La dura verità della fiaba. Terza istantanea da Teatro fra le Generazioni

Nel corso di questo ultimo giorno di festival, ha colpito soprattutto la necessità di un teatro che potesse definirsi tout-public, cioè adatto a tutte le fasce d’età e quindi stratificato e leggibile a più livelli. Sappiamo, tuttavia, che differenziare le fasce d’età resta un importante e fondamentale compito per coloro che decidono di definire il proprio teatro in base al destinatario al quale si rivolgono, se è vero che esiste un’istanza pedagogica nel teatro ragazzi. Come diventa possibile, allora, realizzare spettacoli che possano davvero riattivare un immaginario collettivo, spettacoli in cui tutti i piani della rappresentazione risuonino in ognuno degli spettatori, anche se in modo diverso, evitando di strizzare l’occhio ora agli adulti ora ai bambini con facili trovate?
Crediamo che una risposta possibile sia arrivata dal drammaturgo Francesco Niccolini con Digiunando davanti al mare e dal regista Michelangelo Campanale con la sua Biancaneve, la vera storia. I due spettacoli hanno in comune il desiderio di suscitare negli spettatori lo stupore che, se per i bambini è un naturale rapportarsi con il mondo, per gli adulti diventa la possibilità di recuperare la scintilla dell’infanzia.
E quale racconto si presta più di tutti a generare questo effetto se non la fiaba, che nasce notoriamente per parlare agli adulti per poi invece addolcirsi, creando come effetto secondario la dannosissima credenza per cui esisterebbero argomenti inadatti ai bambini, dei temi-tabù?

Michelangelo Campanale si smarca da questo modo comune di pensare e lo dichiara apertamente nel titolo dello spettacolo: ci parlerà della vera storia di Biancaneve recuperando l’idea della fiaba come magistra vitae e per questo sincera e senza veli dietro i quali nascondere ciò che non vogliamo vedere. Una bambina dimenticata dalla madre, troppo occupata a curarsi della propria bellezza. Una madre-matrigna che offrirà alla figlia la mela avvelenata, dopo aver già tentato di liberarsene più volte: la gelosia diventa più forte dell’amore materno. Un messaggio duro, ma “è la verità”, continua a dirci l’ultimo dei sette nani che è sempre in scena ad assicurarsi che tutto vada come deve andare, perché la vita, per quanto possa essere difficile da accettare, è fatta anche di dolore e di cattiveria.
Il teatro “immersivo” di Campanale prende per mano lo sguardo dello spettatore e corre insieme a lui attraverso la storia, un galoppare mozzafiato tra grandi apparati scenografici, luci forti e cangianti che raccontano gli umori dello spettacolo e all’improvviso una musica, quando tutto rallenta o si ferma, a sottolineare momenti culminanti o gesti simbolici, come il dono mortale della mela. Adulti e bambini condividono lo stupore che arriva da questo spaesamento, da questo tuffo che coglie impreparati, finché non si “prende” la temperatura dell’acqua e si nuota insieme.
Il teatro di Campanale, infatti, come lui stesso dichiara, mutua dal cinema elementi visivi e sonori, affinché ogni spettatore possa essere raggiunto e comprendere e sentire in base al linguaggio che più lo rappresenta.


Digiunando davanti al mare è uno spettacolo che invece segue il flusso pacato della narrazione, che procede per guizzi improvvisi e momenti di puro ascolto e contemplazione. Giuseppe Semeraro, eccezionalmente nei panni di narratore, ora nelle vesti di Danilo Dolci, ora in quelle di un personaggio vivace e sopra le righe come ‘Zimbrogli’, che sembra descrivere con i suoi modi e con la stessa storia della sua vita la Sicilia intera, ci regala una grande prova d’attore. La drammaturgia di Francesco Niccolini offre un quadro molto suggestivo della Sicilia degli anni Cinquanta, una terra povera, in cui l’unico estremo atto di protesta può essere solo quello di continuare a digiunare, ma davanti a tutti, davanti al mare, pacificamente, con la musica di Bach come sottofondo. Danilo Dolci, poeta, intellettuale e pedagogo, prende a cuore quella terra e inizia a combattere per i diritti degli ultimi, pescatori, disoccupati, contadini, per scuotere l’Italia tutta ricordando che uno dei principi della Costituzione riguarda il lavoro, come diritto, ma anche come dovere. Ed è per questo che il grande movimento popolare creato da Dolci sfocerà nello “sciopero alla rovescia” durante il quale i disoccupati lavorano gratuitamente per la collettività. Una manifestazione pacifica che però porterà all’arresto, tra gli altri, di Dolci e successivamente ad un processo che non si risolverà a favore dei fautori della manifestazione.
Una storia, dunque, una fiaba senza lieto fine, ma che ci tiene tutti raccolti intorno al fuoco, mentre la voce di Semeraro, flebilmente illuminato dalle luci di scena, cambia tono e potenza e lingua. È il teatro di narrazione, senza artifici, nudo e ancestrale. Lo stupore del pubblico viene dalla possibilità di concedersi un momento di sospensione dalla realtà pur immergendosi completamente in essa. Non si può far altro che “stare insieme alle cose” come direbbe Marco Baliani rispetto alla sua esperienza di narratore.
È il corpo del narratore che parla, che si trasforma e ci mostra la fame, la dignità, la forza, la sofferenza. È un gioco fisico e sensoriale di “andata e ritorno” dal narratore al personaggio. Gli spettatori non possono fare altro che cedere all’abbraccio della narrazione, che ci riporta al gesto più antico e naturale che conosciamo, un gesto che ha la forza del rito e che è quindi rivolto a tutti: l’ascolto.

Nella Califano




Manovre di uscita dal contesto. Seconda istantanea da Teatro fra le Generazioni

Immersi come siamo in un contesto di rappresentazioni mediatiche sempre più allo stato gassoso, ci si chiede come il teatro che si rivolge all’infanzia sia in grado di “farsi riconoscere” nella sua specificità. Se tutto è rappresentazione, se quella che chiamiamo finzione ha smesso di marcare una distanza rispetto all’esperienza quotidiana “non mediata”, che ruolo o posizione può avere il teatro? Gli studi antropologici hanno spesso insistito sul concetto di “differenza”, provando a rintracciare uno specifico che solo il teatro possiede; seguendo questa pista si finisce nei pressi degli studi della relazione teatrale, isolando un “modo” dell’essere spettatori tipico del teatro, verso quella compresenza fra corpi che potrebbe (o dovrebbe) inevitabilmente interrogarci sul nostro corpo, e cioè sullo sguardo. Chi stiamo guardando, e dunque come lo guardiamo? A teatro il corpo si fa sguardo e lo sguardo attraversa dei corpi, quelli degli attori e dunque anche il nostro. Uno sguardo-corpo che si confronta con l’altro da sé e nella migliore delle ipotesi arriva a domandarsi qualcosa su di sé.
Uscendo dalla prospettiva antropologica ci si potrebbe domandare: che cosa si può comunicare, trasmettere, raccontare solo col teatro, e con nessun altro linguaggio dell’arte?
KanterStrasse, giovane compagnia aretina, ha presentato ieri Amletino, per la scrittura di Simone Martini e con Luca Avagliano, lo stesso Martini e Alessio Martinoli.  Quella di Amletino è una risposta che coniuga le questioni archetipiche del classico, trasmesse per strati a un pubblico misto composto da bambini e adulti, con la sua contestazione ottenuta per via attoriale. Da una parte Amleto, il potere, il torbido della famiglia, la regalità, in un andamento narrativo che sostanzialmente preserva l’ossatura dell’intreccio, mettendo in scena il Principe nella sua pensosità, grave e dubbioso e tormentato ma anche tutti i personaggi che fungono da “contorno”, a partire dalle coppie che diventano inesorabilmente “comiche”. Perché dall’altra KanterStrasse lavora quasi a minare le pretese della trama, l’ordine costituito, la confezione, contornando appunto la vicenda amletica di sequenze irresistibilmente comiche, al limite della gag non-sense e dello slapstick. Sospendendo dunque la trama e creando dei varchi squisitamente attorali, nei quali è l’attore, la sua tensione a destrutturare le pretese della trama a “farsi racconto”. Martini e Avagliano si muovono nei panni di un fantino-Claudio con frustino e casco e di una Gertrude che al posto della testa ha un foglio di carta con disegnato un cuore, fingono partite a Squash nei panni di Rosencratz e Guildenstern, diventano becchini che pescano e acchiappano farfalle dicendo che lo stanno facendo per finta, cioè “per assurdo”, si improvvisano guitti di fronte ad Amleto nella celeberrima sequenza del Principe che funge da protoregista dando consigli di recitazione, nel celeberrimo passaggio del teatro che dovrebbe “reggere lo specchio alla natura”. Certo il confine fra sovversione della norma (del classico e della trama) e sua “sospensione” per ottenere un ingaggio costruito su raffinati espedienti comici è molto sottile e comunque scivoloso.

