Intervista a Letizia Quintavalla

Pubblichiamo la prima di una serie di interviste ad alcuni tra gli artisti più significativi che hanno attraversato la storia del teatro ragazzi. Le conversazioni si riferiscono all’anno 2014 e sono tratte dal materiale di tesi di laurea in Storia del Nuovo Teatro Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi di Nella Califano. Si tratta di un progetto di interviste che, indagando le diverse poetiche degli artisti coinvolti, intende approfondire alcuni temi ricorrenti nel teatro ragazzi come le modalità di narrazione e messinscena della fiaba, il coinvolgimento dello spettatore e il concetto di tout public.

Partiamo con Letizia Quintavalla, dagli anni Settanta regista e drammaturga per il teatro ragazzi e una delle storiche fondatrici del Teatro delle Briciole di Parma. Nell’intervista che riportiamo di seguito un focus su uno dei suoi spettacoli più affascinanti, Con la bambola in tasca, su testo di Bruno Stori, un classico del teatro ragazzi nel quale un bambino scelto tra il pubblico diventa personaggio principale della storia.

[Intervista realizzata a Parma il 24 febbraio 2014]

Quando ha inizio la sua esperienza con il teatro ragazzi e quali sono le motivazioni che hanno indirizzato la sua ricerca teatrale verso il mondo dell’infanzia?

Mi sono laureata nel ’76 in Storia e Filosofia a Bologna, ma avevo avuto delle esperienze abbastanza forti con i bambini in situazioni al limite, in particolare grazie ad un pedagogista, Andrea Canevaro, che proponeva agli studenti di lavorare direttamente a contatto con i bambini. Accettare una proposta del genere penso dipendesse anche dal periodo storico: si faceva strada l’idea di ristrutturare la cultura e la scuola, che è l’origine di ogni rivoluzione vera; credo, quindi, di essere approdata al mondo dell’infanzia anche per una motivazione politica. Le prime esperienze che io e Maurizio Bercini ci trovammo a fare insieme erano i doposcuola alternativi, vicino Parma, dove si lavorava con i bambini al pomeriggio, in via del tutto gratuita, e quindi si veniva in contatto con insegnanti che volevano lavorare in modo collettivo, a favore di una pedagogia non del riempimento, ma dell’insegnare imparando rispetto al bambino. Cominciava a farsi strada l’idea di un bambino competente ed erano gli stessi anni dell’animazione teatrale che, sebbene stigmatizzata dal teatro ragazzi, era caratterizzata da un grande afflato sia politico che umano nel suo approccio ad una rivoluzione culturale. Credo che alla base della mia formazione ci siano questi due tipi di esperienze, quella locale, molto diretta, e quella politica e culturale.
Finita l’università, io e Maurizio Bercini decidemmo di andare a conoscere un grande burattinaio di cui avevamo sentito parlare, Otello Sarzi, con l’intenzione di portarci i bambini. È stato un incontro determinante e un anno dopo, siamo andati a lavorare con lui. Faceva un teatro molto “anarchico”, diceva di si a tutti, non ha mai mandato via nessuno ed è stato per noi un incontro teatrale molto artigianale da certi punti di vista e molto umano da altri. Sarzi lavorava con i burattini sia a livello tradizionale che sperimentale, e una parte del suo lavoro era dedicata proprio ai bambini. I laboratori erano improntati per lo più sulla costruzione, quindi c’era un approccio manuale e anche questo si rifaceva ad una passione che avevo fin da piccola, che probabilmente veniva dall’osservazione: mio padre, infatti, era scultore e pittore, affrescava le chiese. Credo che il mondo dell’infanzia abbia dentro molta arte, quindi restare legata a quel mondo significava per me vivere la vita in modo molto artistico.
Finita l’avventura con Otello Sarzi, che si interruppe per via di alcune sue personali vicende familiari, noi giovani ci staccammo, insieme ad alcuni della cooperativa, dal Teatro del Setaccio e fondammo la Cooperativa Teatro delle Briciole, mantenendo l’idea del collettivo, di un senso di uguaglianza e volevamo dedicarci completamente al teatro per ragazzi.
Il primo spettacolo è stato Il piccolo principe (1976-77), che aveva come dominante il rapporto con l’infanzia e soprattutto la relazione adulto-bambino (un tema che ritorna nel 1994 in Con la bambola in tasca). Il primo spettacolo per un gruppo è fondante rispetto alla strada che si decide di intraprendere e non a caso era uno spettacolo misto di burattini e attori, che non avremmo potuto far da soli come gruppo, per cui ci siamo appoggiati ad un regista esterno, Gigi Dall’Aglio, del collettivo Teatro Due di Parma, che ha portato un grande contributo grazie alla sua idea di voler valorizzare ciascuno a seconda delle proprie capacità. Avevamo anche un drammaturgo che, insieme al regista, si occupava degli spettacoli nei primi tre anni, poi abbiamo iniziato ad acquisire capacità registiche e drammaturgiche che ci hanno permesso di andare avanti autonomamente, ma questi contributi hanno impostato e dato molta sicurezza al gruppo, lo hanno fondato, fortificato, e hanno aiutato ognuno di noi ad ascoltare e quindi sviluppare le proprie capacità. Questa è stata una grande scuola. Da lì i primi spettacoli sono stati tutti dedicati al teatro ragazzi, avevamo uno degli organizzatori più esperti del teatro per ragazzi, Gabriele Ferraboschi, che era stato anche l’organizzatore della compagnia precedente di Sarzi. Io piano piano ho smesso di recitare, a questa decisione ha contribuito anche la nascita di mio figlio. Ho fatto l’attrice ancora per qualche anno, poi ho sentito che la cosa che mi interessava di più era la regia e la drammaturgia: osservare per poi ricollegare le parti, è una cosa che so fare e che mi piace fare.

Lei dice che il suo teatro rifugge da intenti didascalici ed educativi, al limite si pone degli obiettivi “didattici”. Mi può spiegare cosa intende e come si concretizza?

La didascalia è da bandire in ogni arte, ci può essere un teatro didascalico alla maniera brechtiana, che ti aiuta a migliorare il mondo, ma questo non è particolarmente evidente nei miei spettacoli, posso inserirlo piuttosto nella mia metodologia di lavoro. Il teatro non deve suggerirti ciò che devi o non devi fare, ma è importante che lasci intuire allo spettatore cosa vuol prendere per se stesso da una storia, di cosa ha bisogno lui. Preferisco drammaturgie conseguenti e logiche ma non essere troppo esplicita, meglio lasciare degli spazi, dei vuoti che vanno colmati da chi guarda, che prenderà ciò che della storia gli interessa maggiormente. Non importa se un bambino non la capisce tutta; non mi pongo come obiettivo che i bambini capiscano tutto, ma che sentano tutto. Il mio compito è quello di rendere la storia più organica possibile tenendo conto dell’età del pubblico a cui è dedicata, dello spazio, del contenuto, evitando accuratamente di non rifugiarsi nell’esperimento artistico. Non riesco a prescindere dal pubblico che ho davanti: è giusto per me fare cose “difficili”, cioè che prevedano il superamento del limite, ma devono essere temi che interessano sia me che il pubblico, per questo bisogna fare delle scelte in relazione all’età degli spettatori.
Per me l’unica pedagogia possibile è quella che lascia al bambino (ma anche ad un adulto…) lo spazio della sperimentazione autonoma: l’adulto, o chi conduce un lavoro, dovrebbe intervenire pochissimo, ma piuttosto creare delle situazioni e fornire degli strumenti a chi sta scoprendo il mondo e scoprendo se stesso nel mondo. Per questo le attrici di Con la bambola in tasca hanno come indicazione registica di non intervenite mai se è evidente che i bambini possono arrivare da soli alla soluzione.

Che rapporto ha il suo teatro con la fiaba? Cosa significa costruire la regia e la drammaturgia di una fiaba a teatro? E che importanza riveste il teatro di fiaba per i giovani spettatori?

Il Piccolo Principe e Michelina la strega e Il Mago di Oz si rifacevano alla fiaba popolare, ma quando con Nemo, Il topo e suo figlio, e Con la bambola in tasca, oltre alla fiaba si comincia a tenere conto della morfologia della fiaba. Ci siamo posti delle domande: di cosa ha bisogno una fiaba? Di quali archetipi? Quali sono le funzioni importanti che si ripetono in una fiaba? L’esigenza principale è quella di conoscere la fiaba e i suoi elementi essenziali, che si possono ritrovare anche in un mito, in un romanzo o in altre strutture narrative. Per esempio Il topo e suo figlio non è una fiaba classica ma ne contiene tutti gli elementi, tutto il carisma. La fiaba rientrava perfettamente nella nostra ricerca sia sulla relazione che sull’estetica-etica del Micro-Macro. Negli anni settanta era un po’ di tendenza destrutturare i finali positivi delle favole, il finale cosiddetto “aperto”: si sperimentava in questo senso, ma a noi non piaceva, le fiabe dovevano finire come dovevano finire.
Nemo, per esempio, è la storia di un bambino che non riesce a dormire e fa incubi ogni notte e ogni notte vive un’avventura. È stato il nostro primo spettacolo e conteneva vari elementi fiabeschi come l’idea della notte, del sonno, il rapporto con la madre e con i mostri, c’era l’aiutante magico e tutte le varie prove da superare.
In genere le fiabe sono assolutamente illogiche: per esempio perché il lupo non mangia subito, al primo incontro nel bosco, Cappuccetto Rosso? La struttura della fiaba non da neppure il tempo di farti questa domanda, perché è troppo interessante la sua natura sintetica e il suo essere quasi un precipitato chimico di tante complessità. Inoltre la fiaba nasce da una relazione, c’è qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta. Il racconto risale alla notte dei tempi, quando davanti ad un fuoco si raccontava della caccia, vera o finta che fosse, ma che l’ascoltatore poteva vedere attraverso le parole del narratore. Alla base c’è quindi la relazione. Un bravo narratore deve sapere a chi sta raccontando la sua favola: è un bambino di tre anni? O di otto? O di dodici? Di cinquanta? Di ottanta? Non stiamo parlando di quel lato bambino inteso come l’”eterno fanciullo”, ma del lato profondo dell’ascolto, che è intuitivo, è quello che gli orientali chiamano “mente profonda”: non si sente col cervello, ma con un’altra parte, che è sempre un’intelligenza, ma un’intelligenza profonda, quindi non ci si perde in una logica stringente, che non è interessante in quel momento. Nella fiaba invece c’è una relazione e il vero polo attivo è chi ascolta. Sembra che a condurre sia solo il narratore perché conosce la storia, e quindi la gestisce come vuole, ma in realtà chi racconta è solo il sacerdote officiante. Senza Comunità, invece, la storia non avrebbe senso. La vitalità del teatro è data dal fatto che c’è qualcuno che ascolta. Il teatro per esistere ha bisogno del pubblico. L’incontro con la fiaba – come con ogni altra forma narrativa – avviene se in essa è contenuto un tema di cui sento la necessità di dover parlare, quindi a volte prima ho scelto il tema e poi in un secondo momento cerco un testo che contenga questo tema. Nel caso di Con la bambola in tasca, per esempio, ho trovato nella fiaba di Vassilissa tutte le cose di cui volevo parlare. Le favole sono tali quando contengono un’iniziazione e Con la bambola in tasca più che uno spettacolo, è un rito di iniziazione per il pubblico, per la bambina e l’attrice.

Come è nata l’idea dello spettacolo Con la bambola in tasca? E in particolare come è nata la scelta di coinvolgere nello spettacolo una bambina attribuendole così una vera e propria funzione drammaturgica?

