano i piani e i livelli della narrazione, che passa dal Macbeth abortito dell’inizio a intermezzi di sospensione della storia fino a un fantomatico L’emigrante geloso di Goldoni che incomincia a tutti gli effetti da lì a qualche momento. I protagonisti sono le classiche maschere della commedia dell’arte, da Arlecchino a Brighella, a Pantalone e Balanzone, che in una altrettanto classica ambientazione veneziana si barcamenano fra intrighi amorosi, scambi di persona ed equivoci discorsivi in un affastellamento di vicende che pare ricalcare un andamento edipico (se non fosse che per i toni scherzosi e che al poto del rapporto incestuoso assistiamo infine a un parricidio inconsapevole). Alle spalle dei burattini, il fondo della parte alta della baracca è spoglio e parzialmente illuminato, in assenza dunque di scenografia ma anzi lasciando l’edificazione simbolica di una qualche quarta parete del tutto incompiuta. Gli stessi burattini-personaggi si mostrano consapevoli del contesto circostante: stanno “dentro” la storia e ne ricalcano con la recitazione gli andamenti emotivi, ma allo stesso tempo non mancano di ribadire il carattere artificioso del loro essere in scena (finite le loro battute si “auto-appendono”, visibilmente, ai ganci posizionati alle pareti interne del proscenio).

È come un mantice di fisarmonica che si apre e si chiude: talvolta l’immersione nella storia e nel lirismo arriva al massimo grado di pathos – noi tutti spettatori a seguire il dramma come incollati – mentre in altre occasioni la tensione narrativa si affievolisce lasciando emergere il sottotesto finzionale, la triangolazione incessante che si svolge tra burattini, baracca e burattinaio. Eppure, non si ha mai l’impressione di uno “stacco”, di scene differenti e disomogenee fra loro. Al contrario: è come se i vari piani e livelli fossero avviluppati ai personaggi stessi in un’unica e singolare “multidimensionalità”, che può espandersi o contarsi a piacimento. Proprio come – e appunto – il canale di trasmissione del suono di uno strumento musicale, la cui forma cambia e si modifica per trasmettere le vibrazioni, lasciando però intatta la coerenza melodica della melodia di superficie.

Fino a una scena che è, tuttavia, netta e dirimente. Dopo essersi mostrato al di fuori della baracca (“in carne e ossa”, per così dire) e dopo aver interagito con i burattini sia da demiurgo onnisciente che da “personaggio fra personaggi”, Gigio Brunello cede infine e definitivamente il passo alle “entità” che occupano il palco: «Ho detto che si fa il Macbeth. Ce l’hai il fegato?», afferma in maniera perentoria il “solito” Arlecchino che, a un certo punto dello spettacolo e in un momento di “stanca” della rappresentazione, decide in combutta con gli altri burattini di lasciar da parte la messa in scena dell’inedito goldoniano e riprendere il programma originario. «Indietro non si torna», risponde Birghella, dando appuntamento “a mezzanotte” sul palco per intraprendere ufficialmente l’allestimento shakespeariano.

Da qui, Macbeth all’improvviso prende sostanzialmente un’altra piega, dando dunque un senso compiuto al titolo e aggiungendo un ulteriore livello alla narrazione. I burattini – chi con maggiore convinzione, chi con meno, chi dovendo cambiare radicalmente il proprio tono recitativo e chi invece chiamato a operare delle semplici “rimodulazioni” per adattarsi al nuovo personaggio – iniziano la messa in scena della tragedia, provando a “sfidare” i propri limiti espressivi e presentando agli spettatori questa svolta del racconto come qualcosa di nascosto e segreto, di cui saremmo complici: «Sior capocomico, noi abbiamo deciso di tornare al Macbeth», dice Arlecchino rivolgendosi a Pantalone e indirettamente al pubblico. «Anche perché alla gente piace il sangue». E, d’altronde, che cos’è questa ricercata conflittualità (fittizia) fra burattinaio e burattini, per cui questi ultimi sembrano sfuggire alla più completa volontà del primo, se non un tentativo di avvicinare spettacolo e spettatori, sguardo della (dalla) platea e meccanismo scenico? Arlecchino e compagnia ci convincono non solo che Gigio Brunello non li sta manovrando – dopo che il momento iniziale ci aveva invece mostrato l’evidenza del contrario – ma anzi che il burattinaio sia all’oscuro di quanto sta accadendo sul palco. È questo – a richiamare le vicende della prima “tranche” di storia – un vero e proprio “parricidio teatrale” che trova infatti una sorta di concretizzazione scenica: a un certo punto il braccio di Brunello verrà tagliato da Arlecchino-Macbeth a segnare in maniera truculenta, sebbene a suo modo anche comica, il desiderio di emancipazione dei burattini. È come se si volesse condurre la “sospensione di incredulità” da parte del pubblico a un livello di complessità sempre più alto, dove però allora la coerenza dei vari piani di finzione comincia a sfaldarsi e le narrazioni si mescolano («Torniamo a fare L’emigrante geloso», piagnucola sempre Arlecchino in uno dei momenti di maggiore tensione degli sviluppi shakespeariani).