Ritornando alla necessità di raccontare attraverso il teatro La regina delle nevi, battaglia finale di Renzo Boldrini e Michelangelo Campanale, già dal titolo, ci dice qualcosa del punto di vista che i due autori hanno voluto adottare per mettere in scena un classico della fiaba. La regina delle nevi di Andersen arriva agli spettatori come una storia a metà tra la biografia della protagonista e il ricordo dei racconti della nonna. Come si tratta un classico a teatro? E perché? Che cosa può dirci di più? Italo Calvino, com’è noto, scriveva che un classico non smette mai di dire ciò che ha da dire e che, per il suo configurarsi come «equivalente dell’universo», è capace di parlare a tutti e che «Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui».
Queste parole sembrano adatte per osservare il lavoro di Boldrini e Campanale, che hanno raccontato piuttosto come gli effetti della fiaba continuino a lavorare nell’inconscio di un’adulta ancora imbrigliata nei fili della fanciullezza. Si tratta di un inconscio complesso, che ospita ora ritmi e movenze bambine, ora compie salti di maturità vertiginosi, come a voler fuggire quella natura infantile incastrata tra istinto imprudente e cieco coraggio.
La vera «battaglia finale», allora, sembra stare proprio qui, nel limbo tra due età che si parlano senza mai riconoscersi del tutto. E questo permette alla protagonista, da una parte, di dialogare senza giudizio con i propri ricordi di bambina; dall’altra, però, la costringe in un limbo emotivo che si risolve soltanto nel momento in cui avviene per lei una trasformazione, che coincide con la capacità di rielaborare un racconto a lei tanto caro e in qualche modo ancora presente.
La strategia che mira a dar forma a queste complessità sembra essere – un tratto tipico nella poetica di Campanale – quella di ricorrere al mezzo del teatro come linguaggio composito e sempre fuori formato. L’impiego di una scena profondamente curata, crossmediale, intelligentemente divisa per ambienti che, ad abitarli, si spalancano dimensioni di luogo, di tempo e di senso; la chiamata a un teatro fieramente al massimo delle proprie forze; l’attenzione al mestiere d’attore come strumento di comunicazione primaria.
Un armadio al centro della scena sembra voler mettere in connessione il mondo adulto con quello dell’infanzia, una sorta di porta spazio-temporale, varcata la quale è possibile sciogliere gli antichi nodi della propria interiorità. Oltre la porta, l’intimità della protagonista, che si prepara per la battaglia finale con le proprie paure; una sedia grande per l’adulta, una piccola per la bambina: il gioco dell’attraversamento e delle dimensioni sovrapposte ricalca una dinamica di attenzione che dà alla fiaba il potere di parlare a ciascuno spettatore, che può trovare legami personali con i dedali della storia. E così è forse possibile non lasciarsi ingoiare dal contesto di uno festival pensato (solo) per i bambini: ognuno incontra e supera paure personali, come a riprendere un discorso per, finalmente, completarlo.

Una delle grandi questioni del teatro per le nuove generazioni di questi ultimi anni riguarda le modalità con cui si concepisce e si ritrae un mondo che possa essere riconoscibile per lo spettatore bambino. L’immaginario è l’orizzonte su cui si incontrano l’enunciato dell’artista e la disposizione di chi guarda, il gioco di leve e forze contrapposte necessario a crearlo e a consolidarlo può persino diventare il centro del processo artistico medesimo.
Di certo la compagnia ScenaMadre si era posta di fronte a questo dilemma nel pensare La stanza dei giochi (vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014 – ex aequo con Fa’afafine di Giuliano Scarpinato), che metteva in scena due bambini ribaltando «la consuetudine del teatro ragazzi interpretato da adulti», si leggeva nelle motivazioni della giuria. L’effetto in qualche modo straniante, che aveva messo in allerta molti operatori e mediatori, sembra ora aver portato la compagnia a un ripensamento sulla gittata della sfida: sul palco per Compiti a casa (prodotto insieme a Gli Scarti) ci sono Marta Abate e Michele Moretti, ancora una volta adulti che interpretano bambini.
Creare la cameretta dei due figli di una giovane coppia che si avvia verso il divorzio è un processo rapido e indolore. I pochi elementi sono quelli che tutti abbiamo già in mente: lettino, tappeto da gioco, lavagnetta, matite colorate, macchinine. Ma è questo il vero immaginario da creare? A tratti rischia di sembrare una scappatoia verso riferimenti simbolici più semplici, mentre il punto starebbe proprio di là dal guado di ragionamento che lo spettacolo non riesce davvero a sorpassare: che rapporto c’è tra età adulta e bambini? Chi parla a chi? Con quali parole? O con quale immaginario?
Il teatro ragazzi si trova sempre di fronte a una sfida fondamentale: la relazione con il proprio interlocutore, che rappresenta ciò che un tempo siamo stati e ora non siamo più. Il ripostiglio disordinato – e invisibile al pubblico – diventa il luogo di uno strano esperimento che intende riportare la luce in un appartamento poco illuminato e quindi nella vita della famiglia. Si fa però di nascosto, in un luogo dimenticato, senza il quale, tuttavia, nulla potrebbe realizzarsi.
È davvero possibile parlare “ai” bambini lasciando una traccia di senso? O forse bisognerebbe piuttosto pensare di parlare “con” i bambini, mettersi dalla loro parte e riscoprire ciò che è depositato nel nostro “ripostiglio”, che proprio come quello dello spettacolo è sempre disordinato, ci si mettono tutte le cose che restano sospese, le cose da buttare via o quelle mai utilizzate.

Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni

Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.

Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.

Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.

Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».

La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.

La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.

Nella Califano e Sergio Lo Gatto




Semplice o semplicistico? Terza istantanea da Maggio all’Infanzia

Ventidue spettacoli in quattro giorni, distribuiti in diversi spazi (Teatro Kismet, Teatro Abeliano, Casa di Pulcinella e la Libreria Svoltastorie), ma Maggio all’Infanzia non è tutto qui.
Tra uno spettacolo e l’altro, il giallo foyer del Kismet è popolato di bambini, con le voci che si sovrastano l’un l’altra; a sala riempita, le sedie blu rimangono vuote, tirate da un lato, pastelli a cera e fogli mezzi disegnati abbandonati sui tavolini.
Alla Casa di Pulcinella il pubblico arriva e può godersi la bella mostra dedicata a Emanuele Luzzati, con burattini e pupazzi in pezza, legno e gommapiuma, ma i più piccoli si misurano anche con la costruzione di figure di carta, sacco e pop-up nel Laboratorio di Pulcinella. Così come c’è modo, per gli studenti delle scuole superiori, di misurarsi con grandi temi contemporanei, nel laboratorio curato da Graziano Graziani attorno alla Costituzione e all’Utopia.
Questo per dire che abbiamo notato anche una grande attenzione alla dimensione dello “stare” del pubblico, una cura ricondotta alle pratiche della relazione, all’accoglienza di scuole e famiglie come incubatori dell’immaginario dei giovani spettatori.

 

Un’attenzione e una cura messe intorno a una programmazione che, soprattutto a confronto con quella di altri festival, si presenta però densa e concentrata. Se ci si sofferma sul cartellone, un calendario così serrato – che non sempre lascia a chi voglia seguirlo tutta il tempo per metabolizzare i pensieri – risponde di certo alla pluralità di esigenze introdotta da vent’anni di cittadinanza sul territorio ma, di conseguenza, pone la questione della qualità media delle produzioni.

Un aspetto su cui ci si è molto interrogati tra foyer e tragitti in pullman è il ruolo fondamentale assunto, in un festival di “teatro ragazzi”, dalla composizione della platea. Assistere all’intera vetrina con occhi adulti – appartengano essi ad artisti, critici o operatori e operatrici – rischia di tramutarsi in un atto limitante se quegli occhi non hanno modo di dotarsi, sempre, della presenza dei giovani spettatori. Soprattutto in quelle opere che misurano ritmi e snodi drammaturgici sulla percezione e sull’immaginario dell’infanzia, sarà per l’adulto difficile entrare se non “accompagnato” da un bambino. È stato il caso di La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, nel quale gli adulti hanno da un lato individuato alcune fragilità soprattutto nel passaggio da una sequenza all’altra di questo viaggio iniziatico, dall’altro riconosciuto l’impossibilità a vestire comodamente i panni del target per cui lo spettacolo era pensato. Perché, in parte minore o maggiore, sempre questo passaggio richiede una sponda di percezione in più, non necessariamente condivisa da tutti gli adulti in sala. In altre parole, di fronte a uno spettacolo ad essa indirizzato, la presenza di una collettività di bambini sarà sempre e comunque il termometro essenziale per stabilire la temperatura di una visione.