Nasce per caso. Ero a Bologna, guardavo dei libri su una bancarella e cominciai a sfogliare Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès. Il primo capitolo che lessi fu proprio quello sulla fiaba di Vassilissa . Ho trovato lì i temi di cui volevo parlare, e in particolare il rapporto con l’intuito. Rispetto alla drammaturgia e alla regia, invece, è stata importante la suggestione di uno spettacolo che qualche anno prima avevo visto ad un festival, un Piccolo Principe messo in scena da un artista belga. C’era un momento dello spettacolo in cui l’attore chiamava un bambino del pubblico sulla scena perché interpretasse il piccolo principe. Era fatto molto bene, anche se rientrava in una dinamica tipica del circo, del teatro popolare, secondo il quale si coinvolge qualcuno dal pubblico per attirare l’attenzione degli spettatori, che vengono presi in contropiede da una forza emotiva inattesa, come se, percependosi in quanto corpo unico, vedessero staccarsi un pezzo di sé e andare sulla scena. L’attore non teneva il bambino in scena per molto tempo, e ciò che mi aveva colpito di più era la sua capacità di non farlo sentire a disagio. Quando, qualche anno dopo, mi sono chiesta come e a chi far interpretare il personaggio della bambina Vassilissa in Con la bambola in tasca, la risposta è arrivata immediatamente: una bambina del pubblico! Questo espediente ha innescato un lavoro immane di cui non avevamo pratica se non nelle animazioni teatrali o nei lunghi laboratori tenuti presso il Teatro delle Briciole. Era necessario fare molte prove in cui lavorare continuamente con l’attrice e delle bambine. È stato necessario pensare ad una struttura drammaturgica che potesse contemplare la presenza costante di una bambina in scena, ma che permettesse anche alla bambina di decidere liberamente, in ogni momento dello spettacolo, di uscire di scena e ritornare tra il pubblico, tra la sua tribù. Bisognava sperimentare tutte le variabili possibili affinché non si sentisse mai a disagio. Abbiamo sempre preferito che fossero più bambine a darsi il cambio, a partecipare a una sorta di la staffetta nel portare a termine l’impresa di vassilissa ; infatti quando una bambina decide di uscire dal cerchio rosso, dalla storia, dalla scena, viene invitata un’altra bambina al suo posto e così si evita anche che ci sia un’ unica protagonista, ma si possa vedere una vassilissa collettiva. Speriamo sempre che non resti fino alla fine una sola bambina, ma che lo spettacolo diventi piuttosto l’ occasione per un’iniziazione di gruppo: come se la tribù-pubblico mandasse un suo rappresentante a staffetta, in modo che la conquista del fuoco finale sia veramente diluita in più persone, in più protagoniste. E’ bene che nello spettacolo ci sia almeno un cambio di bambina, cosicché non ci sia il pericolo di sentirsi…reginetta della storia.

In che modo viene scelta la protagonista fra il pubblico?

In realtà ci siamo resi conto che è la bambina che sceglie. L’attrice guarda negli occhi le spettatrici e, quando vede una bambina con sguardo disponibile, le mette il fazzoletto rosso in testa, simbolo di vassilissa. Prima dello spettacolo si chiede alle insegnanti se ci sono bambine tra il pubblico con gravi handicap di cui l’attrice potrebbe non accorgersi, in modo da evitare un coinvolgimento che potrebbe creare disagio, ma una volta è accaduto che l’attrice scegliesse proprio una bambina, che le era stato raccomandato dall’insegnante di non chiamare in scena perché da poco arrivata da terra di conflitto ed era ancora scossa dalla esperienza della guerra. Ma era stata proprio quella bambina a manifestare con il suo sguardo e i suoi modi la curiosità e il bisogno di partecipare al gioco teatrale. La bambina restò fino alla fine dello spettacolo conquistò il fuoco e ritornò tra il pubblico più forte.

Mi può parlare della costruzione dello spazio e della scenografia, e della conseguente relazione che si viene a creare con gli spettatori?

La scenografia è caratterizzata da tre elementi: un tappeto rosso di forma circolare, al cui interno si concentra molta energia. Una sedia bassa bianca, la sedia della Cantadora. Un fondalino bianco con dipinto sopra un fuoco rosso.
Abbiamo capito che il fuoco nella drammaturgia era fondamentale, perché è il motore che spinge la bambina a svolgere tutti i compiti–prova per ottenerlo, la conquista del fuoco è il pretesto per crescere, quindi era necessario che fosse presente.
La scelta dello spazio nasce dal concetto di micro-macro, del piccolo e del grande, che si può tradurre anche nella relazione adulto – bambino.
Questo concetto si può coniugare in tante forme, anche come individuo e collettivo, come singolo attore e gruppo di spettatori. Da qui la prossemica che caratterizza questo lavoro: il rapporto con il pubblico determina lo spazio adeguato.
Con un pubblico di bambini di tre, quattro, cinque anni so che se mi allontano da loro otto o dieci metri mi percepiscono a fatica o comunque diversamente se mi colloco a tre, quattro metri. Quando parliamo di spazio parliamo di prossemica, di distanze emotive e anche della distanza che permette di avere una visione complessiva. Tutto questo è uno studio che va sperimentato, non si può decidere a tavolino senza un riscontro pratico, anche per questo abbiamo fatto tante prove aperte con i bambini, proprio per capire questo tipo di relazione.
Quindi lo spazio è determinato anche dal tipo di pubblico e dal numero degli spettatori. Io ritengo che gli spettacoli per bambini della scuola dell’infanzia deve essere proposto tassativamente per un numero massimo di 90 bambini.
Nel caso specifico abbiamo utilizzato l’elemento delle circolarità (già presente in altri spettacoli) come elemento drammaturgico da una parte e dall’altra per la necessità di ottenere una percezione e un’attenzione molto concentrate e dense. Si voleva restringere la scena per creare più intimità.
Non ho mai fatto uno spettacolo per bambini delle scuole dell’infanzia ( tre – cinque anni) da palco cioè con i bambini seduti in platea, sento che è sbagliato rispetto alla relazione, è innaturale, non organico.


Le dimensioni degli oggetti utilizzati in scena non rispettano la regola della proporzione. Qual è la motivazione all’origine di questa scelta?

Alla base della scelta degli oggetti per la scena e delle azioni che da essi ne conseguono, c’è il grande binomio vero-finto.
Nello spettacolo ci sono due oggetti di grandi dimensioni usati dalla strega Baba Jaga, un mestolo e un coperchio che copre una pentola inesistente: si tratta di una proposta di allenamento ad un codice linguistico nel quale non si dice cosa sarà finto e cosa vero … si consegnano alla bambina-Vassilissa degli strumenti perché possa realizzare delle associazioni immaginifiche. Con il teatro si va in un altro mondo, non c’è una ricostruzione oggettiva della realtà, è un allenamento mentale molto più interessante, perché necessità dell’intuito.
Inoltre la Baba Jaga ha una casa molto piccola, ma le piace molto mangiare e dice che il fuoco serve per prima cosa a cucinare: la strega ti nutre senza darti a mangiare, mescola una zuppa che non c’è! E’ colei che da la spinta vera a far crescere.

L’ attrice ha un doppio ruolo, quello di narratrice e quello di interprete. Mi vuole parlare di come ha lavorato ai diversi livelli di scrittura drammaturgica? E come ha lavorato con le varie attrici?

Nello spettacolo Con la bambola in tasca l’attrice ha cinque ruoli, che sono le cinque funzioni del femminile: all’inizio è l’Attrice; poi, quando si siede sulla sedia, diventa Narratrice, la cantadora, quella che cura l’anima con le storie; nel momento in cui prende la bambina sulle ginocchia assume il ruolo di Madre che poi va via per ritornare vestita da Strega Baba Jaga, che non è più la mamma che accoglie, che aiuta, ma che mette davanti alla difficoltà e la fa superare. Infine diventa la Bambola che rappresenta l’intuito, che va alimentato, a cui va data fiducia, è la parte più intima di ogni persona, di ogni donna.
Queste cinque funzioni sono tutti dei personaggi, quindi hanno anche una definizione fisica, un movimento, una voce. La strega ha segni molto carichi per la postura e per la voce, per esempio l’attrice usa una noce dentro la guancia per alterare il viso e la voce, piccolo “inganno” che del resto viene svelato e dichiarato nei cambi della bambina e nel finale.
La Strega in questa fiaba ha una funzione precisa: quella di creare l’ostacolo affinché Vassilissa lo superi. La piccola Bambola di stoffa sta sempre nella tasca del grembiule di Vassilissa, ma durante le prove dei lavori le viene data la voce dall’attrice che si serve di un microfono e sta nascosta dentro la casetta da dove può vedere da un piccolo foro la bambina e i suoi movimenti. La voce e il testo (in parte improvvisato) della Bambola hanno un ritmo che si modifica per intonarsi a quello della bambina, ma deve essere sempre un ritmo teatrale.
La Narratrice è fondante, deve essere neutra, ma stando dalla parte di qualcuno, perché un narratore sta sempre dalla parte di qualcuno, anche se solo da quello della storia. L’Attrice è quella nel prologo dello spettacolo, pone domande filosofiche al pubblico perché ha fiducia nel fatto che i bambini possono fare cose difficili e fa capire loro che per entrare in questa storia bisogna fare cose difficili. C’è una sorta di dialogo “socratico” tra lei e i bambini: con le sue domande cerca di far emergere ciò che è presente in loro.
Prima di lavorare con le varie attrici di Con la bambola in tasca è stato necessario capire se erano predisposte a questo genere di relazione. Mi sembra abbastanza necessario aver frequentato bambini e, soprattutto, è necessario essere capaci di mettere il proprio ego a servizio di questo spettacolo, cioè da parte. È importante che sia un ego che osserva, accoglie, previene, offre possibilità, indirizza senza obbligare o forzare, in qualche caso anticipa.
La dimensione profonda su cui abbiamo lavorato con le attrici è stata quella dell’intuito. Dovevano capire a che punto fosse il loro intuito, sperimentando con esercizi rispetto allo spazio e alla relazione con l’altro. L’attrice deve tenere la bambina nella finzione, trattandola come se fosse un’altra attrice e facendole sentire il gioco di complicità tra di loro.
Il personaggio, però, è attraversamento ed è necessario che la bambina capisca che non bisogna crederci fino in fondo, infatti dietro l’attrice c’è sempre anche la Narratrice, la Mamma, la Bambola., la Strega Baba Jaga

In che modo viene coinvolta di volta in volta la bambina che entra in scena? Le vengono date istruzioni? In che modo?