Quale domanda sorregge tutta l’operazione? Si tratta, evidentemente, di un corpo a corpo dell’autore con la sua materia, di un esplorazione ambigua e incessante di quella linea che divide l’alterità propria di ciascun burattino dalla volontà di chi lo manovra. In altre parole, Gigio Brunello si “sacrifica” per far sì che le sue “creature” assumano una maggiore autonomia, guadagna la capacità di diventare – in un modo bizzarro e che forse non può che essere sanguinolento e traumatico – co-autrici della narrazione. Eppure, sembra dirci lo spettacolo, una tale dinamica non può che avvenire nel solco di uno iato inatteso, grazie a una scelta intrapresa – appunto – all’improvviso, sebbene poi la struttura dello spettacolo sia qualcosa di evidentemente previsto e ben strutturato fin dall’inizio. Il divenire-personaggio dei burattini – e in questo senso il richiamo al “burattino generico” acquisisce un valore fondamentale – non è, cioè, qualcosa che si verifica nel momento in cui i vari e differenti “pezzi di legno” assumono una loro compiutezza e specificità, indossano magari i “giusti” costumi e impostano la voce nel modo in cui meglio si confà alla maschera che andranno a interpretare, bensì il segno – tangibile e tangibilmente ambivalente – di un’indecisione, di un conclamato tentativo di posizionarsi nel frammezzo dei fatti e delle possibilità sceniche. Di posizionarsi, esattamente come faceva Brunello, all’inizio dello spettacolo, un passo “al di qua” del patto narrativo, in quel punto in cui la concreta fattualità di quest’ultimo viene consegnata in tutto e per tutto nelle mani dell’attore, di chi da quel momento in poi dovrà – letteralmente – farsi carico dell’andamento della rappresentazione, sia che si tratti di un “finto Goldoni” o del Macbeth di Shakespeare. Trovandosi a spiegare che cosa è un attore all’interno dell’ingranaggio teatrale, diceva Eduardo De Filippo nel suo Lezioni di teatro: «[…] il regista non ha il diritto di cambiare l’animo del personaggio come lui pensa, perché il vero confessore del personaggio è l’attore. È lui che lo porta in scena». Ecco – ci fa capire Brunello – un burattino non è certo da meno.

Francesco Brusa




Riempire gli spazi vuoti: la libertà dell’immaginazione

Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?

Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.

Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.

Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni.  Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.

locandina di Non ho l’età (dalla pagina Facebook di Riserva Canini Teatro)

Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla.  Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.

Angela Ruozzi, regista de La meccanica del cuore, durante la nostra intervista al Teatro del Popolo di Castelfiorentino

L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno

L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera? 