E tuttavia abbiamo anche abitato platee in cui l’adulto era “in minoranza”, confrontandoci con linguaggi che, programmaticamente, ordinavano i propri elementi in funzione di una fruizione infantile. Lorenzo Donati ha già parlato qui del paradigma del rispetto, su cui ci sembra di dover tornare nell’analisi delle forme di alcuni lavori.
L’arca di Silvia Civilla e Marco Alemanno (Terramare) ha proposto una volta di più lo stereotipo dell’adulto che scimmiotta il bambino, sintetizzando quest’ultimo in una creatura che si muove con grandi gesti didascalici, piange battendo i piedi e agitando i pugni e sgrana gli occhi per mostrare meraviglia. In questa fiaba originale i due, in un lungo sogno, soccorrono dal diluvio un’arca piena di peluche e dialogano con Noè. Il messaggio ambientalista contro lo spreco dell’acqua si innesta in un’odissea fantasiosa per superare la lontananza dai genitori: lo sforzo di magia scenica è però ridotto ai minimi termini, non riesce a proporre alcuna tridimensionalità e anzi scompone i passaggi di senso in quadri frontali su una scenografia immobile sotto alle (coloratissime) luci a led. Il rapporto con l’oggetto-peluche, che pure potrebbe portare a un interessante transfert e affrontare davvero i concetti di accudimento e protezione, è reso in una manipolazione poco curata e che dunque fallisce il salto verso una vera e propria animazione, perdendo più volte il contatto con lo spettatore (dai 3 anni).

Il colorato esperimento del Teatro Vascello su La Gabbianella e il gatto (adattato e diretto da Manuela Kustermann) sconta in parte la stessa criticità. Sul grande palco del Teatro Abeliano scenografie dipinte e ritagliate su pannelli di legno, appaiate in maniera poco chiara con fotografie proiettate sul fondale, non riescono a definire lo spazio, che finisce per essere occupato da parate e schiere di attori in costumi carnevaleschi, portati da un testo troppo verboso (a fronte della sintesi poetica del plot) a scivolare su stereotipi dialettali e su una scurrilità ripulita. L’inserimento delle canzoni e della musica, poi, non riesce a creare un vero e proprio contrappunto (su cui Schiaccianoci Swing, ad esempio, era in grado di fondare un’intera drammaturgia quasi senza parole). Anche stavolta, dunque, l’attenzione si perde, forse eccessivamente bombardata da dialoghi che non lasciano respiro alla riflessione.

Che cosa accade, invece, agli spettatori di Le 12 fatiche di Ercole del Teatro della Tosse? Ancora una volta sullo sfondo di una scena dominata dalla bidimensionalità, il divertimento si trasforma in intrattenimento frontale. Il fondale di legno che ospita un tabellone da gioco dell’oca diventa una teca dove, casella per casella, ospitare i trofei delle prove superate dall’eroe greco. Ma il tono generale, che nella sfida finale esplode nel goffo tentativo di coinvolgere l’intera platea di una domenicale, è vicinissimo all’animazione da villaggio vacanze. Se non si presta sufficiente attenzione al controllo delle forme, anche il contenuto si distorce: così incasellati, i simboli dell’antagonismo messi in fila dal mito arcaico si appiattiscono all’insegna della logica dell’affastellamento propria dei format televisivi. Nonostante il gran dispendio di energie dei due “conduttori” – perché mai la loro presenza si definisce in una pur distaccata mimesis attoriale – il messaggio si disperde e a essere sconfitto è il ragionamento del bambino, costantemente tirato per la giacchetta da un fuoco d’artificio all’altro.

Abbiamo però visto anche esperimenti più raffinati, come Vassilissa e la Babaracca di Kuziba, che in una scena cupa e ambrata organizza una meditazione sulla dualità tra accettazione e rifiuto. A partire dalla leggenda slava della Baba Jaga, la strega dei boschi che nella fiaba slava schiavizzava Vassilissa la bella, prende forma una sorta di “preferirei di no” bartlebyano usato come forma di redenzione a una totale remissività. Pur scontando qualche affanno nella gestione della corporeità dei due interpreti (divisi dalla baracca mobile che da elemento di meraviglia si trasforma presto in ingombrante architettura), la regia di Raffaella Giancipoli compone una guida originale verso un’iniziazione all’età adulta. Che infatti raccoglie e posiziona bene l’attenzione, con pochi segni e molta semplicità.

Sulla semplicità si fonda anche Il re clown di Pietro Naglieri (Skèné), una favola quasi patafisica che sembra fare il verso all’Ubu Roi – a sua volta caricatura del dramma moderno – per consegnare ai bimbi dai 5 anni un messaggio chiaro sulla creatività, sul potere dell’arte, sulla condizione di emergenza degli artisti, sulle distorsioni del potere. Uno spettacolo che potrebbe stare in una piazza come in un salotto, perché ben piantato su codici scarni, leggibili e rispettosi della fantasia dello spettatore. La qualità sta anche qui, nel saper condensare in una struttura rigorosa le potenzialità del divertimento, l’interazione e dunque la collaborazione tra palco e platea nella costruzione di un immaginario che non senta il bisogno di storpiare accenti, ritrovando invece nella caricatura la scintilla della satira culturale per tutte le età.

Più che con una diretta intenzione di critica negativa, certi esempi portati qui servono a individuare una possibile chiave, forse proprio quella di proporre, in forza di un “diritto del bambino al rispetto”, una feconda semplicità. Mettere a punto un sistema di segni che abbia il coraggio di porre domande e di lasciare aperta – nei ritmi e nelle forme del teatro, più che mai malleabili – la via per una risposta imprevedibile.

Sergio Lo Gatto




Il diritto del bambino al rispetto. Seconda istantanea da Maggio all’Infanzia

Un attore sul palco indossa un abito dai colori spenti, tutto lo spazio è suo, lo guardiamo raccontare la storia di Don Lorenzo Milani, la sua voce è amplificata da un microfono ad archetto, la voce interrompe il silenzio, il campo visivo è tutto aperto, la sua figura sta al centro di un piccolo boccascena. Racconta da attore rivolgendosi a noi spettatori, a tratti interpreta “cadendo” nel personaggio, secondo gli essenziali pauperitstici e ricorrenti stilemi della performance epica di narrazione. Racconta di Lorenzo mettendo in luce soprattutto i suoi burrascosi rapporti con la chiesa, la cacciata da Calenzano, gli strali dei cardinali, con i tentativi di isolamento che finirono per aumentare la risonanza dell’azione del parroco, almeno nel tempo successivo alla sua morte. Tratteggia velocemente il suo “fare scuola”, dove a turno si diventava maestri e allievi perché la sapienza appartiene a tutti, dimostrando che dal confronto e scontro e dialogo “vero” con i bambini non possiamo che imparare tutti, quotidianamente. Guidare qualcuno e che nessuno resti indietro, ci ricorda Don Milani nel racconto appassionato dello spettacolo Cammelli a Barbiana di Inti / Thalassia (di e con Luigi D’Elia, scritto insieme a Francesco Niccolini e diretto da Fabrizio Saccomanno). Il primo passo necessario è guardare a noi, al nostro rapporto con i bambini, alle parole che usiamo per parlare con loro, ai discorsi e alle immagini che mettiamo loro di fronte agli occhi. Se “fare scuola” è un modo per “liberare”, allora raccontare attraverso il teatro dovrebbe essere un tentativo di liberazione con altri mezzi. Ogni opera d’arte che affermi di voler dialogare con bambini e ragazzi dovrebbe avere da qualche parte un nocciolo che lavora per “liberare” i più giovani, almeno dai gorghi uniformanti dell’intrattenimento che spegne ogni domanda sulle bruttezze del mondo, dalla solitudine innescata dall’uso solipsitico dei social media come surrogati delle relazioni (famigliari, in primis), ma anche dalla tensione fruitiva frammentata imposta dai mille “tasks” dei nostri dispositivi, quando predomina il lato che disincentiva la capacità di autonomi procedimenti di simbolizzazione e interpretazione. Che senso ha, un’arte per l’infanzia, se almeno in parte non prova a coltivare questo spirito?

Grazie al meritorio lavoro delle Edizioni dell’Asino, negli ultimi anni è stato riscoperto un fondamentale testo del medico e pedagogo Janus Korczak, vissuto durante la persecuzione razziale e morto in campo di sterminio. Il “diritto del bambino al rispetto” è una delle sue formule più note, presenti in scritti dove si afferma che “piccolo” non può né deve essere sinonimo di minore, o mancante, o debole (qui si possono trovare diversi materiali di approfondimento, come una lettura del testo di Moni Ovadia in mp3). Citiamo Korczak perché alcuni spettacoli del cosiddetto teatro ragazzi sembrano dimenticare il principio del rispetto, ma anche le generali idee di liberazione di Don Milani, producendo linguaggi non all’altezza della grande sfida dell’infanzia. Si potrebbe descrivere così questo principio: siamo a teatro insieme a bambini e ragazzi, quello che vediamo riguarda noi come loro, ci entreremo con domande diverse ma il mistero del teatro, la sua alterità, la sua ricerca di senso devono investirci ugualmente. Fate vedere ai bambini quello che vorreste vedere voi, diremmo con una massima quasi evangelica. Tenendo anche presente l’universo audiovisivo nel quale siamo tutti immersi, prodotto maturo dell’ideologia dei nostri tempi, il consumo, per il quale conta prima di tutto intrattenersi, divertirsi, cazzeggiare e mai fermarsi a pensare e dubitare.
La coppia di bambini raccontata in Fratellino e sorellina di Ruotalibera mostra una condizione infantile scimmiottata da due attori adulti con mossettine del corpo e vocine sottili, un fingersi bambini senza giocare a farlo. I due si riprendono con una telecamera “del padre” che rimanda un fondale sbiadito per carenze tecniche; lo spazio è delimitato con semplicistiche linee verdi sagomate dalle luci del palco, ogni tanto le azioni sono inframezzate con canzoncine televisive che risultano fuori tempo massimo, dalla D’Avena a Happy Days. Perché presupporre che al bambino basti così poco? Infatti nessuno ci crede e la sala rumoreggia senza sosta.