La drammaturgia di questo spettacolo è pensata come un rito di iniziazione e tutti i momenti di cui si compone non sono in funzione della storia ma della relazione. L’attrice all’inizio quando deve offrire alle bambine del pubblico il fazzoletto simbolo di Vassilissa, guarda negli occhi le bambine e, al contrario di quanto si possa pensare, sono loro che, anche inconsciamente, decidono di farsi scegliere, perché hanno negli occhi la curiosità e il coraggio di provare ad entrare nel gioco teatrale. Questo spettacolo riveste per le bambine un momento fondamentale, che è quello dell’iniziazione e, in quanto tale, avviene pubblicamente, attraverso l’investitura per mezzo del fazzoletto e davanti alla tribù dei simili.
L’investitura avviene così: il fazzoletto rosso viene provato sulla testa delle bambine, finché non si trova quella giusta, cioè colei che accetta la Bambola che gli offre l’attrice, che contemporaneamente le offre anche la mano lasciando la scelta alla bambina di stringerla o meno, e quindi di seguirla o meno al centro del cerchio rosso della scena. Esiste una drammaturgia per ogni gesto, se infatti l’attrice toccasse e prendesse lei la mano della bambina, avrebbe deciso per lei.
Il momento successivo è quello in cui la bambina viene vestita con un grembiulino rosso e successivamente le viene chiesto di sedersi in braccio all’attrice. In generale le bambine si fidano, anche perché tutto è fatto con molta delicatezza.
Per esempio se la bambina è rivolta troppo verso il pubblico, cioè è troppo esposta allo sguardo l’attrice deve fare in modo che la bambina guardi lei, in questo modo l’attrice può guardare sia la bambina che il pubblico.
Quando l’attrice capisce, o, meglio dire, intuisce, che la bambina non vuole più continuare a stare in scena, anche se non lo vuol fare vedere, o sta per piangere, l’attrice la congederà con il rituale del cambio, cioè accompagna al posto con una formula rivolta pubblico: “Adesso questa Vassilissa è stanca, è stata molto coraggiosa e ora ritorna a casa”. Sta alla sensibilità dell’attrice sentire il momento giusto per fare il cambio: né troppo presto né troppo tardi, bisogna aspettare sì il limite, perché la paura bisogna provarla per superarla, ma non aspettare troppo…
Se la bambina decide di uscire dal gioco il tecnico da dietro il fondale si adegua al cambio anche lui facendo un morbido cambio luci e manda la musica che accompagnerà sempre ogni cambio, che è anche il tema dello spettacolo. Se il cambio avviene in una scena in cui c’è la Strega, allora l’attrice, a vista, lentamente, si abbassa il cappuccio del costume da strega dalla testa, sempre a vista si toglie la noce dalla bocca, toglie il fazzoletto rosso e il grembiule di Vassilissa alla bambina, le da un bacio, la riaccompagna al posto e poi cerca un’altra bambina tra il pubblico con le stesse modalità dell’inizio, la porta dentro al cerchio e di nuovo cambiano luci e musica e si ritorna al punto in cui la storia si era interrotta un poco prima, è ovvio che è molto importante l’intesa muta tra l’attrice e il tecnico. Il cambio è delicatissimo, bisogna uscire ed entrare piano, ed è un momento magico se tutte le fasi vengono rispettate; c’è un tempo sospeso per il pubblico e per la storia. Il gruppo-tribù degli spettatori riprende con sé la bambina e ne consegna un’altra alla storia affinché possa andare avanti e concludersi. Quando una bambina ritorna al posto le altre potrebbero sentirsi spaventate e se i rifiuti si sommano bisogna intervenire con un espediente accuratamente studiato: la Narratrice ritorna nel centro del cerchio rosso, si siede in mezzo e resta ferma, immobile, guarda il pubblico, poi comincia a piangere sotto voce e con quel finto pianto dichiara una debolezza: “La storia non può andare avanti senza una Vassilissa.”. Quando sente che il momento è maturo ripropone il rito dell’investitura con il fazzoletto rosso e di solito funziona.

Si sono verificate difficoltà nel corso degli anni nell’inserimento della bambina? Trova differenze fra le bambine di oggi e quelle che hanno vissuto la stessa esperienza negli anni passati?

In questi venti anni (1994 -2014) lo spettacolo si è continuamente modificato, è vivo. Non risente del fatto che i bambini cambiano, piuttosto abbiamo notato che le bambine sono meno abili a svolgere i lavori manuali, non hanno più l’abitudine al fare, adesso quelle che hanno più dimestichezza con la manualità e svolgono meglio i lavori-prove dello spettacolo sono spesso le bambine provenienti da altri paesi, da altre culture. Le attrici tengono dei diari in cui riportano questi cambiamenti.
Nel tempo e con le molte repliche e la conseguente esperienza che si sono fatte negli anni, le attrici tendono a coinvolgere bambine sempre più piccole per Vassilissa, e quindi tendono come attrici e persone a spingersi in difficoltà maggiori, quasi a sfidare la loro capacità intuitiva di condurre questo rito.
In generale io penso che i bambini siano la cartina di tornasole del paese dove vivono, del governo che c’è in quel paese, insomma di come vanno le cose nella loro polis, sono loro la cartina di tornasole di come è concepita la scuola, gli insegnanti e il loro aggiornamento, e se è una società in cui gli essere umani si rispetto e si ascoltano.

E il giovane pubblico? Come vive la relazione con la fiaba? E con il cambio di ruolo della loro compagna che interviene nella messa in scena? Si sono registrati cambiamenti su questo versante negli anni?

I bambini partecipano molto a ciò che accade in scena e provano una grande ansia per la compagna. Si possono distrarre molto se l’attrice conduce male questa relazione e diventa troppo intima con la bambina, escludendoli, cioè dimenticando il pubblico. Quando questo accade gli spettatori cominciano a distrarsi e disturbare.
Lo spettacolo è caratterizzato da una geometria sottilissima. La bambina deve essere sempre visibile ma protetta dal pubblico e pur restando nella storia non deve dimenticare la relazione con i compagni, ma neppure interessarsi troppo a loro, con i quali potrebbe cominciare ad avere un dialogo e l’attrice non avrebbe più un ruolo di riferimento (soprattutto nelle repliche dove tra pubblico ci sono i genitori). Per il pubblico non sarebbe più uno spettacolo ma un’animazione teatrale, dove si vede un’attrice che gioca con una bambina, invece il pubblico deve assistere a del buon e utile Teatro .
L’attrice per poter stabilire una relazione di complicità con la bambina, deve trovare il modo di concentrarsi su di lei sì, ma senza eccedere, per esempio prendendola da parte, o parlandole di nascosto e per non escludere il pubblico dalla loro relazione a due ci sono delle regole molto precise: per esempio, se l’attrice sa che la bambina per la scena è meglio se sta in un determinato punto dello spazio scenico, non può spostarla toccandola o spingendola, ma deve spostandosi lei stessa in modo che la bambina per vederla si sposti a sua volta proprio nel punto dove è meglio che sia per l’armonia geometrica della regia, regia che si basa su un’ estetica organica per gli attori e per gli spettatori, affinché l’immaginario si componga in metafore e visioni.

Intervista a Letizia Quintavalla, in Nella Califano, Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi, Tesi di Laurea in Storia del Nuovo Teatro, Corso di Laurea in Discipline dello Spettacolo dal vivo, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, a.a 2012/2013.




“La parabola dell’animazione teatrale” di Piergiorgio Giacchè

Ripubblichiamo in questa sezione materiali, spunti, interviste già edite altrove in passato ma che ci paiono ancora utili per una discussione sulle forme del teatro che dialoga con diverse generazioni.
A seguire un saggio di Piergiorgio Giacchè, rivolto ai prodromi e ai movimenti dell’animazione teatrale, tratto da
Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte (a cura di Debora Pietrobono e Rodolfo Sacchettini, Edizioni dell’asino, 2011). “La parabola dell’animazione teatrale” rientra fra gli interventi di artisti, studiosi, critici e operatori (fra gli altri: Maurizio Braucci, Vittorio Giacopini, Franco Lorenzoni, Giuliano Scabia, Virgilio Sieni, Emanuele Valenti) raccolti nel testo in seguito al convegno “Teatro e infanzia”, promosso da Goffredo Fofi e Marco Martinelli, e organizzato nel 2009 a Scampia da Punta Corsara. Un insieme di riflessioni teorico-pratiche e un’istantanea necessaria su alcune esperienze artistiche di rilievo, “con” e “per” i ragazzi, incentrate sul rapporto tra teatro e processi educativi.

 

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Chi non ha mai fatto l’animatore, scagli la prima pietra. Non c’è educatore, insegnante o perfino genitore che nel sociale, nella scuola o appena in famiglia non sia stato convertito o contaminato dall’animazione artistica e spettacolare. Sono decenni che l’animazione è diventata l’integratore dell’intrattenimento sociale e il redentore dell’educazione infantile e adolescenziale, per due motivi: uno vecchio come la scuola e riassumibile nel motto Delectando discitur e uno nuovo come la società dei consumi che, dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, è passata dall’abbondanza alla creatività. L’animazione ha combinato e riassunto in sé il tempo della ricreazione e il modo della creazione, diventando la parola d’ordine e l’attività di disordine di tutto il processo educativo. Ancora oggi si valuta più l’inventiva che la competenza quando si parla di insegnanti; ancora oggi si crede più nella (immediata) liberazione che nella (faticata) libertà quando si parla di studenti. Ancora e soprattutto oggi ci sono animatori in ogni reparto del nostro immenso paese dei balocchi, sia pure ridotti a commessi del giocare per forza e del creare per finta. In particolare, l’animazione teatrale è sfuggita presto di mano ai suoi coraggiosi inventori e si è dichiarata – da tutti e per tutti – una facile scoperta.

1.
C’era una volta l’animazione teatrale, e da qualche parte magari c’è ancora. La sua breve storia teatrale è stata oscurata dalla sua geografia sociale. Oggi è un servizio esteso e invadente, ieri era un’esigenza artistica precisa e importante. La trasformazione – o il tradimento – a seconda dei punti di vista – è stata segnalata in tempo, ma la cultura di massa e la società democratica non hanno raccolto né l’allarme né tanto meno la scomunica [1]; anzi, non vedevano l’ora che l’arte si facesse da parte per poter disporre di un nuovo fattore e di un nuovo settore del proprio mercato, pardon “progetto”.
Invece la prima animazione aveva ambizioni e faceva rivoluzioni di una certa importanza, almeno per quelli che facevano o che fruivano teatro, e sarebbe bene ricordarne – sia pure in sintesi – il senso o forse i due sensi in cui si è spesa e da cui ha tratto qualche guadagno.
Io ero l’albero e tu il cavallo, si intitolava un libro di Franco Passatore. Io sono il cavallo, Marco Cavallo, rispondeva Giuliano Scabia [2].
La prima stagione dell’animazione teatrale ha esplorato da subito due vie: una si è coniugata con il gioco e si è immersa nell’isola dell’infanzia, l’altra si è combinata con il rito e si è mossa verso il continente degli adulti. Erano anni in cui la pedagogia e l’antropologia erano due dimensioni rinnovate o ritrovate, due discipline quasi coincidenti e nemmeno divise per classi d’età.
L’animazione teatrale – è bene ricordarlo e rivendicarlo – non è nata come un trucco per la sopravvivenza del teatro o come una trovata per piazzare spettacoli semplici e artisti deboli. È stata invece il prodotto esuberante e il processo di conquista di un teatro in grande stato di salute, che credeva di potersi sviluppare e di doversi proiettare negli atti e nei fatti della vita sociale.
C’è stato un momento in cui il teatro era diventato importante non solo per quei vertici di teoria e di regia che sono giustamente ricordati come i maestri, ma anche per la proliferazione e la generosità di quei “gruppi di base”, che insieme facevano “la somma degli attori”: attori intenti a riprodursi prima che a produrre, e attenti più al processo artistico che al prodotto spettacolare, più alla cultura teatrale da rifondare, da sviluppare, da diffondere che alla società del teatro così com’era ancora concepita e istituzionalizzata (e come è ancora adesso). Il teatro – quel teatro “terzo” che per un periodo non è stato secondo a nessuno [3] – si sentiva dunque così forte, nella sua povertà e nella sua differenza, da esplorare altri spazi e conquistare altri tempi. Intanto, gli spazi allora canonici e politici della scuola, fabbrica, quartiere, ma poi anche gli spazi dimenticati delle campagne e delle montagne e quelli vietati dei manicomi e delle prigioni… E quindi i tempi arretrati delle tradizioni o appena dei loro ricordi, ma poi anche i ritmi feriali di una quotidianità nevrotica ma insoddisfatta. E ancora e di più, i tempi negati delle condizioni più emarginate e sofferenti.
L’animazione teatrale non avrà fatto gran che, ma in quella prima stagione ha promosso il tempo festivo e lo spazio liberato dove e quando e per quanto gli è stato possibile. E – bisogna ricordare e sottolineare – sempre di arte del teatro si trattava, e non del suo uso strumentale o della sua funzione sociale [4]. L’essere strumento era semmai la sua premessa motivazionale, e guadagnare una funzione appena la sua ricaduta. Ma in mezzo e nel profondo c’era la cultura e l’arte teatrale con il suo senso (liberatorio) o il suo non senso (provocatorio): il suo linguaggio da alimentare e da sperimentare, e il suo coraggio di rischiare… Per una posta in gioco che era perfezionare il suo gioco e far proliferare il suo rito (in altri termini, la sua Finzione e la sua Relazione), e – quando si trattava di un buon teatro e di una buona animazione – l’obiettivo del gioco e del rito era la sua arte. Non la sua parte.