Nella Califano, Michele Spinicci




Abbozzi di parola poetica. “Cari Cuccioli” di Compagnia Rodisio

I gesti cadono come fiocchi di neve. Non fanno rumore sul palco, se non appunto il lieve crepitio di passi su un manto soffice, l’eco di uno spostamento d’aria che è accenno, semplicità, rifinitura costante. Manuela Capece e Davide Doro  “calzano la scena” come fossero sotto una teca, tanto viva e a tratti sanguigna è l’intensità della loro presenza quanto sottile, sul filo della trasparenza, è l’esilità dei loro movimenti. Al Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio hanno presentato in prima nazionale Cari Cuccioli, spettacolo messo a punto in residenza presso l’Espace600 di Grenoble. Nella sala al piano superiore della struttura teatrale, un reticolo di carta argentata, ideogrammi e piccoli oggetti appesi a ricreare un tanabata (tradizione giapponese per cui le proprie aspirazioni e i propri desideri vengono affidati all’imprevedibilità del vento), esito di due giorni di laboratorio tenuto dalla compagnia con il giovanissimo pubblico (la produzione è a partire dai due anni) e genitori. Esito in perfetta sintonia con quelli che sembrano essere i presupposti dello spettacolo: dare forma all’invisibile, chiedersi di che pasta siano fatti i sogni e adagiarli in un alveo narrativo che ce ne mostri l’ordito.
Sforzo antropologico di uscita dalle tenebre, con ritorno all’ignoto. La scena si apre infatti su una piccola catasta di legno adagiata al limite del palco. Le braci la illuminano di una fioca luce, poi uno scoppio, una vampata e nel buio si leva un potente arzigogolo di fumo. Gli attori “accorrono” a tenere vive le fiammelle, approntando una danza soffusa fatta di soffi, ondeggiamenti di palmi della mano e respiri che si incrociano. Manuela Capece e Davide Doro sono una coppia, “cuccioli d’umano” spaesati di fronte all’oscurità ma consapevoli che la loro unione è già una forza sufficiente. Il resto sono solo strumenti: il fuoco per riscaldare la notte, tavoli, sedie e porte di un’abitazione che i due non cessano di comporre e organizzare per quasi tutta la durata dello spettacolo. Fuori c’è pericolo, c’è il lupo, c’è quel male fiabesco ma concreto evocato dall’unico momento testuale: una voce fuori campo che attacca appunto con «c’era una volta». Ma fuori è anche il non-luogo dove alla fine si recheranno i protagonisti, uscendo dalla porta mentre le luci si abbassano.
Come giustamente dice la compagnia, Cari Cuccioli è un haiku visuale. Brevi e concisi elementi che formano neanche una narrazione, quanto un’ipotesi di racconto che si avviluppa su se stesso, poiché ipotesi e progetto è innanzitutto è la scelta del vivere assieme rappresentata sul palco. Allo stesso modo dei poemi giapponesi, i gesti e gli oggetti che scorrono sulla scena (dei “versi motori” appunto) traggono sostegno da un’energia oggettiva, da un principio di composizione interno al “comporsi di ciò che ci ritroviamo di fronte”  cosicché anche gli attori vengono “sbalzati all’indietro”, incarnano non già dei personaggi ma appunto delle situazioni, abbozzi di parola poetica e noi li vediamo lontani come su di un leggio o dentro di una bolla natalizia. Quasi che alla classica quarta parete se ne aggiungesse una quinta, una sorta di filtro che rende le immagini dal palco dei “riflessi”, evocazioni dall’origine. Come tutte le evocazioni, vive se siamo noi a chiamarla e a infonderla di senso. Non importa in che modo: lo sguardo attento degli adulti dalla platea, gli schiamazzi spontanei dei bambini che crepitano in sintonia con i “gesti sulla neve”, pioggia primaverile ad abbattersi fuori sul teatro di Casalecchio e a rinforzare dentro l’idea di “focolare” che viene presentata sul palco. Ogni cosa è illuminata.

Francesco Brusa




teatrodelleapparizioni e Bartolini/Baronio. Racconti dal futuro

FIABE DA TAVOLO

Lungo un lato della Sala Squarzina, il foyer al primo piano del Teatro Argentina di Roma, un tavolo basso è sistemato davanti a una sedia vuota; accatastate accanto ci sono quattro vecchie valigie; a vegliare su questa composizione un unico faro che getta brevi ombre. Davanti, la piccola platea ospita genitori e figli, questi ultimi raccolti a gambe incrociate su dei cuscini stesi a terra. Fabrizio Pallara guadagna la scena e spiega la natura errante della fiaba, parla di storie che fanno il giro del mondo. Poi siede, aziona con un tocco un invisibile interruttore e una musica ci accompagnerà nel viaggio.
Fiabe da Tavolo è un solo della compagnia romana teatrodelleapparizioni, inserito nel focus monografico Ritratto d’artista, che il Teatro di Roma dedica ad alcune compagnie del territorio ma attive a livello internazionale. Lo spettacolo sta facendo il giro del paese a raccontare favole antiche e moderne, celebri e nascoste, di fronte a un’attenzione davvero cristallina, sollecitata da un voto totale alla semplicità. Come già splendidamente in Il tenace soldatino di piombo – anch’esso incluso in questa monografica – Pallara innesta il compito dell’aedo in una sessione di gioco individuale, ma sempre attenta allo sguardo dello spettatore. Dalle valigie estrae piccoli oggetti, figurine in scala e materiale da costruzione, per comporre di fronte agli occhi di bambini e adulti un racconto animato gentile e però approfondito.

Il pesciolino d’oro di Puškin arricchisce la vita del povero pescatore e di sua moglie, esaudendo i desideri di lei che vorrebbero una casa più grande, poi un palazzo, poi un castello. Una struttura di mattoncini si monta sull’altra ingigantendo la prospettiva e lasciando i due omini sempre più piccoli. Hansel e Gretel lasciano vere molliche di pane, l’attore se le mangia facendo la parte degli uccelli, la casa di marzapane è un sacchetto colmo di caramelle e marshmallow che fa venire l’acquolina in bocca. Ma se i fratellini, scampati alla strega, troveranno la ricchezza vendendo dolciumi, ai bambini in sala viene offerta una singola pralina di cioccolato, per insegnare la misura.
L’atto di “pescare” dal repertorio tradizionale è funzionale a un’educazione dell’attenzione, che risolve in sottili ellissi di senso i nodi cardine della cultura popolare. Su questa operazione regna dunque un’atmosfera sommessa, divertita ma magica, il confine tra apologo e morale non è mai delineato in maniera didascalica e, soprattutto, alla lezione facile si preferiscono problematiche vivide, un’argomentazione retorica che stimola lo spirito critico.