Arabesk è la produzione del Teatro Abeliano, per la regia di Vito Signorile, lavoro dove la schematicità narrativa si basa sulla stessa mancanza di rispetto aggravata da un’enfasi didattica. La nonna sul lato cuce i fili del tempo scenico, dentro a un ruolo di narratrice che semplifica l’arte del racconto come se chiunque potesse dire: “ora ti racconto una storia!” e risultare credibile, facendo comparire attori che mimano personaggi sbozzati, trattati come macchiette. Ci sono gli animali di Pierino e il Lupo, nella prima parte, con le peripezie fiabesche e con il lupo che grida gracchiando di essere cattivo, il gatto che parla un inglese maccheronico, l’oca cicciottella che cinguetta con la voce stridula, l’uccellina che sorride come se il mondo fosse bello roteando le braccia contenta, con Pierino paffuto, le gote rosse, illuso e sorridente e molleggiato. La nonna è impegnata a spiegare la corrispondenza fra le tracce audio di Prokof’ev e i diversi personaggi, in una lezioncina che corre parallela alle vicende. Tutti sappiamo come andrà a finire e chi verrà mangiato, capiamo da subito che entreranno in scena i cacciatori e risolveranno vicende narrate assecondando un registro recitativo semplificato, smaccatamente ironico, quasi autoparodico. È questo mondo narrativo che stiamo preparando per i nostri bambini? Staranno dentro a questa melassa dove tutti fanno battute e nessuno fa ridere, dove il lupo è cattivo perché è la fiaba che lo prevede (ma a ben vedere è buono anche lui, suvvia), dove il teatro si confonde con uno show televisivo che scimmiotta il musical, come nella seconda parte giustapposta alla prima e introdotta dalla nonna? Probabilmente sì, ed è un grande problema. Il secondo tempo cambia ambientazione ma non registro, è un fantasy ispirato a L’apprendista stregone, attori e attrici entrano nei panni di indispettite scope che allagano le stanze rispettando una maldestra formula magica del mago apprendista, e ci chiedono di credergli perché indossano bizzari costumi e si muovono a scatti senza nessuna invenzione corporea.

Un esempio di “rispetto” lo si è visto a nostro parere in La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, una scrittura di Fabrizio Pallara e Valerio Malorni, con quest’ultimo in scena. L’attore interpreta un uomo che racconta del se stesso bambino, e del suo “sprofondamento” nel bosco, un al di là dello specchio topos di diverse peripezie fiabesche, come accade per esempio nella versione animata “boschiva” di Hayao Miyazaki in Il mio vicino Totoro. Dobbiamo entrare in un bosco, ci dice l’uomo, invitandoci a sospendere l’incredulità, insieme, bambini, ragazzi e adulti. Lui sta in una scena che odora di resine e che sparge effluvi, riempita di ceste, latte, tronchi, ramazze, cappelli, pentole, ganci, taniche, radio. Ha uno strano accento sudamericano, dentro al bosco incontrerà spiriti maligni che daranno il via a nuove avventure e visioni, dietro a un velo appariranno fantasmi, animali fantastici, occhiacci di fuoco, udiremo gufi e vedremo gorilla, il tutto in uno spazio a portata del nostro sguardo, concreto e tangibile eppure trasfigurato, mentre un percussivo quasi costante riempie l’ambiente sonoro. Qui stiamo tutti (grandi piccoli e medi) di fronte a un rito di passaggio sciamanico, in ascolto di un romanzo di formazione magico, rapiti da quella presenza, scordandoci a volte delle tappe narrative, degli incontri, delle prove, insomma della “storia” che si dipana di fronte a noi. Ed è forse qui l’unico nodo che può essere sciolto del lavoro, anche se i nodi forse non vanno mai del tutto districati.

 

Lorenzo Donati




Quanto teatro c’è nel teatro ragazzi? Prima istantanea da Maggio all’infanzia

Maggio all’Infanzia è molto più di un festival, è un denso momento di ritrovo per un intero ambiente. Sotto un sole incandescente ma temperato dalla brezza spinta avanti dal mare, artisti, operatori e spettatori più o meno giovani si incontrano attorno a una programmazione fitta di spettacoli e attività collaterali (dal 18 al 21 maggio 2017). Non è facile, dunque, dare conto di questa fervida attività, anche perché il ritmo altissimo porta chi attraversi il festival a confrontarsi in breve tempo con una pluralità di linguaggi, di stili, di urgenze tematiche e modalità di presentazione.
In questa prima istantanea da Bari, allora, sperimentiamo un approccio che dai singoli spettacoli parte e che a essi ritorna, ma tenendo come bussole alcune istanze generali che possono forse stimolare un ragionamento più ampio.

Altrove, soprattutto di fronte a quegli spettacoli che portano temi controversi e che introducono svolte di semantica non del tutto pacificate, ci siamo trovati in passato a domandarci se del teatro venga realmente evidenziata la capacità di offrire una lente caleidoscopica, complessa e stratificata.
Tutti gli elementi che lo caratterizzano – la fruizione collettiva, l’insieme di rituali che lo rendono un evento di socialità, ma anche la straordinaria universalità dei linguaggi – sono di per sé garanti di opportunità di comunicazione ogni volta nuove, in potenza mai davvero prevedibili.
Cerchiamo qui di osservare come i primi spettacoli visti siano aperti a misurarsi con tutto lo spettro della teatralità.

 

 

Lo Schiaccianoci Swing, immaginato da Cosimo Severo per la Bottega degli Apocrifi, riesce davvero a catturare anche i più piccoli, proponendo un ingegnoso miscuglio di performance musicale e teatro fisico. La fiaba originaria di E.T.A. Hoffmann si tramuta in un lungo sogno dadaista, riorganizzato in uno spazio ampio e ben disegnato, con uno schermo di tela e di alluminio, una poltrona che corre su ruote dove si addormenta la piccola Marie. Nell’animarsi, i giocattoli finiscono preda di una sorta di incantesimo che – e lo si capisce nelle note di contrabbasso, percussioni, chitarra e violino e nel modo in cui vengono suonate – minaccia continuamente di mandarli in mille pezzi. L’attenzione degli spettatori – una platea gremita nella sala grande del Kismet – è tenuta da un semplice ma raffinato gioco di luci e controluci, da un utilizzo ritmico e però garbato dello spazio, anche aiutato da una giusta prossemica. In questo tentativo di transizione di linguaggio (da fiaba a concerto) si ripensa in maniera originale lo schema drammaturgico (di Stefania Marrone), si sfruttano gli strumenti del teatro per guidare anche in un’appuntita ricerca musicale, che spazia di genere in genere e finisce per farsi parola.

Per certi versi simile è Biancaneve, la vera storia, il progetto del Crest che produce un allestimento di Michelangelo Campanale pronto a riconsegnare in una nuova veste la figura complessa di Biancaneve. Il punto di partenza è la fiaba originale tedesca, ben lontana dalla “messa in zucchero” di Walt Disney del 1937 (sbeffeggiata nella prima scena) e invece orbitante in un universo cupo e poco rassicurante. Qui la matrigna vanitosa è prima di tutto una madre, che sceglie di ripudiare la figlia per il timore che le usurpi il trono della bellezza. La storia è narrata da uno dei sette nani, ed è mirabile l’uso della struttura drammaturgica, divisa in sette racconti (uno per nano), in grado di regalare al pubblico gli strumenti per dividere cognitivamente sequenze e durata del racconto. Il tema della dualità aspetto esteriore/aspetto interiore (come dire superficie e profondità) è trattato, insieme a un fine ragionamento sul potere, con garbo ed eleganza, anche qui facendo leva sulla sapiente creazione di uno spazio di “maraviglia”, semplice ma efficace, come in molte scene curate in passato da Campanale. Se c’è una piccola resa alla retorica sta nel messaggio lanciato al giovane spettatore, che nell’epilogo viene distanziato e rimesso al sicuro, come se una storia di abbandono così terribile non potesse davvero riguardarlo. Ma in un ritmo incalzante ma non forsennato trovano posto una accanto all’altro comicità e lirismo, si può parlare di morte e di paura, di cattiveria umana e di redenzione.

La questione se i mezzi del teatro ricevano o meno giustizia è materia anche per altri tre lavori visti in questa prima giornata, messi a punto non certo con sciatteria, ma in qualche modo legati da una sorta di compressione delle possibilità.