2.
Se si considera in tutta la sua ampiezza ed esuberanza, si può leggere quel momento o quel movimento di “animazione” – con la sua specializzazione pedagogica e attenzione antropologica – più che attraverso il segno che ha lasciato nel rapporto con l’infanzia e con la scuola (il “teatro ragazzi” nasce allora e poi magari cresce troppo), come il sogno di una ritrovata “infanzia del teatro”: infanzia segnata anche da una letterale perdita della parola a vantaggio del suono e del gesto [5], ma infine caratterizzata da una forte corrispondenza fra la illimitata esportazione del gioco del teatro e la sostanziale importazione di progetti e soggetti sociali a vantaggio dell’arte del teatro. Non si è trattato infatti solo di conquista di luoghi insoliti ma anche di modi finora estranei alla cultura teatrale, attraverso molte “spedizioni antropologiche” degli esploratori del teatro verso gli indigeni del sociale (i bambini in prima fila, ma non solo i bambini).
L’animazione ha avuto un doppio risultato: non solo quello relativo all’intervento teatrale proiettato all’esterno, ma anche quello di una altrettanto importante ri-animazione interna al teatro stesso. Nella gratuità e nella liminarità dell’animazione si sono potute scomporre e ricomporre le componenti dell’arte scenica, non solo con obiettivi funzionali ma anche con effetti rigeneratori. Ci si è aperti cioè a contaminazioni con le forme e le sfide di altre arti e linguaggi, situando il teatro al centro di una piattaforma performativa più ampia e più ricca. Il teatro e il suo attore – o “animatore” – si è esposto e proposto al centro delle varie forme espressive, in qualche modo “teatralizzandole”: dalla musica alle arti plastiche e visive, dalla poesia alla letteratura orale… Si può dire allora – per fare un esempio – che la rinascita e il successo degli attori-narratori è una delle eredità indirette dell’animazione; così come si può dire che, prima ancora dello sviluppo abnorme del teatro-ragazzi, l’animazione ha stimolato il recupero di stili oratori e oratoriali, di forme fiabesche e circensi, di oggetti e di corpi e di animali e di piante che da allora abitano ormai la scena – ogni scena – e la aprono a tutto quello che si può rapire e trasferire dal “teatro del mondo” al “mondo del teatro”.
Infine – anche per via e per merito dell’animazione – si è scoperto un pubblico più vasto, non solo come quantità ma come qualità e provenienza; un pubblico contattato e quindi catturato più attraverso il fare che il vedere teatro, un pubblico spesso battezzato da primitive esperienze sceniche e quindi cresimato come complice, e come ospite, e infine come parente. In effetti – come si sa – negli anni e per via degli atti della prima animazione, il “fare teatro” è diventato più diffuso e più importante del “vedere teatro”, e questo cambiamento ha allevato molti attori e rieducato molti spettatori. Anche se ha finito poi per eccitare fin troppi “assessori”, che – come si sa – non sono stati estranei al suo eccessivo sfruttamento e definitivo mutamento…

3.
Se si guarda – per  una volta – al pulviscolo delle presenze attive e delle iniziative diffuse che costituiscono la nebulosa del teatro e – soltanto dopo – si considerano le stelle di prima grandezza artistica, ci si può accorgere di come il “teatro antropologico e pedagogico” di trent’anni fa, sia rapidamente passato da fermento artistico a fenomeno sociologico per non dire politico, con conseguenze imponenti sia per la vita sociale che per la sopravvivenza teatrale.
In sintesi bruciante e in modo approssimato si può riassumere questo capitolo della sua “capitolazione” – se così si può chiamare il passaggio dal senso alla funzione. Il teatro di base e quindi di ricerca e infine di sperimentazione è un fenomeno troppo vasto e vario per essere contenuto in una sola parabola. E però si può disegnare una linea generale, che magari non spiega quasi nulla ma che riguarda quasi tutti i gruppi teatrali nati negli anni settanta e ottanta e vivi ancora oggi: le “isole galleggianti” (per usare la metafora e la ricetta di Eugenio Barba) che avevano attivato il loro commercio teatrale con la terra ferma del sociale [6], usando le regole primitive dello scambio reciproco ovvero del dono (donare animazione al sociale per ottenere spazi e fondi utili alla sperimentazione teatrale), si sono trasformate – prima – in penisole di un’attività festiva e di consumo saldamente ancorata all’istituzionalizzazione dell’effimero (leggi: assessorati alla cultura). Ed hanno finito – poi – per sistemarsi fra i settori di un’attività feriale e di servizio che ancora oggi assicurano la sacrosanta sopravvivenza a centinaia di attori che di giorno fanno gli operatori e di notte gli artisti, dividendosi a metà fra la parte e l’arte. Così, fra la funzione da vendere e il senso da acquistare è nato un difficile equilibrio; e fra gli atti di vita artistica e i fatti della sopravvivenza degli artisti è sorta una certa contraddizione.
Niente di male, anzi un po’ di squilibrio e di contraddizione non guasta affatto il teatro: lo mette in condizioni di toccare terra e darsi una ragione, ma al contempo lo può spingere verso l’urgenza di sragionare in modo diverso e di poter guardare al cielo. Niente di male, soprattutto per tutti quelli che man mano perdevano la voglia o non avevano il talento per dare scalate o occhiate al cielo: comunque sia, il diffuso e confuso “teatro servizio” non è un “peccato”, ma anzi introduce una selezione benefica e una stratificazione necessaria, che mantiene un humus fertile indispensabile all’ecologia del teatro e all’agricoltura della sua arte…
E il teatro e l’arte – come si sa – si sviluppano meglio in un terreno abitato e lavorato: ognuno in effetti può vedere (e dovrebbe aver già visto) che è nelle zone geografiche e nei momenti storici di maggior densità teatrale che nascono proposte spettacolari e ricerche estetiche più alte (sia da parte degli attori che da parte degli spettatori, anzi di sempre nuovi attori e nuovi spettatori).
Tutto sta ad essere consapevoli della situazione, tutto sta a saper sfruttare lo squilibrio e saper scegliere dentro la contraddizione, a vantaggio del senso (teatrale) e non della funzione (sociale).
E allora quasi tutto sta su chi tiene il problema politico per il manico, altrimenti il tema poetico può avere un brutto svolgimento.

4.
Restando al teatro (ma davvero si potrebbe allargare il campo e lo sguardo a tutte le attività culturali) i personaggi e gli interpreti del dramma di una “politica culturale”, da allora in continua espansione e in altrettanto continuo svuotamento, sono due: l’attore e l’assessore. Direi anzi che l’attore è stato quasi sempre l’affannoso interprete di un personaggio politico e amministrativo fin troppo dominante. Ormai, il “regista” degli eventi, il costruttore dei “contenitori”, il promotore e il direttore delle arti e degli spettacoli è il Politico di turno, peraltro sempre meno attento al sociale e sempre più intento all’elettorale. Ma, perversioni a parte, il fatto è che il rapporto tra assessore e attore è stato fin da subito male impostato, e non poteva che portare a una forma di pesante subalternità, in definitiva suicida per la cultura e in fondo anche per la politica.
Fra attore e assessore (come fra animatore e preside, tra operatore e organizzatore…) non si dovrebbe mai porre una questione di potere ma di sapere. Sul piano del potere l’artista non ha voce e la contesa non ha storia. Su quello del sapere invece, le competenze si dividono e i ruoli possono anche stratificarsi in modo “rivoluzionario”, dando al Cesare di turno soltanto quello che gli compete e all’Io di chi propone e si espone una quota non indifferente di autorità (e di responsabilità). In breve, il saper fare dell’artista deve mantenere la sua autonomia e rivendicare una sua preminenza, altrimenti lo squilibrio e la contraddizione non sono più agibili né visibili. E l’enigma complesso del teatro – della sua organicità e gratuità e relazionalità – finisce per degenerare in un equivoco.
Quale equivoco? Quello di un teatro “applicato” e spesso “smembrato” (in dizioni e lezioni, traduzioni e drammatizzazioni, addestramenti e abbellimenti, volta a volta orientati a soddisfare i più diversi clienti e obiettivi), che può giustamente essere meglio amministrato da un assessore che non da un attore, meglio da un preside che da un animatore…, più consapevoli e veri responsabili del servizio culturale e sociale a cui molti teatri si iscrivono e al quale tutto il teatro finge di (e finisce per) sottomettersi. In effetti, rivendicare una funzione e contribuire a un servizio è di vitale importanza per i teatranti (se non per il teatro), e tuttavia non è mai artisticamente conveniente (ma solo politicamente convincente) ridurre l’autonomia della cultura teatrale o nascondere (e nascondersi) la questione prioritaria del senso o del non-senso del teatro.
E però così è andata, se si guarda al seguito della annosa parabola dell’animazione: sempre più in crescita quantitativa come servizio (soprattutto scolastico), e in calo qualitativo come sfida (soprattutto sociale). Anche il più agguerrito “teatro sociale” (recentemente ribattezzato) non riesce più a rovesciare la frittata del potere dalla parte del sapere. Si spende in sacrosante manovre difensive, ma continua a scontare lo scarto fra la sua esplicita e inevitabile integrazione, e l’implicito e spesso inconfessato valore della sua provocazione [7].
Forse era tutta qui la forza dell’animazione negli anni della sua prima e bella stagione: lo stato di salute del teatro lo si misura anche e soprattutto sulla sua capacità di inserirsi nel sociale come contraddizione, e perfino come contrapposizione.