Un religioso silenzio domina la platea, fino a quando, ad applausi già scrosciati, una bimba chiede che cosa contengano le altre due valigie. Pallara concede un bis – Tre porcellini quasi del tutto ritratti per immagini, con un mazzo di cartoline a descriverne il viaggio; paglia, bastoncini di legno e mattoncini a costruire le case; un baffo di cartone e il soffiare forsennato a materializzare il lupo – ma lascia chiusa la quarta valigia valigia, attorno a essa la curiosità di tutti. È tempo di andare. Qualcun altro, chissà dove, aprirà una nuova scatola, per ascoltarne la voce.

Sergio Lo Gatto

 

I MUSICANTI DI BREMA

È sempre stata una di quelle favole conosciuta a memoria dall’inizio alla fine, per quella consueta trasmissione orale e per le inconfondibili illustrazioni, ma tuttavia poco sorprendente per i bambini, il cui disinteresse è attribuibile, chissà, alla mancanza dell’elemento fiabesco, rappresentato da principi e principesse, streghe e mostri.
I musicanti di Brema è ora diventata occasione per l’incontro di due compagnie romane molto vicine l’una all’altra per poetiche similitudini, coincidenti nell’intendere il teatro come spazio di narrazione condivisa, di lettura del presente per la scrittura di storie proiettate al futuro, che si vorrebbe passibile di cambiamento per gli spettatori di domani, grandi e/o piccoli che siano. Fabrizio Pallara dirige lo spettacolo omonimo alla favola dei Fratelli Grimm pensato insieme al duo Bartolini/Baronio, portando nella sala del Teatro India la vivacità chiassosa e incuriosita dei tanti bambini che riempiono la platea, dove capita di riconoscere anche famiglie di artisti e operatori. Tra cassette della frutta di colore blu scuro, impilate una sull’altra, vestiti con tuta e caschetto, Michele Baronio alla chitarra e Tamara Bartolini si presentano come due operai. L’una lavora, l’altro canta, entrambi raccontano – lei come voce narrante, lui voce degli animali – la storia dell’asino, del cane, del gatto e del gallo, lavoratori anche loro ma ormai in procinto di essere cacciati, o addirittura uccisi, dai padroni, perché lenti e inabili al mestiere e ora risoluti nell’intraprendere il viaggio verso Brema per diventare musicanti.

Con le videoproiezioni a cura di Maddalena Parise e la musica punk suonata dal vivo da Baronio (da Anarchy in the UK a La mia banda suona il rock passando per Seven Nation Army) il duo da un lato rende la favola una meraviglia visiva e sonora per i bambini, che si divertono a tenere il tempo mentre vengono affascinati dai giochi di luci e video; dall’altro invitano l’adulto a leggervi come sottotesto significante l’urgenza politica insita non solo nello spirito di ribellione dei quattro animali ma anche nel viaggio, inteso non come meta ma tensione conoscitiva, apertura mentale in grado di contenere orizzonti da spostare sempre più in là. Una musica, questa, che i quattro protagonisti animali non smetteranno di suonare, e poco importa se non arriveranno mai a Brema per fare i musicanti; a contare sarà la loro ribellione: una favola meravigliosa con una morale concreta di azione. Cammina, cammina, cammina…

Lucia Medri

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

FIABE DA TAVOLO
di e con Fabrizio Pallara
produzione teatrodelleapparizioni

I MUSICANTI DI BREMA
uno spettacolo di Bartolini/Baronio e Fabrizio Pallara
regia Fabrizio Pallara
con Tamara Bartolini e Michele Baronio
musiche Michele Baronio
immagini a cura di Maddalena Parise
produzione teatrodelleapparizioni




L’essenza misteriosa della poesia. Leonce und Leona di Teatro Medico Ipnotico

Sotto l’egida di una donna dagli occhi chiusi, forse sognante o forse una Medusa che attende di aprire gli occhi per trasformarci tutti in pietra, sul palco troneggia un teatro per burattini fatto di stoffa e pareti dipinte. Siamo davanti al Teatro Medico Ipnotico che ha proposto per il Festival Teatro fra le Generazioni di Castelfiorentino Leonce und Lena, un lavoro crepuscolare e magico capace, come la luce del tramonto, di far svanire i contorni delle cose sciogliendole le une nelle altre. Uno spettacolo di burattini per adulti o, più semplicemente, uno spettacolo di teatro che racconta una storia usando personaggi fatti di legno e carne.