Quelle ragazze ribelli del Teatro Due Mondi sceglie il teatro per ragionare sulla necessità di opporsi alle «convenzioni, discriminazioni, stereotipi culturali», espressa da cinque donne, diverse per provenienza e per momento storico vissuto. Nelle note si parla di «conferenza spettacolo»: e in effetti la modalità didattica è chiara fin da subito, dall’uso dello spazio, liberato per ospitare solo uno schermo bianco, dove a volte corrono ombre e sagome. Il resto dell’azione è un dialogo con la Storia, apparentemente distaccato, e tuttavia reso più personale dall’effettiva impersonificazione delle due con i vari personaggi. Si tratta certo di simboli più che di personaggi, ma proprio questa minuzia di rappresentazione (soprattutto nell’anziana “staffetta” che ricorda gli scampati pericoli nel passare le informazioni ai partigiani), pur se temperata con l’ironia, rende meno chiara l’impostazione generale. L’abbondanza di esempi, che necessita ogni volta di una spiegazione da zero del contesto spesso gravida di termini complessi, finisce per sovraccaricare di informazioni i piccoli spettatori, senza fornire loro indicazioni di linguaggio sufficientemente coerenti. Allora, pur essendo da lodare il tentativo di approcciare temi complessi, la Resistenza, le proteste punk delle Pussy Riot e una crociata individuale contro la segregazione razziale vengono consegnate all’interno di un sistema di segni non sufficientemente chiaro, che tenta di far rientrare nello schema conferenza un vortice di linguaggi, rischiando di appiattire le profonde differenze di contesto tra gli esempi scelti e lasciando l’archetipo “girl power” come unico appiglio.

L’arco di Atalanta di Luna Comica, in scena alla Casa di Pulcinella, riprende il tema della «eroina in mezzo agli eroi» poggiando sulla scrittura di Gianni Rodari e sul corpo e la voce di Carla De Girolamo. La trama mitologica che fa da colonna è già per sé molto densa e ricca di riferimenti culturali, geografici e tematici. Se nelle prime sequenze il gesto pulito e la voce presente dell’attrice riescono a tenere insieme l’attenzione dello spettatore, è quando da un’avventura si entra nell’altra che il corpo – pur esperto nel gestire la centralità del palco – sembra non bastare più. Il linguaggio della narrazione finisce per plasmarsi troppo sulle cadenze dialettali utili a differenziare i personaggi, dimenticando come le proprietà trasformative degli oggetti e della figura e il disegno delle luci possano essere fondamentali nell’architettura del racconto teatrale. Pur se solide appaiono certe posture dello scheletro e certe inflessioni della voce, il ritmo si appiattisce in una storia troppo ancora ancorata al respiro della letteratura.

 

Le Manifatture Teatrali Milanesi producono invece un interessante «kit didattico» attorno al loro L’arte della menzogna, un monologo scritto da Valeria Cavalli e da lei diretto con Claudio Intropido. I destinatari sono gli insegnanti, sponda per i riceventi primari, gli alunni. Il tema dell’omosessualità è associato alla difficoltà di posizionare un’identità complessa dentro a un mondo che pare organizzare le proprie conoscenze sul principio di riconoscibilità. Il generoso lavoro dell’attore, Andrea Robbiano, consegna al pubblico dai 12 anni in su una narrazione in prima persona che attraversa il vissuto di un giovane milanese tormentato – fin dalla prima adolescenza – da una straordinaria capacità di mentire, risolta solo nell’ultima frase, quando Diego riesce a confessare al padre, severo carabiniere, il suo “peccato originale”. Ma per farlo dovrà prima vomitare tutte le bugie accumulate sullo stomaco, una per ogni importante scelta di vita, dallo sport preferito alla carriera nell’Arma.
È dunque interessante, da un punto di vista drammaturgico, questa sorta di “effetto domino” che, innescato da una giustapposizione di compromessi verso una società conformista, srotola d’un tratto un’intera coscienza. Le perplessità restano però riguardo alla messa in opera del linguaggio teatrale. Se il kit didattico è curato nel dettaglio e disegna uno schema di contatto che dimostra di conoscere alla perfezione il destinatario, la scelta di incaricare un solo attore di un’autobiografia incespica con l’idea di partenza. La definizione di un’identità complessa si realizza qui a contatto con altre identità molto più bidimensionali, proiettando sul lavoro fisico e vocale un mondo interno che non contempla a fondo le ragioni di certe chiusure mentali. Se pur originale è la messa in musica di certi passaggi dentro una narrazione cantata e suonata alla chitarra, la catarsi del personaggio – presentato fin dal principio come fiancheggiatore degli spettatori che a propria volta chiede comprensione – resta allora imprigionata dentro la fatica (emotiva e fisica) del protagonista. Questi accentra su di sé l’attenzione in una narrazione fortemente didattica, a tratti a rischio di non problematizzare a sufficienza il punto di vista contro il quale quella verità rivelata vorrebbe ergersi.

 

Sergio Lo Gatto




Fiabe melanconiche dei nostri giorni tristi: sesta istantanea da Segnali

Cari cuccioli di Compagnia Rodisio
Cari cuccioli è uno spettacolo tenero, pieno di poesia e delicatezza, un haiku che contiene immagini emozionanti, create con una perfezione scenica dove ogni elemento è pesato nei minimi dettagli. Manuela Capece e Davide Doro – fondatori della compagnia Rodisio, ideatori e interpreti del lavoro qui presentato – appaiono come figure  smussate e indefinite dalla fitta nebbia che accoglie il pubblico appena entra nella sala teatrale. Rivolto ai bambini dai 2 ai 5 anni, accompagnati dalle loro famiglie, lo spettacolo non utilizza parole, ma si affida alla potenza di immagini visionarie che, intrecciate a una colonna sonora dai toni fortemente lirici, affascinano piccoli e adulti conducendoli al di là del bosco, in un territorio impalpabile e soffice, un posto segreto dove vi sono cura e dolcezza. I due attori  attraverso gesti coreografici e pochi oggetti che piano piano appaiono dal nulla e si collocano nello spazio – una finestra, una poltrona, un materasso, un fuoco acceso, un albero fiorito, la luna piena – ricreano una casa essenziale, un ambiente pronto ad accogliere ciò che verrà, il futuro che cresce. Cari cuccioli lavora su più livelli interpretativi e intreccia elementi ripresi dalle fiabe classiche e archetipi ancestrali: si attraversa il bosco e si bussa alla porta perché il nuovo è ciò che non si conosce e che proviene da fuori. Se lo spettacolo per i bambini può rappresentare un’iniziazione all’esperienza teatrale, per i genitori è il racconto della condizione che si attraversa quando ci si prepara a diventare genitori. La casa è pronta, il latte è nella tazza, il fuoco è acceso e si aspetta che la nuova vita, il caro cucciolo, bussi a quella porta. Il rito è iniziato. (c.t.)

Alan e il mare di Giuliano Scarpinato
Ci sono spettacoli che dividono il pubblico in maniera netta. O almeno l’impressione, all’uscita, è che vi siano punti di vista contrapposti. Raramente capita, come nel caso di Alan e il mare, ultimo lavoro di Giuliano Scarpinato, che la spaccatura sia così marcata che si trovino spettatori in lacrime, perché commossi e altri paonazzi, perché arrabbiati. Alan e il mare è – almeno questa la sensazione al debutto a Segnali di Milano, con un pubblico però solo di adulti e di addetti ai lavori – uno di quegli spettacoli che non lascia indifferenti e che pone subito alcune domande cruciali, anche metodologiche, che sono poi le domande che riguardano il settore del teatro ragazzi, ma che in realtà comprendono tutto il teatro. Dopo il polverone di Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, spettacolo sull’identità sessuale, Scarpinato, sempre per un pubblico a partire dai 7-8 anni, sceglie un argomento altrettanto scottante, come i viaggi tragici dei tanti stranieri che scappano dalle guerre. Una provocazione o il desiderio di spingere il teatro ragazzi dentro le grandi questioni dell’attualità? Una mossa à la page o “necessaria”?