5.
Intanto però, a tutt’oggi – limitando l’osservazione al rapporto tra teatro e scuola – si può dire che il consolidamento dell’animazione procede, ma in modo inversamente proporzionale alla sua incisività. In ogni scuola di ogni ordine e grado gli animatori teatrali sono più numerosi e forse meno precari dei supplenti. Anche se si giocano ogni anno il loro “contratto” nel saggio di fine d’anno obbligatorio e consolatorio: uno spettacolo superaffollato sia in scena che in platea cui è affidato il compito di realizzare quella quadratura del cerchio fra diritto al gioco e dovere dello studio di antica tradizione.
Sono ancora frequenti nei palcoscenici scolastici le tragedie greche o le commedie in inglese, ma sempre più spesso si tratta di libere composizioni o ardite interpretazioni di temi – più che di testi – che una faticosa drammaturgia-coreografia deve mettere in bella, perché sia insieme la mostra e la festa della scuola. Ma non sono questi i tempi di gloriose tradizioni ma di stantie abitudini, e il teatro della scuola più insiste e meno resiste alla concorrenza, più si consolida e meno risponde all’esigenza della novità; si vuol dire che sta invecchiando come proposta espressiva verso gli studenti, e che sta scadendo come portatore dell’immagine di una scuola sempre all’arrembaggio dell’aggiornamento. Le sue qualità funzionali di ausilio didattico e di effetto terapeutico e di corroborante della sociabilità sono ancora indiscusse e però sono già “scadute”, come avviene per un vecchio prodotto, un vecchio consumo [8].
Così inevitabilmente e inesorabilmente, la diversità e la disobbedienza, la libertà e la provocazione del teatro fatto dai ragazzi non è più un valore, e nemmeno un colore. Parlo della sua “immagine” nel mercato del servizio, e non della sua effettiva sostanza ed efficacia. Parlo di come se ne parla (o non se ne parla più), guardando al fenomeno del teatro a scuola su vasta scala, del suo generale impianto sociologico e del suo generico impatto culturale. In questo giudizio o in questo destino non sono e non si sentiranno coinvolte le esperienze di punta (corsara e non), o le realtà artistiche più alte e più solide. Ma chi crede di sentirsi lontano e diverso da ciò che succede nell’humus, ovvero nello strato ecologico più basso del pianeta teatrale, sbaglia. E sbaglia due volte.
Primo, perché la valutazione del teatro nell’attuale cultura politica e politica culturale è influenzata più dalle iniziative diffuse e confuse che non dalle poche esperienze di riconosciuto valore o di accertato successo. Secondo, perchè non è affatto vero che, nelle infinite realtà minori dell’animazione scolastica, manchino idee ed energie significative; e non è vero che i loro esperimenti spettacolari ed elaborazioni culturali siano di nessun conto o di nessun effetto. Molti animatori e attori continuano a lavorare nelle scuole con la massima serietà e con la massima fantasia, senza disattendere al compito di contribuire – anch’essi – alla ricerca di senso dell’arte scenica, sia pure dimensionato e orientato verso gli attori “in erba” e gli spettatori “per caso” del teatro scolastico.
E fra gli attori e gli spettatori di questo vivaio, alcuni si staranno già mettendo alla ricerca del teatro di domani; e prima o poi anche loro cominceranno a fare i conti con la funzione da vendere, magari nascondendosi il tema del senso da acquistare…
Ma non è detto che sia inevitabile. E dunque non va detto.

6.
Vada come vada, è comunque sul senso del teatro che si dovrebbe tornare a fare movimento e opinione. A fare cioè resistenza e disobbedienza, per rimettere al centro dell’attenzione la contraddizione o almeno la competizione fra il “sapere” e il “potere”. Ma chi può davvero permettersi di riequilibrare il rapporto tra senso e funzione del teatro, tra sapere e potere, tra fare e vendere arte e cultura?
Prima di tutto gli spettatori-critici. È inutile che ci nascondiamo le responsabilità di quei pochi spettatori che si occupano e si preoccupano del teatro, che hanno domande aperte e un rispetto fiducioso verso gli artisti. Sono (o siamo) pochi, e circondati da un pubblico e da un politico che non si deve mediare ma contrastare. E l’assessore – almeno qui da noi – è infine la figura che suo malgrado incarna di buon grado il “politico pubblico” e il “pubblico politico”. Bisogna smettere di credersi intercessori delle grazie politiche e dei fondi pubblici, scribacchiando lodi e segnalando premi qua e là. Sia verso il pubblico che verso il politico (a cominciare dall’assessore ma a finire con l’abbonato), è un altro l’atteggiamento critico efficace e non più rinviabile: “Colpirli tutti per educarne anche solo uno”, è il compito attuale del critico, che deve finirla di ritenersi un recensore ormai senza lettori e senza valori.
Il teatro è aperto a tutti ma non è di tutti: non tutti partecipano alla sua relazione ma appena al suo consumo. Lo “spettatore teatrale” deve essere invece partecipante e infine parente – anche terribile – di chi il teatro lo fa: non è l’arbitro del gusto o il giudice del successo ma la controparte di un’arte dalla quale deve trarre profitto, interesse, guadagno culturale. Per questo ha il diritto dovere di fischiare o di applaudire, ma per davvero: per esempio applaudire non come si fa ai funerali, ma come non si fa mai alle nascite!
Poi, ma certamente più importanti degli spettatori e dei critici, devono e possono fare resistenza e disobbedienza gli attori e i registi della ricerca del teatro (più che del teatro di ricerca), i quali non sono le “avanguardie artistiche” ma quelle davvero “politiche” del mondo teatrale.
Non fraintendiamo. la politica del teatro è una poetica, anzi molte poetiche purché consolidate ed efficaci: consolidate nella loro inquieta direzione di ricerca ed efficaci per quanta inquieta riflessione riescono a stimolare negli spettatori. Si potrebbe dire gli artisti “bravi”, ma è meglio dire “buoni” e, se e quando ci riescono, “belli”. Si dovrebbe però precisare – per evitare l’equivoco di un giudizio di valore – “quegli artisti che sanno di avere o di essere un teatro affermato”, nel senso di riconosciuto dagli altri e per se stesso. O meglio: quelli che si trovano – per avventura e per scelta – in una posizione di forza provvisoria ma di libertà stabile. Teatranti liberi stabili: non tutti gli artisti della scena sono liberi di stabilizzare la propria domanda di senso – e forse questa della libertà è una definizione di genere migliore di sperimentazione, innovazione, ricerca, avanguardia, eccetera…

7.
Ma cos’è questo misterioso senso del teatro? È appunto il suo mistero.
Il senso del teatro non sta tanto nel suo trucco (artigianale) o nel suo segreto (sapienziale), ma nell’esigenza e nella possibilità – che non è di tutti i teatri – di sfiorare e sfidare il suo mistero: qualcosa di semplice a dispetto della parola, poiché è insieme ovvio e misterioso il suo stesso desiderio o bisogno di rappresentare altro e di incontrare l’altro. A partire dal più banale e immediato ‘altro’ – quello del personaggio da interpretare e quello dello spettatore da coinvolgere – fino al più difficile e confuso ‘altro’ che è infine la dimensione avvolgente e incombente della sacralità.
In parole povere e davvero laiche, anche per il teatro e nel teatro vale quella relazione con il sacro che è da sempre la miniera che attrae le sonde conoscitive e le danze performative dell’arte (come anche della religione, della magia, della follia…). Quell’alterità intima e insieme quell’alterità verticale (alta o profonda, tragica o comica… è lo stesso) verso la quale il teatro muove le sue finzioni e fabbrica le sue illusioni, inseguendo ma insieme irridendo il suo mistero. Nella libertà e nell’obbligo di consistere nella parodia del Senso maiuscolo, sta la differenza e la disobbedienza del senso minuscolo del teatro.
Infine tutto il teatro è minuscolo, anzi è un nonnulla, in tutti e due i contro-sensi (nulla e non nulla) e nel loro non-senso. Il teatro non è e non costruisce mondi alternativi. Il teatro non è un mondo alla rovescia ma appena un modo alla rovescia. Anzi un continuo arrovesciamento: un arrevuotamento, per dirlo con i ragazzi di Scampia…
Il suo modo è speculare e quindi mai coincidente con la realtà oggettiva verso e contro la quale si espone. Le sue regole e sapienze e tendenze (trucchi, segreti e misteri) non hanno nulla di alternativo ma viaggiano dentro una convenzionale e a volte convincente alterità. Piccole deviazioni e non devianze, ma in grado di trasmettere leggere mutazioni e ansie di divenire nello spazio tempo sospeso e festivo di poche ore di incontro-scontro con un pubblico.
Il suo miracolo, quando si avvera sia pure per pochi istanti, induce un’azione riflessiva vitale in chi lo fa e chi lo guarda. Niente di più, ma niente di meno, quando è efficace.
La battaglia per la sua efficacia di senso è improba, non vince quasi mai e convince ancora meno. Ma il teatro ha appena questo senso. E il teatro funziona solo quando questo senso si fa apprendere e detta le regole e le possibilità del fare.
Ci vorrebbero un attore estetico e uno spettatore critico. Ma forse addirittura il contrario: ci vorrebbe – come diceva Carmelo Bene – un attore critico e uno spettatore estetico… E qualche volta si ha la sensazione – in scena e in platea – che qualcuno ci possa riuscire davvero.

8.
Chi ci riesce? Restando nei limiti dell’animazione scolastica e nel quadro del rapporto tra “teatro e infanzia”, ci riesce chi fa teatro per ragazzi o chi fa fare il teatro dei ragazzi? Forse nessuno dei due.
Ci riesce quel teatro che difende la sua acqua sporca con dentro il bambino o il ragazzo che avrà definitivamente rapito. Chi cioè fa teatro “con” bambini e “con” ragazzi, nel senso di un complemento più di materia che di compagnia. Gli esperimenti di teatro infantile e le esperienze di teatro adolescente rispettivamente dei Raffaello di Cesena e delle Albe di Ravenna non saranno modelli ma sono precisi esempi “storici” di questo complemento in ablativo semplice (come lo è – nel suo ambito – il teatro della Fortezza di Volterra che ha finto di chiudersi in carcere per catturare prigionieri).
Ci riescono quegli attori e animatori che non si rifiutano di fare dell’animazione un servizio, ma sono attenti a tradurlo e tradirlo nella ricerca del senso del proprio teatro. Ci può riuscire in definitiva chi mette sempre il teatro al primo e al secondo posto, e quando se lo può permettere anche al terzo posto, spiazzando le logiche del potere con le sfide del sapere e – per buttarla in politica – sottomettendo l’assessore all’attore, se non altro in virtù di un’etimologia che vede l’assessore (adsideo) seduto sulla cultura e l’attore in piedi, nell’atto di viverla e respirarla come l’aria.
“La cultura è l’aria e non un’area” – diceva ancora Carmelo Bene tanti anni fa [9], prima della primitiva animazione e della sua successiva irresistibile ascesa e poi discesa in tutto l’orario e il calendario della politica culturale. Prima dell’espansione del teatro-consumo e della sua promozione in teatro-servizio. Prima delle stagioni eccezionali dell’effimero e del successivo paradossale postulato della sua permanenza. Eccetera, eccetera.
In quest’aria – è bene ricordarlo – vivono e dovrebbero crescere tutti gli attori sociali e non solo quelli teatrali. Anche gli attori sociali più piccoli, che anzi devono imparare a respirarla e a farla propria. La funzione pedagogica del teatro è tutta qui, nella sua vocazione a fungere da anticamera del senso.
Il teatro e l’infanzia hanno una storia vecchia come il cucco. Il teatrino fino a qualche decennio fa faceva parte dei giocattoli, anzi tutti o molti giocattoli funzionavano come un teatrino. Forse però “il teatro del gioco” non è troppo cambiato, anche se non lo si scopre più baloccandosi con bambole e soldatini e tappini di birra ovvero “animando” tutte le cose che capitavano nella scena di quell’attore (appena) nato. È il passaggio tra il teatro del gioco e il gioco del teatro – quello più adulto e consapevole – che sta diventando problematico; certo per via dell’arcaicità che sconta il linguaggio teatrale rispetto ad altri mezzi più magici o soltanto più potenti. Ma anche per via della pesantezza ideologica e della responsabilità didattica che (nella scuola ma anche in famiglia) ha inquadrato di fatto l’animazione teatrale tra le materie d’istruzione, anziché lasciarla agire di diritto come letterale “ricreazione”.