Stupefacente è infatti la maestria di Patrizio Dall’Argine e Veronica Ambrosini, aiutati da Thea e Virginia Ambrosini, nel trasformare i personaggi inanimati in creature vive che offrono le loro vicende alla poesia e ai lazzi del testo e, a volte, anche a quelli del nostro tempo. Leonce und Lena racconta la storia di un principe e di una principessa di due regni vicini, obbligati a un matrimonio politico. I due giovani decidono di ribellarsi al loro destino e di fuggire, ma durante la fuga si incontrano in una locanda e si innamorano, senza conoscere le loro vere identità. La vicenda si conclude con un matrimonio proprio nel giorno della cerimonia ufficiale, voluta ugualmente dal re nonostante l’assenza dei due promessi, prontamente sostituiti da due automi. Il principe e la principessa riassumono le loro identità e trasformano le nozze politiche in un matrimonio d’amore.

C’è, nella cornice offerta alla commedia di Büchner un riferirsi alle vicende dell’oggi, non tanto nella forma dell’attualità ma in quella universale dell’esperienza umana. In fondo, come declamano i tre diversi imbonitori all’apertura del sipario, in questa storia possiamo leggere ciò che preferiamo: un dramma sociale, che parla delle nostre vite prigioniere di percorsi già tracciati; un dramma morale; o forse niente di tutto questo, la storia di poveri diavoli come noi, né santi né eroi.

Tuttavia Dall’Argine non rinuncia ad allusioni e battute che colpiscono l’oggi con sagace precisione e che vengono dosate in una mistura scenica capace di unire la poesia con la vocazione popolare, il mondo lunare e misterioso del teatrino con quello, assai meno affascinante, che ci aspetta al di fuori del teatro. È proprio questa sapiente dosatura di poesia e arte popolare, unita alla raffinata bellezza di ogni dettaglio, di ogni minimo elemento proposto sulla scena, e alla gestione dello spazio e del tempo scenico a trasformare uno spettacolo di burattini in un’opera d’arte al di là di ogni categoria.

Il mastro burattinaio sfonda i confini dello spazio, davanti e dietro, dentro e fuori, in un’ossatura ritmica dello spettacolo che coreografa le parole del dramma e i movimenti delle creature di legno, arrivando anche a irrompere sulla scena per il monologo del re, quando il capocomico, evasi i confini del suo teatrino e seduto in proscenio di tre quarti, indossa una marionetta e un guanto, per “ricordarsi di pensare per i suoi sudditi”. Una presenza inattesa, prosaica eppure ambigua come un sussurro, un momento di estrema intimità con gli spettatori, come a svelare un mistero, un trucco che già dimenticavamo di conoscere.

Tutto nella messa in scena è rapinoso, dai fondali, a volte quasi espressionisti, poche pennellate decise solcate da cromatismi violenti, alle scenografie oltremondane fatte di alberi pallidi, e di nuvole diafane che si illuminano d’oro al variare della luce, alla musica, creata per lo spettacolo da Marco Amadei e Luca Marazzi. Patrizio Dall’Argine, pittore e scultore, riversa tutto il suo talento nella creazione dei burattini. Ogni minuzia conta, e ogni personaggio ha la sua fisicità, i suoi dettagli unici, persino il suo tipo di legno. Alcuni burattini sono mobilissimi con gambe per danzare, la testa dura da sbattere per terra e mascelle per divorare polli arrosto, altri invece sono ieratici, eleganti, apparizioni quasi spettrali dall’anima di legno. Lo scenario abitato dalle marionette amplia la visione, richiamando nel formato lo schermo cinematografico e l’attenzione all’immagine creata è quasi fotografica, con la sua trama di luce e ombre, di colori e offuscamenti. Il lavoro sui movimenti dei personaggi, sul ritmo delle apparizioni, sull’abitare lo spazio scenico è quello di una danza, mentre le voci ci portano dal canto alla risata, dalle domande esistenziali al puro intervento comico. La scrittura scenica, a sua volta, attraversa un caleidoscopio di esperienze e di saperi e alterna lirismo e commedia fino a strizzare l’occhio al teatro contemporaneo come nell’intervallo tra i due atti, quando la presenza interlocutoria e abissale delle due ragazze con una maschera di legno si manifesta davanti al pubblico, mentre una voce fuori campo recita una lezione di tedesco, cedendo solo al nettare di un canto che a un certo punto si leva.

