Storie d’un tempo, favole nel presente: seconda istantanea da Segnali
La compagnia Teatro Prova ha aperto la seconda giornata di Segnali al Teatro Verdi con il suo T-REX. Gli amici non si mangiano. Nelle poltrone delle prime file i giovanissimi spettatori, con le giacche a mo’ di cuscino per farsi più alti, sono sprofondati in un religioso silenzio non appena un tirannosauro senza nome, alias Stefano Mecca, è apparso sul palcoscenico per inseguire un piccolo robot telecomandato travestito da animaletto fantastico. Il solitario dinosauro è alla ricerca di un amico, ma il suo stomaco non gli permette di avvicinare nessuno, se non per mangiarselo. Sarà un’aspirante cuoca, Romina Alfieri nei panni del topo Molly, l’unica a riuscire a non farsi divorare da lui, complice una finta formula magica che, al grido “Bubu”, renderebbe la sua carne immangiabile.
Munita di un navigatore satellitare sempre in aggiornamento e di una cucina portatile che racchiude tutte le sue speranze, ammicca al pubblico – di adulti – in una velata critica al mondo d’oggi, perché le favole come il teatro, si sa, parlano sempre del presente. Un presente in cui incontrarsi non è semplice, e lo ha esplicato bene il pianto di un bambino che, dopo aver capito di non essere al cinema ma di fronte ad attori in carne e ossa, si è andato a rifugiare tra le braccia della maestra spaventato dalla possibilità che gli “animali” sul palco scendessero in platea.
Fa da sfondo a questa moderna favola per bambini una giungla surrealista in cui si perde la topolina, alla ricerca di rari ingredienti per creare la torta perfetta, unica possibilità di vincita in un prestigioso contest di cucina. Il confusionario dinosauro e l’ordinatissimo topo sembrano troppo diversi per poter andare d’accordo: Molly, spingendo il suo antagonista ad ascoltare la propria voce interiore, si sente rispondere che la voce “dalle interiora” lui la ascolta spessissimo, ma nonostante le incomprensioni non demorde e troverà infine nel goloso T-REX un alleato indispensabile. Solo il coraggio di chiedere aiuto permetterà al tirannosauro di scoprire l’amicizia e il suo nome, Bubu, come la finta formula magica usata da Molly, e solo la collaborazione renderà possibile creare quella torta perfetta che è dolce simbolo degli ingredienti necessari per un’amicizia. L’improbabile incontro tra Bubu e Molly racconta dell’opportunità di conoscersi se solo si trova la forza di chiedere aiuto, o di prendersi per mano.
Se Amleto avesse avuto il coraggio di parlare e di scoprire le proprie carte non avremmo però mai sentito la sua storia e non potremmo continuare a raccontarla. Il secondo appuntamento della giornata di Segnali, al Teatro Sala Fontana, ha visto in scena Rossella Rapisarda, Andrea Ruberti e Dadde Visconti nelle vesti di tre Orazio contemporanei che da oltre cinquecento anni girano il mondo per tenere vivo il ricordo della tragedia del Principe di Danimarca. L’Amleto degli Eccentrici Dadarò, in prima nazionale, non usa scenografie elaborate: un quadrato nero, sullo sfondo un telo per proiezioni, un paio di bauli, qualche abito di scena. Qui ciò che interessa sono le cause, i motivi di quello che sta accadendo sul palco. Quali sono le motivazioni dei personaggi, perché agiscono in quel modo, cosa giustifica i loro desideri? In una messa in scena che strizza l’occhio alla Commedia dell’Arte i tre guitti protagonisti vestono i panni di tutti i personaggi di una delle storie più raccontate del teatro occidentale, declinandola in domande appartenenti alla nostra quotidianità. In un mondo in cui vendetta, odio, potere e denaro sembrano i principali motivi di ogni azione e scelta, anche di Stato, cosa noi, da spettatori, cittadini, esseri umani riteniamo giusto o, almeno, giustificabile? In nome di cosa ci si può arrogare il diritto di uccidere? Non solo per ragazzi, lo spettacolo cala il sipario chiamando direttamente in causa il pubblico: mentre Albert Camus riteneva ci fosse sempre qualche ragione per uccidere un uomo, gli Eccentrici Dadarò chiedono a noi se siamo in grado di trovarne almeno una. (c.f.)
Il programma del Festival prosegue con Ruote Rosa della compagnia bergamasca Luna e GNAC Teatro. La storia della ciclista Alfonsina Morini Strada, riscritta e firmata nella regia da Carmen Pellegrinelli, diventa l’occasione per illuminare storie dimenticate, tante delle quali raccontano di donne. L’immaginario visivo e il rapporto con l’illustrazione ci aprono le porte della storia immergendoci in un ambiente dal sapore d’antan.
Le interazioni tra attori e immagini create con lavagna luminosa e l’uso di proiezioni, sono una cifra di Luna e GNAC fin dai suoi esordi: la compagnia nasce, infatti, dal guizzo di Michele Eynard, illustratore e fumettista e dall’incontro con Federica Molteni, attrice, che in scena veste i panni di Emma, la sorella maggiore di Alfonsina. Giovane e misurata, Laura Mola è un’Alfonsina tenace e vigorosa, indomita – “la bici è roba per chi dentro alla regole non ci voleva stare, proprio come me”. Il racconto della passione e delle avventure da “eroina” inizia quando Alfonsina per la prima volta, a dieci anni, sale su una bicicletta e si conclude con la gloriosa avventura del Giro d’Italia del 1924 dopo essere riuscita a vincere due Giri di Lombardia, superando scandali e umiliazioni di ogni sorta. La storia della “mangia tortellini” ci agguanta e commuove, non solo per la passione che racconta, ma anche per la possibilità di porci con estrema lucidità dinanzi alla differenza che passa tra l’essere vivi e lo scoprire di esserlo in qualcosa di specifico. Davanti ai nostri occhi viene data vita e corpo a un vero e proprio romanzo di formazione dove l’evoluzione della protagonista è incarnata con grande abilità da Laura Mola che riesce a modulare le diverse intensità e a calibrare il vigore della protagonista senza esserne schiacciata, mettendosi al servizio di una storia e di un personaggio con sensibile consapevolezza artistica.
Di tutt’altra temperatura è il Barba Blu della compagnia franco-italiana Le nuvole nere per la regia di Martina Raccanelli, al primo confronto con una fiaba. La vicenda del sanguinario uxoricida viene musicata e cantata dalle quattro performer (Eva Durif, Marion Lherbeil, Laure Nonique-Desvergnes e Martina Raccanelli nel ruolo della moglie di Barbablù) sulle note, e le parole, di Donna lombarda antico canto popolare e altri canti di tradizione francese. Vocalità, movimento e narrazione si intrecciano creando un immaginario dark ai limiti dell’incubo che attorno a un grande armadio trasforma mondo, immaginazione, incubo e proiezione del vero in un’unica magmatica realtà. La scena, spoglia ed essenziale, viene riempita dal turbine di voci che si rincorrono narrando e musicando la celebre fiaba che, nel suo finale, viene rivisitata: non sono più i due fratelli che irrompono appena in tempo per salvare la sorella più giovane dalle mani di Barbablù ma, lei stessa, in preda alla follia o a una allucinazione, si salva, seguendo le voci delle altre donne morte che la consiglierebbero di gettare la chiave nel lago oscuro che circonda il castello. Un finale aperto a diverse interpretazioni per uno spettacolo che ha scelto un ingresso preciso per indagare un grande classico della letteratura per l’infanzia. (a.d.)
Agnese Doria, Camilla Fava