9.
E che rapporto c’è poi tra l’infanzia e il teatro d’arte, quello dei grandi e quello vero dove si portano spesso anche le scuole, una volta finito il gioco del teatro a scuola?
I bambini hanno un diritto di cittadinanza naturale nel teatro, anche se non si sa bene dove metterli, se in scena o in platea, visto che in loro la scissione dei ruoli non è chiara o non è ancora nata.
Eugène Ionesco, intervistato su quando aveva cominciato a far parte del teatro ha risposto “da quando avevo 9 anni”, ricordando la sua “prima volta” a Parigi quando lo avevano portato ai giardini del Luxembourg a vedere i Guignols.
Quando dunque si comincia a far parte del teatro? Da quando il bambino apprende o si sorprende a incantarsi davanti a una grande scatola di “gioco da vedere”, che sospende ma poi alimenta il suo instancabile “gioco da fare”. Quando dunque il teatro del gioco non basta o non soddisfa, andrebbe ricaricato e  aiutato dagli interventi adulti di “gioco del teatro”. Ma allora – anche prima di scomodare i veri attori – ci vorrebbe qualcuno che si infili dentro un teatrino o dietro le pagine di un libro; basterebbe un gesto che si accende come una luce oppure una voce che si nasconde nel buio, per svegliare o per addormentare… In realtà, per “assognare”, ovvero per accompagnare il bambino (attore e spettatore insieme) non dentro il mondo dei sogni ma dentro il sogno di un gioco capace di trionfare sulla realtà.
Ma oggi non ci sono più né zie né lettori [10]: non ci sono più né babbi né burattini. I genitori e gli animatori non si divertono a costruire pinocchi e non giocano più approfittandosi dei bambini. Si gioca per i bambini ma non con i bambini, nella migliore delle ipotesi. O più spesso si resta spettatori dei giochi dei bambini, come quelle platee di amici e parenti che – agli spettacoli di fine d’anno scolastico – incoraggiano e festeggiano l’azione espressiva dei bambini, senza accorgersi di svalorizzare e mortificare l’azione riflessiva. Applaudono ogni loro esibizione, ma intanto hanno paura che si perdano nell’incantazione: vogliono dei bambini disincantati e insieme incantevoli, come richiede la società o il mercato dello spettacolo. Riducono il gioco del teatro alla mostra di sé, mentre il teatro del gioco si confonde e affonda nella quotidianità di un’infanzia senza fine e senza un fine.
Sono persino in troppi ad amare e animare l’infanzia, tra genitori e insegnanti e infermieri clown e giocolieri prezzolati nelle feste di compleanno, ma nessuno le fornisce più i miti e i riti, i personaggi e gli interpreti, i modi e i mezzi che con cui a loro volta possono animare il mondo o scoprire il mondo dell’anima. Invece – a dispetto di quel che credono i grandi – la piccola scatola del gioco teatrale potrebbe essere ancora l’unica o l’ultima in grado di contrapporre l’incanto all’anestesia, la riflessione all’esibizione, l’ambizione del divenire altro alla pigrizia dell’essere come si è.
È un gioco adulto il teatro d’arte, anche quando è fatto con i bambini: è un gioco difficile da maestri e un po’ da orchi, che si fa per continuare a crescere e a trasformarsi, mangiando i bambini… insieme ai bambini.
E infine, per quanto riguarda il suo apprendimento o la sua condivisione, la più grande difficoltà sta nel liberare la sua facilità. Il teatro non va insegnato ma fatto funzionare, e il gioco è fatto. Il suo rapporto con il gioco e con il rito e con la festa è già dentro la scatola, sia pure nei piani più alti o più profondi della sua confezione.
Il teatro-bambino della Socìetas Raffaello Sanzio e il teatro-ragazzo del Teatro delle Albe, per esempio, lo hanno capito e lo hanno fatto. Lo hanno scoperto e lo hanno inventato. Puntando in alto e non guardando in basso, sfidando e non consolando i loro giovani abitanti, li hanno catturati e in qualche modo se li sono mangiati – spettatori o attori che fossero.
Sinite parvulos venire ad me – diceva un grande maestro di teatro sacro. Ma non viceversa.

 

(Piergiorgio Giacchè, “La parabola dell’animazione teatrale”, in Il teatro salvato da i ragazzini, a cura di Debora Pietrobono e Rodolfo Sacchettini, Edizioni dell’asino, Roma 2011; pp. 46-65)

 

[1] Nel 1980 «Scena», la rivista più significativa del “movimento teatrale” di quegli anni (fin troppo dimenticata, ma all’epoca più importante di «Sipario»), decideva di togliere la parola “animazione” dal sottotitolo della sua testata e di pubblicare un manifesto che ne decretava pubblicamente la “morte”. Remo Rostagno, primo firmatario assieme a Marco Baliani e Maya Cornacchia, ha recentemente ricordato questo fatto in un’intervista pubblicata in: Catarsi. Teatri della diversità, nn. 49-50, giugno 2009, (Crf. P. IV della sez. Documenti).

[2] Io ero l’albero (tu il cavallo) è il titolo di un famoso libro sull’animazione curato da Franco Passatore (Guaraldi, Rimini-Firenze, 1972) mentre l’azione di Marco Cavallo ha riempito e qualificato il lavoro condotto da Giuliano Scabia all’ospedale psichiatrico di Trieste durante la “rivoluzione” di Basaglia.

[3] “Terzo teatro” è stata una corretta definizione data da Eugenio Barba al vasto fenomeno del teatro di gruppo degli anni Settanta e Ottanta: autodidatta ma professionista, nato e cresciuto fuori dalle scuole ufficiali e dal “primo” teatro istituzionale, ma anche diviso e diverso dalle avanguardie che avevano da tempo costituito una “seconda” possibilità.

[4] Sulla questione del rapporto tra la funzione sociale e il senso teatrale, maggiori dati e più approfonditi commenti si trovano in: P. Giacchè, Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp.  40 – 64.

[5] Ci si vuole riferire non tanto alla svalorizzazione della letteratura drammatica (che non è più sinonimo di teatro), quanto alla valorizzazione dei linguaggi non verbali, alla ritrovata preminenza del corpo dell’attore sulla mente dello spettatore – fenomeni che hanno caratterizzato sia le poetiche che le politiche del “nuovo” teatro, a partire dalle avanguardie degli anni ’60 e ad arrivare alle dimensioni o aspirazione di un “teatro antropologico” e del suo mercato transnazionale.

[6] Le isole galleggianti sono una celebre e perfino abusata metafora coniata da Barba e dall’Odin Teatret, che ha funzionato per anni da “ricetta” politica e poetica per moltissimi gruppi di teatro anche di orientamento ideologico e stilistico diverso: c’è stato un lungo periodo in cui ha funzionato lo “scambio” fra un’attività animatoriale da offrire a enti pubblici e privati, e la concessione di spazi e tempi, fondi e riconoscimenti, da investire sulla produzione spettacolare e sulla ricerca artistica.

[7] “Teatro sociale” è una recente e ampia autodefinizione del mondo del teatro impegnato e applicato in vari ambiti sociali; un convegno a Milano di qualche anno fa, con la presenza e sotto l’egida di Richard Schechner, ha cercato di raccogliere quest’area e di rilanciarne le proposte; non si vuole dare uno sbrigativo giudizio da scettici, ma soltanto sottolineare l’importanza di un nodo irrisolto – fra integrazione e rivoluzione – quando si ha a che fare con i due modi e momenti non sempre sovrapponibili dell’intervento sociale e dell’esperienza artistica.

[8] Cfr. P. Giacchè, Le bugie della scuola e quelle del  teatro, «Art’O», n. 4, gennaio 2000, pp. 42-45.

[9] Le citazioni rubate a Carmelo Bene si trovano in: Carmelo Bene, La voce di Narciso (a cura di Sergio Colomba), Il Saggiatore, Milano, 1982.

[10] Al mondo ci sono più zie che lettori è il titolo di un piccolo prezioso saggio di Peter Bichsel (Marcos y Marcos, Milano, 1989), pieno di suggestioni e saggezze utili a chi riflette sul tema della cultura e sul mondo dell’infanzia.

 




“Bambini a teatro”. Un estratto di Mafra Gagliardi

Tra il 1997 e il 2001, in collaborazione con alcune fra le maggiori esperienze nazionali di teatro ragazzi, l’Ente Teatrale Italiano ha promosso un progetto di ricerca sullo spettatore bambino dal nome “Il tempo dello spettatore”. Un percorso composito, realizzato grazie al confronto con bambini di diverse età, ai cui sguardi si sono affiancati quelli di artisti, operatori teatrali, insegnanti e famiglie. Di questa ricerca, sulla quale oggi ci sembra importante tornare, ha raccontato Mafra Gagliardi ne La bocca dell’immaginazione. La scena teatrale e lo spettatore bambino(Titivillus, 2007). Psicopedagogista, consulente scientifica dell’Osservatorio dell’Immaginario Infantile di Torino, Mafra Gagliardi (fra le altre cose anche redattrice di Eolo) si è occupata a lungo di studiare le dinamiche della ricezione infantile a teatro e del rapporto fra teatro ed educazione. Il frammento che segue, tratto dal capitolo introduttivo del testo, offre una vivida descrizione della platea bambina, dei suoi personalissimi modi di dialogare con la scena e di stare in teatro, come “nella bocca dell’immaginazione”.

 

Il pubblico – diceva Cesare Musatti – è “il personaggio che tace”. Ma per il pubblico infantile la definizione non vale. Provate ad osservarli, i bambini, a teatro. Quelli che affollano le platee capitanati dai loro insegnanti sono tutt’altro che silenziosi. Quando le luci si spengono, dalla sala si leva un grido. Non esprime tanto paura per il buio improvviso: quanto piuttosto sottolinea il passaggio di una soglia, quasi l’ingresso in un luogo e in uno spazio diversi. Il passaggio dal reale al fantastico, la fascinazione, la paura, l’eccitazione di abbandonarsi al mondo della finzione. Un altrove nel quale la finzione acquista statuto di realtà e l’illusione scenica ritrova il suo spessore semantico (in-ludere significa “entrare in gioco”).

In questo senso dunque, l’inizio dello spettacolo (non sempre coincidente con l’aprirsi del sipario, perché spesso il sipario nel Teatro-Ragazzi non c’è) corrisponde all’incipit di un racconto, al “c’era una volta” della fiaba, all’irrompere dell’imperfetto ludico nel gioco di finzione “facciamo che io ero”… E anche durante lo spettacolo, gli spettatori bambini non si possono paragonare in nessun modo a spettatori adulti in formato ridotto. Mentre l’adulto se ne sta immobile nella prigione semi-fetale della sua poltrona-conchiglia, sottomesso alla cancellazione rituale del corpo richiesta dal suo ruolo, il bambino cambia continuamente postura, prima e durante lo spettacolo: si alza, si gira verso i compagni o all’indietro, si protende in avanti spostandosi sull’orlo della sedia o si adagia sullo schienale. Talvolta addirittura replica i gesti degli attori, in una sorta di mimetismo corporeo: una “congruenza posturale”, che corrisponde a un movimento interiore del pensiero e dell’attenzione e rivela una relazione positiva tra i due soggetti[1].

L’intervento verbale in favore o contro un personaggio, le risate, gli applausi nel corso dello spettacolo, o, al contrario, lo scalpiccio dei piedi, gli sbadigli, i micro-movimenti sulle poltrone, permettono di leggere le oscillazioni della sua attenzione e l’emergenza delle sue emozioni in termini di entusiasmo, noia, attenzione, indifferenza, paura. In questo universo comunicativo rientra anche il segnale limite di abbandono del luogo teatrale: può essere un segno di intensa eccitazione, o, al contrario, esprimere l’insofferenza per un’immobilità a cui non corrispondono sufficienti motivi d’interesse. “Un pubblico di bambini è il migliore dei critici: i bambini non hanno preconcetti, si interessano immediatamente o altrettanto istantaneamente si annoiano e, o seguono gli attori, o diventano insofferenti”[2].