Sul finale, come uno squarcio su un mondo passato, la copertura inferiore del teatrino si solleva e ci rivela gli artisti di questa Baracca, in un momento di riposo dopo aver appeso i burattini ai loro sostegni. Un’immagine a ritroso, che condensa il tempo nell’arco di un instante mentre ci racconta una storia perduta. Il teatrino è finito ma la magia rimane, ed è quella di un’arte complessa, fatta di artigianato e dell’essenza misteriosa della bellezza che il Teatro Medico Ipnotico sa distillare come pochi altri.

Lucia Oliva




L’universo è un materasso. Il tempo del teatro

Per Maggio all’Infanzia 2017 , al Teatro Kismet di Bari abbiamo visto L’universo è un materasso, di Francesco Niccolini, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Recensione.

È proprio vero che quando ci si diverte il tempo trascorre più in fretta e quando ci si annoia non c’è modo di mandare avanti le lancette. Il teatro ci insegna, volta per volta, anche questo, che il tempo che ci prendiamo per assistere a uno spettacolo è di certo sottratto ai ritmi e alle logiche del vivere quotidiano, riorganizzato dentro codici e sistemi che sono e resteranno misteriosi. Invece di adeguarsi alle frenesie del presente, il teatro conserva l’opportunità di un’alternativa, uno iato che permetta di respirare, voltarsi indietro, perdersi. E a volte ritrovarsi.
È successo con L’universo è un materasso (e le stelle un lenzuolo), scritto da Francesco Niccolini per la regia e la potente presenza scenica di Flavio Albanese. La Compagnia del Sole (di cui avevamo parlato anche qui) ha la grande capacità di attraversare i generi in maniera orizzontale, tenendo vivo quell’artigianato della scena che si compone di pochi e vincenti elementi.

Lo spazio del Teatro Kismet di Bari si offre a una platea gremita di adulti e bambini, in una delle giornate della ventesima edizione di Maggio all’Infanzia diretta da Teresa Ludovico. Gli spalti rumoreggiano, le teste dei più piccoli si voltano di qua e di là in un buio che rende tutti sagome. Ma da quando luce si accende a quando si spegnerà per l’ultima volta, l’attenzione è tutta per Flavio Albanese.
L’attore pugliese indossa un completo scuro su una maglietta, bianca come i sottili guanti che vestono le mani. La folta barba castana macchiata d’argento e i lunghi capelli mossi lo disegnano nei panni perfetti di un personaggio della mitologia. Eppure non è solo questo. Per parlare del tempo, la scrittura rapida e precisa di Francesco Niccolini si fa bacchetta magica che tramuta costantemente l’unica figura sul palco: ora è narratore puro, presto diverrà Crono, messo “sotto processo” da tutti coloro che, nei secoli, si sono posti le grandi domande sul mondo.

Il racconto si snoda in quattro capitoli: dalla Teogonia di Esiodo attraversa l’epoca aristotelica, quella copernicana e infine approda a quella contemporanea, in cui calcoli irrazionali sembrano riportare nella mente degli scienziati lo stesso caos che aveva spinto Crono a separare la madre Gea dal padre Urano, dividendo finalmente la terra dal cielo. Alla grande razionalità di questa struttura drammaturgica si mette al servizio un vero e proprio mattatore, in grado di percepire le minime frequenze di attenzione del pubblico, di far dialogare fino a quattro personaggi grazie a minuscole variazioni nel registro della voce e di disegnare nel vuoto interi pezzi di universo.
L’immagine del materasso e del lenzuolo, allora, non è solo un modo per spiegare che il tempo ci può avvolgere, ma risuona nella grande elasticità di questa prova scenica, basata – ancor prima che sulla didattica – su una relazione di divertimento. Niccolini e Albanese non mettono a punto un’opera di puro intrattenimento, ma collaborano nel racchiudere una quantità (forse addirittura eccessiva) di informazioni dentro la vitalità del corpo in scena, ben sostenuto dalla semplice scena di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto, una trapunta nera che – come scandendo scena per scena – si illumina come un puntaspilli di stelle.

Il grande pregio di questo lavoro sta nella sapienza con cui i mezzi del teatro vengono impiegati in un’operazione di accompagnamento rispettoso dei ritmi e dell’immaginario del bambino e, insieme, dell’adulto. Il viaggio – pur così ampio nel raggio cronologico e a volte complesso negli snodi essenziali – procede senza alcuna concessione alla concitazione esagerata né all’esasperazione di pose e macchiette, correndo piuttosto una maratona eccezionalmente regolare, che porta quasi di sorpresa alla constatazione finale.
Le nuove frontiere della fisica quantistica e della teoria della relatività sono in grado, tramite il pensiero umano, di uccidere ogni dio e, forse, ogni tiranno, restituendo il controllo di un caos generativo alla capacità umana per eccellenza: la fantasia. In questo appassionante viaggio interstellare, allora, il teatro è la forma delle forme, lo spazio dove tutto compare e tutto scompare. «Le cose esistono solo se le fai esistere; le cose si vedono solo quando le illumini».