La prima domanda riguarda dunque la tematica: è opportuno raccontare a bambini di sette-otto anni le tragedie degli immigrati che muoiono in mezzo al mare? Un po’ frettolosamente, a rischio di ideologia, si può rispondere di sì, basta trovare la forma giusta (d’altronde Art Spiegelman ha  raccontato l’olocausto con i fumetti, riuscendoci, Benigni con il cinema, meno convincente…). E dunque: qual è la forma giusta? Come si racconta una tragedia? Lo spettacolo parla di un padre (Federico Brugnone) che si imbarca con il proprio figlio a Bodrum per fuggire dai bombardamenti. Una terribile tempesta colpisce lo scafo e il bambino muore affogato. La storia si sviluppa dal punto di vista del padre che, in preda a deliri o sogni o visioni, mantiene un filo, un dialogo, un rapporto con il figlio, trasformatosi in una sorta di pesce. Il padre tenta invano di trascinarlo fuori dall’acqua, fino a che, in un processo doloroso di accettazione del lutto, si immerge nelle profondità marine, alla scoperta di un nuovo mondo. Ci sono sentimenti di angoscia, di paura, ma anche molta dolcezza e immaginazione. La tragedia viene infatti strutturata con le dinamiche della fiaba. Il figlio – interpretato dal bravo Michele Degirolamo – sguscia sul palcoscenico come un pesce fuor d’acqua, e il pensiero va subito a Colapesce, antichissima storia siciliana e di tutto il meridione, di cui esistono decine di varianti (oggi disponibili per Donzelli con le bellissime immagini di Fabian Negrin, probabilmente il più bravo e costante illustratore di fiabe dei nostri anni). E allora la domanda potrebbe diventare: è opportuno trasformare una realtà tragica in una fiaba (dai risvolti tristi in questo caso, ma che contiene in sé, quasi per statuto, una sorta di “cura”, di catarsi, di rielaborazione?). Le “fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino, ammonendoci, in un certo senso, rispetto alle derive più evasive e inconsistenti. Le fiabe cioè andrebbero prese sul serio, perché rispondono ad elementi profondi dell’animo umano. Ma che tipo di processo educativo si può innescare nella dinamica che trasforma la realtà in fiaba? Quali i pericoli? Come si evita la rappresentazione ammiccante e finzionale, inevitabilmente fallace? La “cura” di cui è portatrice la fiaba, anche quando parla di morte, di cosa è fatta? Come evitare la retorica sentimentale?

Scarpinato ha talento e coraggio, ma sceglie di camminare su una strada scivolosa e per mantenere il giusto equilibrio è obbligato ora a togliere, ora ad aggiungere elementi; è costretto a pigiare su uno stato emotivo, per ottenere un primo piano efficace, ma qualcosa sullo sfondo va inevitabilmente a perdersi. La guerra e l’iniziale disperazione sono appena accennate e lo spettacolo si concentra sul rapporto padre e figlio (la madre, con il velo, è solo un’immagine virtuale, muta, che sembra vivere ormai in un altro mondo, una vera alterità nella sua assenza…). La scenografia è composta da pannelli, organizzati come fossero le schegge di uno specchio rotto, sui quali sono proiettate immagini che riscaldano il clima emotivo, spesso contraddistinto da forti elementi di pathos e di commozione, e da momenti ludici. Ad esempio il viaggio verso il mare si segue sullo schermo in soggettiva, come un videogioco, con bonus da guadagnare e nemici da sconfiggere. Qualcuno si lamenta, sostenendo che trasfigurare questi viaggi disperati con il filtro del game è una falsificazione o una mancanza di rispetto. È però vero che, di fronte al pubblico dei più piccoli, il video gioco è una porta di ingresso fortissima, una sintesi visiva molto efficace, che trasmette, metaforicamente, l’idea di pericolo e di viaggio. Che il viaggio dei migranti oggi sia l’unico riconducibile in qualche modo alle narrazioni picaresche è un fatto evidente e che, anche nella disperazione assoluta, possa entrare l’avventura, come genere letterario, lo ha dimostrato Primo Levi con il suo romanzo forse più bello, La tregua. Il genere dell’avventura non è il videogame, ma che nell’immaginario collettivo vi sia stato questo slittamento è assodato e con questa immagine è giusto forse fare i conti. Ma è questo – l’avventura – che si vuole trasmettere? Solo in piccola parte, perché lo spettacolo è ricco di tante altre invenzioni ed è costruito con abilità nella mescolanza di registri e di tecniche, con una sensibilità tutta contemporanea, concentrandosi soprattutto sul rapporto padre-figlio. Forse è addirittura troppo pieno di elementi, che rischiano di confondere qualche passaggio e forse, a tratti, è teso a sedurre e a sorprendere. Ad esempio i tentativi di riportare “in vita” il figlio, l’idea di una sopravvivenza oltre la morte (nel ricordo), sono allo stesso tempo visioni di un uomo impazzito per troppo dolore, sogni, miraggi, cortocircuiti temporali tra passato, presente e futuro… La parabola fiabesca impone in qualche modo una conclusione, una chiusura, per cui si corre nell’elaborazione del lutto. In questo caso storia e fiaba stridono tra loro: da una parte il lutto che ferma tutto, blocca la storia, fa precipitare lo stato emotivo, dall’altra la fiaba che deve trovare una conclusione, far ripartire la vita e che perciò rischia di apparire una scorciatoia.

La cifra un po’ barocca dello spettacolo può infastidire, perché per una vicenda del genere ci si aspetterebbe più sobrietà, così come apparentemente avviene per altri lavori presenti al festival Segnali. In realtà lo stile è la forza dello spettacolo. I due attori, in dialogo con la scena, riescono a dar vita a un linguaggio vivace e convincente. La forma è sofisticata ed è padroneggiata con sicurezza. Certe invenzioni visive e gestuali non possono che avvicinare la “storia” al pubblico dei più piccoli. L’intenzione è chiara. E anche le nuove tecnologie, oltre che per gusto, vengono utilizzate come “ponti”: si sta parlando dell’oggi, non dell’Odissea, e questi stranieri usano gli stessi nostri oggetti.

Più che insistere sulla disperazione della guerra o su differenze culturali tutto lo spettacolo punta sulle similitudini. E il dolore di un padre per la morte del proprio figlio è cosa universale, propria della natura umana. È come se tutta la storia volesse concentrarsi su questo aspetto e quindi paradossalmente subisse un processo di “normalizzazione”. L’impressione finale è che la forza di questo lavoro (che ha senz’altro forza) coincida con il suo stesso limite, cioè l’ambizione. L’ambizione di camminare sul filo di tante cose: dei sentimenti dei padri e dei figli, della cronaca e della fiaba, della politica e dell’indignazione, dei nuovi media e del nostro immaginario. È una bella ambizione, che in parte trova risposta concreta e in parte lascia qualche dubbio, che vale la pena tenere sospeso. Tra le altre cose pare un po’ insistito il riferimento al “caso” mediatico suscitato dalla foto, che ha fatto il giro del mondo, di Aylan Kurdi, il piccolo profugo senza vita sulla spiaggia, da cui lo spettacolo prende spunto. Un riferimento che forse porta fuori strada. Piuttosto rimane grande la curiosità delle reazioni che potrebbe avere un bambino. I bambini sono immersi dentro questa trasformazione epocale ancor più degli adulti. Nelle scuole dei più piccoli storie di stranieri giunti in Italia in modo rocambolesco sono all’ordine del giorno. Ecco che di fronte a un richiedente asilo che si incontra per strada un bambino può chiedere cento cose: chi è? Da dove viene? Come ha fatto ad arrivare fin qui? In un certo senso con questo spettacolo è come se si dicesse che dietro a un’immagine mediatica, dietro a un volto si può nascondere un grande lutto, un grande dolore, una storia terribile di ingiustizia, un essere umano come noi, ma a tutte le altre domande dovranno rispondere genitori, insegnanti, educatori. (r.s.)

Mister Green di Elsinor-Vat Teater
Qual è il rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura? È ancora possibile trovare un contatto con l’ambiente prendendo le distanze dalle sovrastrutture che la contemporaneità ci impone? Siamo disposti a ritrovare un dialogo “ecologico” con la realtà, rinunciando alle comode mediazioni della modernità? Queste domande sembrano essere al centro del progetto Mister Green, seconda presenza internazionale a Segnali, frutto di una coproduzione di Elsinor con la compagnia estone Vat Teater. Si tratta di un lavoro dal forte impatto visivo, con una scenografia fatta di videoproiezioni che accompagnano un uomo comune totalmente “urbanizzato” (interpretato da Rauno Kaibiainen) in un’avventurosa prova di sopravvivenza, dalla città alla foresta e ritorno. La sfida per lui sarà affrontare un’intera notte in mezzo a una natura selvaggia prima di riuscire a tornare alla civiltà, cercando di compiere azioni apparentemente elementari (accendere un fuoco o allontanare un animale) o di trovare un complice dialogo con le piante. Imprese in cui, forse, i ragazzi del pubblico sarebbero ben più abili dell’adulto che si trovano davanti. L’interpretazione mette in luce goffaggini e inadeguatezze, sconfinando a tratti nella macchietta. Se l’articolazione delle tematiche e l’apertura di domande proposte dalla drammaturgia rischiano di restare legate all’evidenza della pura vicenda, ad accompagnare gli spettatori verso nuove sollecitazioni è l’uso delle videoproiezioni: la suggestiva sovrapposizione di immagini a grande scala e movimenti scenici avrebbe potuto tuttavia indagare maggiormente le potenzialità di un’interazione, andando oltre la definizione di un’ambientazione. Tra scenari apocalittici e visioni oniriche, la domanda sul rapporto dell’uomo con la natura può trovare spazio per sconfinare in un immaginario da inventare e allargare il suo significato. (f.s.)

Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazzanetti, Carlotta Tringali




Alla riconquista del futuro: quinta istantanea da Segnali

Racconto alla rovescia di Momom e Nido di Teatro Telaio
Se la vita è un conto alla rovescia, allora la morte è la regina dei conti alla rovescia. Ma cosa accade quando il contare si trasforma in un raccontare? Racconto alla rovescia della compagnia Momom, che narra l’incontro del piccolo Arturo con una Morte più ironica che temibile, ruota attorno a un cambio di prospettiva: il conto alla rovescia non è la fine di qualcosa bensì il tempo per fare qualcosa. A capirlo è proprio il curioso Arturo che, aprendo uno alla volta i doni della Morte con un conto alla rovescia del pubblico in sala, riscopre il suo piccolo ma ricco bagaglio di esperienze: il tempo impiegato per capire il significato del sì e del no, quello per capire che si è uguali ma anche diversi dagli altri, il tempo per fare silenzio. All’apertura di ogni regalo le parole del narratore, e unico attore in scena, Claudio Milani si interrompono per dare spazio a corde, palloncini, fiori e farfalle che, interagendo con il protagonista, raccontano per metafora l’insegnamento di Arturo. Narrazione e linguaggi visivi si alternano sistematicamente sul palcoscenico, dando vita a una fiaba contemporanea, ironica e poetica, per sua stessa natura accessibile, a più livelli e in modi differenti, a tutto il pubblico in sala.

 


Di un linguaggio non verbale (fatto di gesti e di un fischietto/richiamo per uccelli) si serve anche la compagnia Teatro Telaio per Nido, terzo spettacolo della “trilogia degli affetti” che nei due capitoli precedenti, sempre senza l’utilizzo della parola, raccontava ai bambini l’amicizia (Storia di un bambino e di un pinguino) e l’innamoramento (Abbracci). Due uccellini, alle prese con il loro primo uovo, cercano in tutti i modi il luogo adeguato per proteggere il prezioso dono. Al centro del palco un complicato nido che gli uccellini, con bastoncini di legno, costruiscono e ricostruiscono per tutta la durata dello spettacolo: lunghissime pagine di istruzioni, litigate, capricci, colpi di genio e richieste di aiuto da parte degli amici, per arrivare a rendersi conto che alla fine ciò che serviva era sempre stato lì, a portata di mano. Con delicatezza lo spettacolo racconta ai più piccoli non solo le difficoltà, i tempi e la felicità di diventare genitori, ma, più in generale, il faticoso percorso per realizzare qualcosa di importante: la costruzione (nello spettacolo concreta e centrale) necessita di tempo, di impegno e di moltissimi tentativi. (c.l.)

Ok Robot di Teatro delle Briciole
La fantascienza è un genere letterario tra i più significativi del Novecento, anche se in Italia solo da una ventina d’anni si considera culturalmente rilevante. Eppure autori come Wells (da rileggersi La macchina del tempo nella bellissima traduzione di Michele Mari appena uscita), Asimov o, più di recente, Vonnegut o Dick o Ballard hanno influenzato moltissimo il nostro immaginario e sono autori che si prestano bene ad essere letti in classe, perché offrono moltissimi spunti. Sono, come si diceva un tempo, ricchi di “immaginazione sociologica”. Ci si interroga su cosa sarà l’uomo e il mondo in un prossimo o remoto futuro per capire qualcosa in più di chi siamo oggi. Il cinema è stato, e continua ad essere, l’alleato più forte della fantascienza, anche se spesso gli esiti sono tristemente appiattiti sugli effetti speciali e di poca sostanza. Il teatro ha fatto sempre più fatica a immergersi nella fantascienza, anche se, per un’area della ricerca, certe opere e alcuni autori sono stati molto citati e masticati, con esiti spesso felici. È questa solo una premessa per dire che Io robot del Teatro delle Briciole, per la regia di Beatrice Baruffini, è molto interessante, anche per quanto concerne la tematica scelta. Il nostro presente, come disse Ballard pochi anni prima di morire, è ormai già intessuto di futuro e i cambiamenti sono così rapidi che diventa difficilissimo fare previsioni o immaginare altri orizzonti. Compiere un “esercizio di futuro”, in relazione ai cambiamenti già in atto, è utilissimo per mantenere vivo quello sforzo di “prefigurazione” che è alla base sia del discorso educativo, sia dell’analisi critica. Siamo tutti immersi nella rivoluzione digitale/robotica e il rapporto tra tecnologia e infanzia si trova ad essere sempre più discusso (vedi i vari interventi ad esempio di Franco Lorenzoni).

Lo spettacolo sceglie come protagonisti due robot dell’ultima generazione, che capitano in un luogo che non conoscono e che poi scoprono essere la “pancia della grande ruspa”. Non sanno perché sono stati scartati. Tutto funziona correttamente. In questo strano luogo incontrano altri due prototipi di robot: prima una sorta di “casco virtuale” che fa loro girare la testa, come una droga o un sogno indotto, poi un piccolo robottino degli anni venti, un po’ giocattolo, un po’ da museo meccanico. L’idea è bella. C’è una prospettiva anche temporale della tecnologia che, seppure per piccoli tratti, offre la possibilità di ragionare su una “storia delle scienze robotiche”. I due attori (Simone Evangelisti e Agnese Scotti) sono bravi a utilizzare la voce metallica e a segmentare il movimento secondo lo stereotipo del robot-burattino. Si solletica l’immaginario collettivo (dai cartoni al cinema, ma soprattutto si cita il mondo dei video musicali da Laurie Anderson con O Superman, che nel 1981 fu anche performance, a Bjork con All is Full of Love e poi Lady Gaga e cento altri), facendo indossare bianchissime tute spaziali ai due attori e creando uno spazio vuoto di sospensione. I due robot nella ricerca del loro difetto iniziano a fare domande sempre più “esistenziali”, uscendo fuori dai binari della meccanica e intraprendendo una sorta di viaggio di conoscenza nella natura umana, come fu per il mitico e citato Blade Runner. È proprio su questo piano che si ricercano agganci con il pubblico dei più piccoli per mettere al centro una questione sulla “diversità” e sulle “grandi domande”. I robot, in un certo senso, nel loro spaesamento sono alla ricerca di una propria strada, sono come “bambini” che chiedono e interrogano. La drammaturgia si inventa anche un bel gioco, adoperando il meccanismo dell’ipertesto, o per meglio dire delle “connessioni” che crea in automatico google. I due robot parlano come macchine, le frasi spesso sono luoghi comuni oppure sono citazioni di qualcosa (film, teatro, libri…). Anche se i riferimenti spesso non sono subito evidenti, è piuttosto chiaro il procedimento. La lingua di google o le definizioni enciclopediche di wikipedia si mescolano a vicenda, con un’idea di lingua meccanica che potrebbe avere molte implicazioni. Complessivamente il lavoro offre moltissimi spunti, però, forse anche perché fresco di debutto, ha qualcosa che non funziona. O almeno questa è l’impressione, anche se andrebbe visto con un pubblico di bambini e ragazzini. Tutti gli ingredienti sono intelligenti, però sembra ancora che vada trovato il ritmo giusto, che si creino, soprattutto nel testo, maggiori porte di ingresso, per favorire frizioni e anomalie. Potenzialmente lo spettacolo sarebbe anche molto divertente, perché cova allo stesso tempo un’ironia sottile e momenti di comicità da teatro dell’assurdo. Ma entrambe le dimensioni faticano ancora a emergere. “C’è qualcosa che funziona poco”, come si chiedevano appunto i robot, “ma non sappiamo cosa”. E dunque la ricerca può diventare l’ottima occasione per continuare ad andare a fondo. (r.s.)

 

Camilla Lietti, Rodolfo Sacchettini




Minoranze schiacciate: quarta istantanea da Segnali

In anni recenti è stato un fiorire di storie legate allo sport. Quando le vicende di un campione si mescolano a scelte politiche controcorrente o a ingiustizie subite, queste somigliano alle gesta di un eroe dei nostri tempi: forza fisica, abilità, innovazione, coraggio… La narrazione contemporanea difficilmente ha creato altre figure dai connotati così epici, dai richiami così antichi. Via da lì. Storia del pugile zingaro di Pandemonium Teatro racconta di Johann Trolmann, detto Rukeli, un pugile zingaro, il cui filo biografico viene tagliato in un campo di concentramento tedesco nel 1942. Ma il nazismo aveva fin dal 1933 colpito il pugile “ballerino”, con l’accusa di muoversi in maniera scomposta, di saltare da una parte all’altra del ring, di utilizzare una tecnica ritenuta “effeminata” e perciò indegna della razza ariana. Il movimento di gambe, un atteggiamento apparentemente selvatico e l’agilità del fisico portarono Rukeli a imporsi presto come campione della Germania nella categoria mediomassimi, ma a vedersi annullato il titolo dal potere nazista. Lo spettacolo segue – così come è accaduto in questi anni nel cinema, in trasmissioni televisive, in teatro e in letteratura – una parabola di crescente pathos e coinvolgimento. Il naturale parallelismo è con il ballerino Muhammad Ali, alle prese con gli odi razziali nell’America guerrafondaia degli anni Sessanta e Settanta. Ma tra partite di calcio nei campi di concentramento, atleti di colore con il pugno chiuso, campioni ebrei perseguitati, le possibili similitudini potrebbero essere davvero tante. Lo sport è diventato un serbatoio ricco di storie che a contatto con la grande Storia producono esempi di soprusi o di riscatto. Delle tante minoranze perseguitate gli zingari continuano ad essere i meno raccontati, e questo rende ulteriormente interessante lo spettacolo.
Inizialmente il lavoro – con la duplice regia di Lucio Guarinoni e Walter Maconi, che è anche l’attore in scena – pare un po’ bloccato nelle dinamiche meno convincenti del teatro di narrazione, poi la storia prende letteralmente “corpo”, incarnandosi nei gesti dell’attore, che con equilibrio restituisce la forza e l’ostinazione del pugile, e la sua origine zingara. La Storia viene proiettata su dei pannelli che circoscrivono la scena e assume i connotati delle parate naziste e dei volti di noti gerarchi. Le modalità narrative ed emotive sono più o meno le stesse di sempre. Ma aver sentito cento volte storie simili, non toglie allo spettacolo una sua originalità e una sua onestà. (r.s.)