Il fatto è che questo tipo di pubblico non è addomesticabile, non si lascia influenzare dalle critiche, non ha pregiudizi o teorie di nessun tipo. È immune da qualsiasi forma di reverenza nei confronti di un attore o di un drammaturgo famoso. Anzi, per lui il drammaturgo non esiste proprio. Esiste lo spettacolo: il rapporto con l’attore, qui e ora, nella fisicità della scena, nello scambio di energia. E se il rapporto non funziona, non ha nessun motivo di nascondere la sua mancanza d’interesse. Se invece funziona, ecco che il pubblico infantile diventa più “personaggio” di chiunque altro. Un personaggio appassionato, che si lascia rapire nel senso etimologico del termine. Sono i momenti di silenzio denso, totale, in cui gli attori tengono il pubblico nelle loro mani. Ma è anche vero il contrario, il pubblico tiene nelle sue mani l’attore: in quei momenti, respira all’unisono con lui.

(Mafra Gagliardi, Nella bocca dell’immaginazione. La scena teatrale e lo spettatore bambino,  Titivillus, Corazzano 2007, pp.11-13)

 

 

[1] M.M. Mervant-Roux, L’assise du théâtre. Pour une étude du spectateur, Editions CNRS, Paris 1998, pp. 176-178.

[2] P. Brook, La porta aperta, Anabasi, Milano 1994, p. 50.




Educare alla bellezza. Il teatro ragazzi per Mario Bianchi

Ospitiamo con piacere un intervento di Mario Bianchi, autore, regista, animatore e critico, direttore della rivista telematica “Eolo”, il sito ufficiale del teatro ragazzi italiano.  Fondatore a Como del Teatro Città Murata, autore di video-montaggi tematici, legati principalmente all’infanzia, condirettore artistico del festival di teatro ragazzi “Una città per gioco” oltre che del festival della narrazione di Mariano Comense, il più importante in Italia in questo ambito. Nel 2009 Titivillus pubblica il suo Atlante del teatro ragazzi italiano.

Il teatro ragazzi è l’unica forma teatrale che ha nella sua definizione il nome del pubblico a cui si rivolge, un teatro dunque che per sua natura possiede delle regole precise con le quali fare sempre i conti. I ragazzi infatti sono un pubblico assai particolare, che possiede in sé tutte le possibilità e le fragilità, insite nel concetto di formazione, e che quindi nasconde inevitabilmente la mancanza di un’abitudine al fatto teatrale che, come ogni percorso ai suoi inizi, ha decisamente bisogno di “un’educazione“. Ciò non di meno crediamo che i bambini siano già persone molto competenti, più abili degli adulti a creare mondi immaginari e metafore, per cui, rispetto all’esperienza emotiva ed estetica del teatro, mettono in campo abilità del tutto straordinarie, ed è soprattutto nel lavoro post-spettacolo che, senza didascalismo di sorta e con leggerezza, l’adulto può riempire ancora buchi di conoscenza sulla complessità del mondo.

Non essendo mai stato a teatro, o comunque frequentandolo da poco, questo pubblico possiede in sé tutte le prerogative della meraviglia, dello stupore che fanno sì che il suo sguardo sia oltremodo curioso e prezioso. Peter Brook diceva che prima di portare in scena uno spettacolo egli lo proponeva innanzitutto a un pubblico di bambini, se lì era favorevolmente accolto, allora lo spettacolo era pronto.
Lo sguardo di un bambino dunque è uno sguardo del tutto particolare, ancora incontaminato, in qualche modo ancestrale, che si trova per la prima volta davanti alla complessità del mondo. Per cui il suo sguardo in qualche modo va alla radice di ciò che vede senza pregiudizi, scevro da ogni altro elemento se non quello dell’incanto e della meraviglia.

 


Teatro e ragazzi

La parola teatro ragazzi è formata da due parole inscindibili: insieme ai ragazzi c’è la parola teatro.
Ragazzi. Allora innanzitutto chi fa teatro ragazzi deve sempre chiedersi chi è il destinatario, in che mondo vive e (più che in ogni altro ambito) quello che il bambino vede in scena, lo deve ricondurre a ciò che vede e sente, a ciò che lo emoziona nella realtà. In questo teatro deve esserci dunque il bambino con il suo mondo, con gli ambienti e gli esseri umani che presenta che frequenta, con le emozioni che sente, con i sogni che fa… è per questo che il teatrante consapevole di questa particolarissima forma di teatro, durante la creazione dello spettacolo, deve necessariamente “sporcarsi” con l’infanzia.
Se non ha le competenze deve allenarsi a maturarle, conoscendola e frequentandola, nutrendosi di laboratori che gli possano consentire di vivere in mezzo a loro. In scena l’attore che fa il teatro per ragazzi deve “sentire” sempre il suo pubblico che partecipa molto più di ogni altro tipo di pubblico. Si deve adattare ai sui tempi e alle esigenze del suo sguardo. Deve capire quando il suo pubblico può fare delle domande e quando no, deve dettare delle regole e deve dettarsi delle regole.
Chi scrive per i ragazzi non deve fermarsi solo ai suoi ricordi di quando era bambino ma essere immesso in un’infanzia che cambia continuamente nei modi e nell’immaginario.
Le suggestioni e tutto ciò che è stato compreso durante i laboratori devono essere immessi nello spettacolo, a condizione poi che il teatro e le sue regole vengano rispettate.
Teatro. Il teatro non è animazione, è teatro. Tutto ciò che si inventa e che si impara dal mondo infantile deve quindi necessariamente diventare teatro, perché si sta facendo teatro, non animazione e il teatro ha delle regole, con le sue metafore, le sue modalità di porsi in scena.

 

Il Pubblico bambino nella maggioranza dei casi non sceglie di sua volontà cosa andare a vedere, la scelta è fatta a suo nome dall’insegnante o dai genitori che decidono cosa va bene fargli vedere.
Ricordiamo subito che fare teatro per ragazzi non vuole dire fare un teatro per quelli che un domani saranno pubblico, niente di più sbagliato, i ragazzi a cui si rivolge il teatro ragazzi è già il pubblico di oggi, perché i bambini sono a tutti gli effetti già persone dotate di individualità, con forme di linguaggio e cultura propri.

Ogni spettacolo nella maggior parte dei casi è destinato ad una fascia di età prestabilita soprattutto per le creazioni destinate ai più piccoli, ricordandoci che tra i due e i quattro anni esiste un mondo, come pure dai quattro ai sei anni e che ogni spettacolo di solito ha un pubblico a cui è dedicato, anche se il teatro ragazzi è per sua natura un teatro popolare che parla a tutte le età dell’uomo.
Ci si chiede a volte ma fino a che età questo teatro debba essere così inteso, difficile dare una risposta, dai 6 mesi ai 16 anni, forse, con modi e proposte di immaginari diversi, certo, anche perché l’ età dell’infanzia e dell’adolescenza inizia e finisce per ognuno di noi in modo diverso, quello che ribadiamo con forza a chi ci dice che il teatro è teatro, è che il teatro ragazzi sia un teatro del tutto particolare, speciale non equivocabile con un altro.


Caratteristiche del linguaggio

Il linguaggio scenico del teatro ragazzi non deve mai essere abbassato né nel tono né nel linguaggio ma deve essere adattato al loro sentire. Non bisogna dunque fare un teatro piccolino che insegni, ma un grande piccolo teatro a loro misura, questo sì, che parli poi di tutti gli aspetti della vita attraverso ogni contenuto, dalle fiabe che sono un ottimo veicolo per parlare dei loro sentimenti in formazione alla morte e alla sessualità, argomenti questi che paiono essere banditi sul palcoscenico e invece assai necessari se proposti con la necessaria leggerezza.
La drammaturgia scritta per l’infanzia deve sempre tener conto dello spettatore bambino che vive in quel momento, per cui giustissimo ricondurlo ai valori della tradizione, ma anche ricondurlo ad un mondo che cambia in continuazione, anche perché di solito il drammaturgo ha un’età ben differente da quella del pubblico che ha scelto come referente.
Si pensa che la funzione del teatro ragazzi debba avere come caratteristica precipua l’insegnamento, niente di più sbagliato, il teatro per l’infanzia qui deve essere percepito in egual maniera simile agli altri, cioè una proposta culturale che ha già connaturata in sé il germe morale dell’etica e del cambiamento umano del ricevente senza bisogno di nessun’altra accentuazione. Fine ultimo di ogni tipo di teatro è porre delle domande, è la ricerca della bellezza e del senso insiti nella vita e nella realtà, ed anche il teatro rivolto ai ragazzi deve avere questa finalità. Simile in questo alle altre forme teatrali ma diverso nel suo modo di porsi. Per cui il linguaggio drammaturgico proposto per i ragazzi è infinitamente più complesso di quello proposto per un adulto.

 

Nel teatro proposto ai bambini, essendo essi irripetibili, non possono essere mai bamboleggiati o resi in caricatura, come spesso succede a chi si avvicina per la prima volta al teatro per l’infanzia.
Per ciò mai e poi mai si deve assistere ad adulti che fanno finta di fare i bambini con la vocina, o presentare monti incantati dove regna sempre sovrana la bellezza esteriore, perché il mondo non è né tutto bello né tutto brutto, ma contiene in sé per fortuna migliaia di sfumature da considerare. Il meccanismo principe per l’abbassamento del senso drammaturgico è la parodia che deve essere evitata ad ogni costo se non in casi necessari.

Spesso si pensa che una drammaturgia scritta per l’infanzia debba essere semplice, elementare, che debba contenere fattori che lo facciano ridere per sciocchezze, che si debba rifare a meccanismi televisivi, o solo alla fiaba. Niente di più sbagliato, come detto è vero il contrario. Certo la fiaba è importante, strumento meraviglioso per parlare di coraggio, di paura e di crescita. Di crescita perché il teatro ragazzi ha qui una delle sue principali funzioni, essere uno dei gangli del percorso di formazione dello spettatore bambino. Attenzione, lo ripetiamo non per l’uomo di domani ma per il bambino per l’adolescente di oggi. Perché i bambini sono a tutti gli effetti già persone dotate di individualità, con forme di linguaggio e cultura propri.
Il bambino deve essere abituato dunque a conoscere ovviamente in modo adeguato anche i temi di solito a lui negati come la morte e la sessualità.

Elemento fondamentale per fare questo è la leggerezza che deve stare alla base di ogni spettacolo scritto e rappresentato per i ragazzi, ogni argomento può essere rappresentato basta farlo con garbo e leggerezza che non vuol dire ovviamente superficialità.
La drammaturgia deve in qualche modo riferirsi alla vita, soprattutto nel teatro ragazzi, deve essere una specie di specchio in cui potersi riflettere, non deve però essere al servizio di niente, il teatro è teatro e basta, serve perché è teatro, lo strumento principe che l’uomo possiede per comprendere meglio la realtà. Il teatro ragazzi che deve servire a qualcosa è uno sciocco travisamento di chi non lo conosce e vuole praticarlo. Basta per intenderci spettacoli sulla raccolta differenziata o sull’educazione scientifica o stradale.
Il teatro ragazzi, questo sì deve più che ogni altro teatro far entrare i bambini nella complessità delle sfaccettature del mondo.
Per cui, lo ripetiamo, proporre teatro ai ragazzi è infinitamente più complesso che proporlo ad un adulto.
Altro elemento, la comprensione di ciò che rappresenti, in modo che il pubblico vi possa entrare dentro, ci si possa rispecchiare, ognuno a suo modo con le sue competenze e con la sua enciclopedia intellettuale. Il teatro ragazzi amplifica questo elemento, ha una caratteristica preziosissima che nessun altro teatro possiede: è un teatro popolare che accomuna tutti i diversi pubblici teatrali: la domenica si possono vedere bambini, mamme, papà, nonni assistere agli spettacoli, godendone insieme tutte le emozioni. Per questo uno spettacolo per ragazzi ha la capacità di parlare a tutti. Tutti e soprattutto i bambini hanno il diritto di capire. Caratteristica poi assai anomala di una drammaturgia per ragazzi è che più è astratta più è compresa dai piccolissimi e nello stesso tempo dagli adulti.