Sergio Lo Gatto

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Teatro Kismet, Bari – per Maggio all’Infanzia 2017.

L’UNIVERSO È UN MATERASSO (E LE STELLE UN LENZUOLO)
Diretto e interpretato da Flavio Albanese
Scritto da Francesco Niccolini
Collaborazione artistica e Luci Marinella Anaclerio
Scena da un idea di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto
Assistente alla regia Vincenzo Lesci
Foto e Video DIANE Ilaria Scarpa­ Luca Telleschi
Consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti
Consulenza musicale Roberto Salah-addin ReDavid
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: Piccolo Teatro di Milano, Ammirato Culture Club House, Santarcangelo dei Teatri, Alcantara Teatro e Marta Marrone




Alan e il mare di Giuliano Scarpinato. Una favola di redenzione

Alan e il mare ha debuttato in prima nazionale al Teatro Verdi di Milano, nel Festival Segnali. Recensione di Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica.

La fotografia del piccolo Alan Kurdi riverso sulla spiaggia turca di Bodrum l’abbiamo vista tutti. Tutti. La reazione di tutti è stata anche la nostra. O almeno questo crediamo.
C’è un fatto, ci sono dei testimoni. Ci sono dei riceventi di quella testimonianza. E poi quella testimonianza scompare. Diventa una nuvola tossica che investe anche coloro che avrebbero preferito non sapere nulla. Persiste una sorta di abuso del reale che ricostruisce la verità dentro un suo riflesso immediatamente inaggirabile, surrogato, sinistro.

Tramutare la cronaca in fabula, depredare i fondamenti della realtà per ricostruire attorno a un fatto reale e puntuale un effetto poetico e universale. Questo sembra essere il progetto di Giuliano Scarpinato, che con Alan e il mare ha debuttato al Teatro Verdi di Milano per la 28° edizione del Festival Segnali. Il progetto di Scarpinato – giunto a compimento per la produzione del CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG e Accademia Perduta Romagna Teatri – è infatti rivolto ai giovani spettatori e arriva mentre è ancora fresco il sofferto successo di Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, che ha infiammato tribune e bacheche e sbattuto nelle prime pagine culturali la questione dell’identità di genere. La sala è piena ma, prima, il foyer è pieno di aspettativa, per questo artista che, dalla vittoria del Premio Scenario Infanzia alle infuocate polemiche per il precedente lavoro, è stato visto come un pericolo per il pubblico degli adulti più conservatori, una novità problematica per i bambini e per il sistema teatro a loro dedicato.

Una nota necessaria a margine di questa visione deve riguardare il contesto. Alla prima nazionale la platea era piena soprattutto di adulti, tra cui un numero nutrito di artisti e operatori. Una insufficiente rappresentanza di bambini e ragazzi non ha forse permesso di osservare l’opera attraverso gli occhi di questo particolarissimo target, spostando l’attenzione su codici di ricezione più adulti.

La scena è sgombra, sul fondale una parete di pannelli translucidi ritagliati come un mosaico scaleno, una sorta di vetro frantumato che si illuminerà di videoproiezioni e animazioni grafiche, facendo da sfondo a un’azione tutta concentrata sui corpi dei due protagonisti, Federico Brugnone e Michele Degirolamo. Uno alto e barbuto, l’altro minuto e glabro, sono un padre e un figlio. Stando alle note di regia, i nomi sono quasi l’unico riferimento puntuale al fatto di cronaca. Perché l’intenzione sembra essere quella di comunicare al pubblico che di storie come quella del “piccolo Alan” ce ne sono state e ce ne saranno centinaia.
Il padre sveglia il figlio e lo affretta a vestirsi, ché «oggi non si va a scuola, oggi c’è la gita». Perché la scuola, l’intera scuola, non c’è più. I due si imbarcano su un gommone che naufraga poco dopo, travolto da un’onda di cui vediamo e udiamo la furia sullo schermo e nelle orecchie. Ci sarà il tempo per contare le stelle e immaginare costellazioni, dopodiché il bambino verrà inghiottito dal mare.

Il resto della vicenda sembra svolgersi nella mente del padre, alla ricerca di una strategia per convivere con un lutto così atroce. La moglie compare, quasi sempre silenziosa, avvolta nel suo velo e con lo sguardo fisso di chi non è più lì, fantasma al quale parlare da sdraiati, con il corpo scosso dalle convulsioni.
Alan, intanto, si è trasformato in pesce. Nei deliri del genitore un incontro è possibile, ma non la parola. Il corpo del bambino è diventato quasi molle e senza scheletro, le articolazioni non legano più, Alan è un essere abituato alla libertà del fluido liquido, sguscia tra le braccia del padre in impossibili valzer, guizza di qua e di là per poi tornare fatalmente nella sua nuova Atlantide. Il fondale si apre e lo ingoia dietro uno schermo che ne offusca la messa a fuoco; uno specchio diafano gli doppia i movimenti. A dispetto dell’enormità del mare, dove si può fare amicizia con alghe e anemoni e immaginare mondi immensi, il suo angolo è stretto e limitato, è una bara di luce che non contiene più di una persona.

In questa favola lirica, incorniciata dai colori sgargianti delle animazioni (fluide e ben curate da Daniele Salaris), i tragitti a piedi diventano grotteschi videogame da abitare con gesti meccanici, il lungo tragitto per lasciare la Siria e raggiungere la Svezia attraversa capitali/cartolina, ma c’è spazio anche per la schiacciante pressione dei media, quando il profugo deve rispondere a mille domande sotto il peso dei microfoni o imparare un arzigogolato e poliglotta decalogo di regole da rispettare.
L’uso del codice della favola sembra avere l’intento di rendere universale un capitolo orribile della storia etica del mondo contemporaneo, astraendosi dalla brutalità del fatto così come è stato diffuso e recuperando una forma di affezione verso immagini vive, firmando un’alleanza rinnovata con la materialità dei corpi, curata infatti nei movimenti scenici fino a un dettaglio quasi coreografico.

Sappiamo che la foto di Alan con il volto affondato nella sabbia – qui mai mostrata, solo evocata nella posa iniziale di Degirolamo e nel rosso/blu dei suoi abiti – ha aperto cuori e coscienze degli utenti dei media di massa e digitali, ha aperto il portafogli degli stati europei al cospetto dell’inferno dei rifugiati. Ma quanto realmente ci riguarda tutto ciò che sta dietro?
Nell’elegante costruzione visiva e nella scansione drammaturgica resiste ancora qualche concessione a una sorta di barocchismo, a un’apparenza plateale: una più massiccia presenza di spettatori bambini, portatori di un immaginario più libero del nostro, garantirebbe forse un terreno di ricezione più neutro. Se Fa’afafine discuteva un’evidenza contemporanea lontana dalla maggioranza delle biografie degli spettatori, Alan e il mare maneggia un tema scottante, ma ancor di più punta a stemperarne quell’oscenità messa a punto dai media, di cui siamo tutti responsabili.

L’operazione corre così sul filo della sollecitazione retorica, eppure mira a sollecitare un’immaginazione attiva (dagli 8 anni in su): per mettere a punto questo scarto poetico il segno registico tenta allora di ricompensare lo spettatore (senza età) con un preciso controllo dei mezzi e dei modi, in equilibrio tra il rituale di espiazione e la denuncia alla superficialità, fotografando il fatto reale sullo sfondo di una disperata battaglia con la nostra relativa percezione.

Ogni riferimento alla cronaca, la quale guadagna una nettezza agghiacciante solo nel finale, subisce in quest’opera una sorta di redenzione del linguaggio. Allora poesia e fiaba sono usate qui non come zucchero per far mandare giù una pillola, ma come grido disperato per mostrare il livello carnale – e, per contrasto, immaginifico – di un’esperienza mediatica che tutto il mondo ha vissuto nella piattezza della bidimensionalità.
Soprattutto le immagini fotografiche, che nella puntualità fondano la propria estetica, si posizionano in un “tempo-senza-tempo”, per dirla con Manuel Castells, in cui non sembra esservi speranza di radicarle nel terreno della coscienza. Navighiamo nella ormai proverbiale atemporalità dell’evento: nella società della condivisione e della trasparenza ogni contenuto si fissa istantaneamente e, in quello stesso istante, il suo impatto smette di progredire, sommerso dall’onda delle “reazioni”. Allora, forse, la risposta sta nell’immaginazione e nel corpo.

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

ALAN E IL MARE
testo e regia Giuliano Scarpinato
assistente alla drammaturgia Gioia Salvatori
interpreti Federico Brugnone, Michele Degirolamo
in video Elena Aimone
scene Diana Ciufo
luci Danilo Facco
videoproiezioni Daniele Salaris
movimenti scenici Gaia Clotilde Chernetich
costumi Giuliano Scarpinato
progetto grafico Rooy Charlie Lana
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Accademia Perduta Romagna Teatri