 

 

Preparazione del pubblico

Gli spettacoli di teatro ragazzi vengono proposti di solito in due modi, per le scuole e per le domenicali.
I ragazzi sono un pubblico speciale che ha un corpo e una sensibilità speciale, per cui nello spazio teatrale deve essere messo a suo agio prima e dopo lo spettacolo. Normalmente e a seconda dello spettacolo proposto, non si devono mescolare troppo le età.
Il bambino deve poter vedere bene davanti a sé quello che avviene sul palco, possibilmente a lui vicino, ben sapendo che ogni spettacolo è diverso, non sempre fruibile dallo stesso numero di bambini. Il prima e dopo lo spettacolo hanno delle regole da rispettare, lo spettacolo scelto dall’insegnante o dal genitore deve essere preparato con discrezione senza per altro rovinare la curiosità dell’attesa. La discussione dopo lo spettacolo non è obbligatoria ma consigliata. Tutto ciò avviene per un pubblico speciale come quello bambino, che ha mille curiosità che devono avere una risposta.
Lo spettacolo deve essere percepito dal bambino come qualcosa di speciale, un rito unico e meraviglioso.

Scuola

Il rapporto tra scuola e teatro ragazzi è andato in parte modificandosi e ci pare un poco in crisi. La maggior parte degli insegnanti è poco motivata verso il teatro o lo vede come mero supporto all’insegnamento e con a crisi vi è stata una netta decrescita delle opportunità mentre è aumentato il pubblico delle domenicali.
Molte volte si è imputato al teatro ragazzi di cammellare il suo pubblico, il problema certo esiste, soprattutto per i ragazzi delle superiori che sono costretti ad assistere soprattutto ai classici senza possibilità di scelta, banditi anche dai numerosi testi che invece in modo più diretto parlano delle loro pulsioni, e spettacoli di questo genere sono sempre più frequenti. I ragazzi che vanno a teatro devono essere dunque motivati e preparati in modo che scelgano sempre quello che vanno a vedere, consapevoli che non devono andare perché così perdono un’ora di lezione, ma che anzi sarà un ‘esperienza unica e arricchente.

Bisogna far recuperare a loro il senso del teatro come rito, che andare a teatro è una cosa speciale, unica, che si entra in un mondo meraviglioso dove ci si può divertire e anche imparare.
Ogni spettacolo ha una metodologia diversa, lo spazio e il pubblico devono essere organizzati in modo diverso spettacolo per spettacolo, i bambini posizionati in modo intelligente e diversificato, spesso a contatto diretto con gli attori. Bisogna tenere conto che per le recite scolastiche il pubblico dei bambini, quasi sempre non sceglie direttamente lui lo spettacolo, ma l’offerta è mediata dall’insegnante, spesso per esigenze didattiche, ma per fortuna non sempre, perchè il teatro è teatro serve per capire meglio la vita.
Comunque il buon organizzatore teatrale oltre alla scheda prepara gli insegnanti convocandoli e, poiché ha visto lo spettacolo, ne illustra le forme e i linguaggi. Alla fine degli spettacoli quasi sempre, si invitano i ragazzi a fare domande per entrare più approfonditamente nello spettacolo, con il teatro di figura (forma di spettacolo nobilissima e totale purtroppo ricondotta solo al mondo dell’infanzia) li si invita sul palcoscenico per toccare con mano i pupazzi e i burattini e poi in classe si condividono con i ragazzi le emozioni, magari anche senza chiedere loro noiose relazioni scritte.
Ricordiamo infine a chi volesse scrivere o recitare spettacoli per l’infanzia che ciò che vogliono intraprendere non è solo un mestiere, ma una vocazione, non tutti possono permettersi di farlo. Non basta recitare in falsetto, parlare dei diritti del bambino, camuffarsi da animali o con improbabili grembiuli intercambiabili per interpretare varie parti, realizzare assurdi canovacci didascalici senza capo nè coda. Non basta utilizzare scenografie che scimmiottano in malo modo la “Melevisione”. Il mondo che accoglie il teatro ragazzi, pur nelle sue fragilità e che pazientemente è stato costruito in oltre quarant’anni di lavoro, vasto e appetibile anche come mercato, merita rispetto. Ognuno ha i suoi ambiti, la commedia dell’Arte, la ricerca, la filodrammatica, faccia quello con passione e professionalità e, se vuole avvicinarsi allo spettatore bambino, lo faccia pure ma con discrezione, comprendendone sino in fondo le esigenze e educandolo soprattutto alla bellezza e, con competenza e leggerezza, senza mai banalizzare nulla, alla comprensione delle varie sfaccettature del mondo in cui viviamo.

Mario Bianchi




Il teatro e il mistero dell’infanzia. Breve inchiesta

Ripubblichiamo in questa sezione materiali, spunti, interviste, discussioni già edite altrove in passato ma che ci paiono ancora utili per una discussione sulle forme del teatro che dialoga con diverse generazioni.
A seguire una breve inchiesta realizzata da Altre Velocità e pubblicata nel luglio 2013

 

Cosa chiede il teatro ai bambini? Cosa chiedono i bambini al teatro? Il festival di Santarcangelo cerca di smuovere al suo interno questi interrogativi, appoggiandosi a compagnie che da qualche tempo stanno sviluppando un percorso forte su e con l’infanzia. Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Fanny e Alexander, Sacchi di Sabbia hanno fatto di questo elemento un vero e proprio cardine della loro produzione recente. Ora attraverso attività di laboratorio, ora affrontando la tematica nella rappresentazione, ora in spettacoli dove il palco è occupato da gruppi di giovanissimi, le esigenze dell’infanzia e le urgenze della scena si intrecciano in un legame che diventa fonte di crescita per l’una e occasione di rigenerazione per l’altra. Lo sguardo del bambino si è rivelato un alleato prezioso per il teatro, portatore di domande che incrinano le certezze a un tempo di attori e spettatori. I protagonisti di questa ricerca ci spiegano allora qual è il loro rapporto con un terreno tanto misterioso quanto fecondo. Alla loro si aggiunge la voce di Alessandra Belledi del Teatro delle Briciole, struttura che con il percorso “Nuovi sguardi per un pubblico giovane” ha prodotto le opere di alcuni di questi gruppi.

Pathosformel
«All’interno del nostro percorso è stato piuttosto azzardato intraprendere una relazione creativa diretta con i bambini. Nella performance del progetto T.e.r.r.y. i bambini sono autori delle proprie azioni e delle forme proposte, elaborate da loro stessi nei laboratori che precedono il debutto. Questo porta dentro l’opera una materia incontrollabile, un’indeterminatezza con cui nei nostri lavori non abbiamo avuto a che fare fino ad adesso. Il laboratorio è per noi un luogo sperimentale in senso stretto: creiamo un contesto e vi inseriamo un elemento che lo possa modificare. La domanda che poniamo ai bambini è “come immaginate il futuro”, e gli chiediamo così di costruire un nuovo mondo possibile, che abbia anche delle nuove regole, diverse da quelle del mondo attuale, basato su un sistema economico nel quale le richieste sono superiori alle risorse disponibili. Vogliamo sapere da loro qual è il sistema di relazioni nel quale gli piacerebbe vivere, se avessero la possibilità di distruggere il presente».

Giovanni Guerrieri / I Sacchi di Sabbia
«Guardare all’infanzia è frutto di una lunga metabolizzazione. Come molti gruppi a noi coetanei (il nostro primo lavoro è del ‘95), ci siamo trovati dentro a un indagine feroce del quotidiano. Ci muoveva un senso di asfissia, l’urgenza di guardare le cose con ferocia facendo i conti con i nostri pregiudizi sulla realtà. L’ansia di “urlare” diveniva pressante, e con 1939 (che ha debuttato nel 2007) per la prima volta è comparso Emilio Salgari: a un certo punto un personaggio diceva «ci vorrebbe un Salgari che ci raccontasse…». Sandokan (2008) ha dunque indagato un materiale caro per la nostra formazione, verso una dimensione biografica, e da quel momento si è aperta una falla che ci ha spalancato la via al mondo dell’infanzia. Con Pop up, portato qui al festival, cercavamo uno spettacolo per bambini in grado di funzionare anche per noi, che siamo adulti. La sfida consisteva nell’eliminare l’ingombro dei corpi per rendere il segno pulitissimo, una pennellata essenziale che chiama il bambino a un movimento con la fantasia».

Teatro Sotterraneo
«Dal momento che molte delle esperienze che facciamo sono mediate, si può dire che la nostra vita non sia più fisica, immersa come è in un sistema di codici. Anche il teatro è un codice ma prevede la presenza, per questo può essere una palestra che allena a riconoscere altri codici, per capire quale manipolazione sia in atto, che tipo di realtà venga proposta. Al bambino che lavora con noi per Be Legend! abbiamo esteso lo stesso lavoro di simulazione che pratichiamo nel nostro teatro. Gli abbiamo raccontato la storia di Amleto, per poi chiedergli di dimenticarla o prenderne ciò che voleva e infine costruire una docufiction del bambino-Amleto. Lavorando con attori professionisti, spesso affiora la domanda sul perché si stia facendo una determinata azione. È la domanda che a noi interessa meno, facendo teatro. Nessun bambino ce l’ha mai posta, perché quel tipo di scarto appartiene all’infanzia naturalmente. Così è il bambino che nutre noi, non viceversa, nel momento in cui gli facciamo richieste legate al gioco teatrale».

Chiara Lagani / Fanny&Alexander
«Nel percorso di Fanny & Alexander la riflessione sull’infanzia come luogo specifico e di elezione c’è sempre stata, ne abbiamo fatto uno degli archetipi fondamentali della nostra produzione artistica. Spesso il teatro guarda al bambino come organo propulsivo della creatività e della vitalità, alla sua capacità di stipulare il contratto ludico e di immedesimarsi con una versatilità priva di membrane protettive. Queste sono metafore generative per il teatro, chiunque di noi vorrebbe essere così poco protetto e così puro rispetto a una visione. Per gli spettacoli Discorso Giallo e Giallo – Radiodramma dal vivo, invece, l’infanzia non è solo un luogo simbolico, ma è uno spazio concreto che abbiamo dovuto attraversare chiedendoci cosa significasse educare e cosa sia l’educazione. Domande che abbiamo voluto rivolgere direttamente ai bambini, soggetti privilegiati di questo processo misterioso e complesso, che a loro volta ti pongono di fronte a quesiti sconvolgenti, dal punto di vista artistico e umano».

Alessandra Belledi / Teatro delle Briciole di Parma
«Il nostro lavoro è preliminare all’andare a teatro: agli spettatori bambini occorre insegnare come andarci. Dobbiamo insegnare loro a sospendere il rumore e a fare silenzio una volta entrati, fare loro capire che stanno per entrare in una dimensione di extraquotidianità. Questo va un po’ indotto, altrimenti pretenderanno di trovarsi come al cinema con la merenda e la coca-cola in mano. I bambini non sono gli spettatori del futuro ma del presente. Siamo abituati sempre più a consumare tutto, anche l’arte, per questo è necessario educare chi guarda. L’esperienza che i bambini potranno vivere dentro al teatro li allontanerà dal frastuono, dal multitasking, facendogli fare un’azione di vita vera. La relazione teatrale diventa insomma sempre più vitale. E questo vale anche per gli adulti. Il teatro per l’infanzia, semplicemente, esalta ciò che vale per tutti: per i bambini e per gli adulti la relazione va portata avanti in un modo più attento».