Ripropone la trama shakespeariana de La Tempesta lo spettacolo diretto da Roberto Capaldo, per un progetto di Rebelot Teatro prodotto da Residenza IDra. Prospero e la figlia Miranda, di nobili origini ma finiti sull’isola abitata dal mostro Calibano e dallo spirito Ariele, si muovono in un habitat essenziale e artigianale fatto di canne, tende e lucine tipiche delle feste di paese – creato da Antonio Catalano – dove fanno capolino a poco a poco anche gli altri personaggi noti della storia, naufragati per via di un sortilegio voluto dallo stesso Prospero. I tre attori in scena – Sacha Oliviero, Francesca Perilli e lo stesso Roberto Capaldo – interpretano tutti i personaggi di Tempesta 6+ attraverso travestimenti, un utilizzo delle maschere della commedia dell’arte e un gioco di luci e ombre. Lo spettacolo diventa però sovraccarico di segni, dal ritmo incespicante, e più indicato per un pubblico di ragazzi in grado di seguire un’architettura complessa dove il testo ha una forte componente, nonostante le tante immagini create dalle luci di Iro Suraci. Il punto forse più interessante dello spettacolo risulta infatti l’idea di offrire oggi agli spettatori giovani la riflessione ereditata dal bardo inglese sulla potenza del perdono e del pentimento: solo con questi antidoti speciali la vendetta non genera odio ma un mondo migliore in cui si trova spazio per sognare. (c.t.)

Premiato agli Eolo Awards come miglior novità 2017, Piccoli Eroi del Teatro del Piccione raccoglie storie di migrazione. A partire dal potenziale evocativo della fiaba di Pollicino, tre donne (interpretate da una sempre credibile e intensa Simona Gambaro, che firma anche la drammaturgia, diretta da Antonio Tancredi) abitano altrettante stanze, distanti tra loro eppure unite da una stessa comune storia. Accogliendo attorno a un tavolo sette visitatori arrivati da chissà dove, le donne raccontano le diverse facce del viaggio, di chi parte per trovare un futuro migliore: la madre che ha lasciato andare i propri figli, la donna vittima di un “orco” da cui non può scappare, la moglie di un uomo venuto da lontano. Lo spettacolo coinvolge il pubblico in un’esperienza che va oltre la semplice visione: sette spettatori sono i “viaggiatori”, i piccoli eroi che vengono fatti accomodare attorno al tavolo, coinvolti in minute azioni sceniche. Il resto del pubblico (per un massimo di ottanta persone) è “testimone” e osserva la scena oltre un filtro di rami che delimita la stanza ed evoca la presenza di un bosco a circondarla. Passando da scene di buio totale all’intimità di un lume di candela, dalla condivisione di un piatto di patate alla lettura di lettere custodite in un cassetto, dalle rassicuranti parole di una madre alle grida violente di una donna disperata, lo spettacolo costruisce un percorso di partecipazione e ascolto. Il viaggio, la partenza, la lontananza, l’abbandono, la speranza, la paura della crescita e di un futuro ignoto diventano il centro delle infinite storie di migrazione che accompagnano tutte le epoche. Il Teatro del Piccione affronta questi temi con misurata delicatezza e, allo stesso tempo, senza la necessità di costruire intorno alla durezza del reale un filtro di protezione per gli spettatori. La paura è un’emozione che si può vivere, anche a teatro. (f.s.)

 Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti, Carlotta Tringali




Tristezza, dolore e riscatto: terza istantanea da Segnali

La terza giornata di Segnali ha portato l’eterogeneo pubblico, piccolissimi spettatori, ragazzi, famiglie e operatori, in un luogo prezioso: Bì, la fabbrica del gioco e delle arti. Uno spazio polifunzionale e dinamico che ospita un caffè, la biblioteca di Cormano, il museo del giocattolo con oltre 900 pezzi fra macchinine, bambole, trenini e tutti quei giocattoli che hanno accompagnato la crescita dei più piccoli tra il Settecento e la seconda metà del Secolo Breve, e il Teatro del Buratto.
Il Centro dell’infanzia di Cormano, nato nel 2010, fin da subito si è affermato come un’eccellenza, unico spazio dell’hinterland milanese completamente dedicato ai bambini. Molti i commenti sorpresi di genitori e nonni, più emozionati dei piccoli spettatori per la scoperta di un luogo unico nel panorama meneghino.
Gli oltre duemila metri quadrati di questa ex fabbrica dei primi del Novecento hanno iniziato a risuonare di risate, giochi e scaramucce fin dal mattino, prima degli spettacoli Un amico accanto della Compagnia Mattioli e Nemici di Panedentiteatro.

È una figura fantasiosa ad aprire Un amico accanto della Compagnia Mattioli  (spettacolo consigliato per i bambini dai 3 ai 7 anni): due corpi per una giacca, quattro braccia per due maniche e sei scarpe che si muovono, ma che non sono al loro consueto posto e ingannano la normale percezione. Le due attrici sul palco, Monica Mattioli (anche regista dello spettacolo assieme a Monica Parmagnani) e Alice Bossi, dopo essersi contese la giacca, diventano la prima il draghetto solitario protagonista di questa storia, e l’altra il servo di scena di nero vestito che con efficacia muove i semplici e pochi oggetti presenti nel lavoro. Stufo di giocare solo e ritagliare omini di carta, Drotto parte alla ricerca di un amico e lo fa con l’aiuto della fantasia: un semplice palloncino in mano, la valigia nell’altra e lo sguardo pieno di stupore gli permettono così di volare mentre le stagioni passano evocate dalle foglie autunnali portate dal vento, da coriandoli bianchi che ricreano la neve, rami di alberi fioriti in cui si imbatte il draghetto desideroso di confronto. Se elementi di leggerezza e giocosità non mancano, aleggia però su tutto il lavoro una costante tristezza: nel suo viaggio Drotto incontra dei personaggi buffi e curiosi che appaiono e scompaiono ma con cui è impossibile comunicare; l’unica infatti a parlare con lui è una mela che, essendo però commestibile, viene divorata da un tricheco. Al suo posto non rimane che un torsolo e la gioia del protagonista, di nuovo triste e solo, è confinata nella possibilità di giocare e correre intorno a un melo cresciuto grazie agli amabili resti della sua amica: forse in una società in cui le persone hanno “La fretta”, come dice spesso Drotto, e gli esseri umani non comunicano tra loro, l’unica consolazione è imparare a stare bene con se stessi, apprezzando la poche piccole cose che ci circondano, come la natura. (c.t.)

Siamo di fronte a uno spettacolo che parla di guerra, e che vuole farlo con i ragazzi più piccoli, dagli 8 anni in su, ma senza per questo tralasciarne le immagini più inquietanti e spaventose. Nemici della compagnia Panedentiteatro solleva delle questioni fondanti per chi pensa allo spazio teatrale come a un luogo di resistenza, in grado di infondere nel pubblico il desiderio di lottare, in particolare contro una visione del mondo che ci viene data da altri, dall’alto.
Una buca da trincea in cui si nasconde un solitario soldato, interpretato da Enrico De Meo, che non si chiama più per nome, ma con un codice identificativo, qualche barattolo di latta vuoto e un manifesto appeso ai sacchi di sabbia che lo proteggono dal nemico sono tutto ciò che compone la scena. Una scena circolare come i movimenti del soldato che, incalzato da una voce in falsetto fuori campo, continua a ripetere, giorno dopo giorno, le stesse azioni, senza senso, senza inizio né fine, senza la possibilità di fuga da quel buco claustrofobico in cui ha trascorso oltre 1200 giorni. La voce lo osserva, lo sprona all’odio per il nemico, non gli lascia respiro nemmeno negli unici momenti della giornata in cui potrebbe darsi pace: il pasto e la notte. Il soldato senza nome prepara la tavola con quel che ha: un baule, due bende, sei scatole di piselli, una gavetta, un elmetto e l’oggetto più prezioso, insieme al manuale del buon soldato, la foto di sua moglie, sola vera interlocutrice da quando il “compagno di buca” è morto. L’unico pasto della giornata viene interrotto dall’obbligo di ripetere l’alfabeto del nemico: A come abominevole, B come bestia, C come codardo e così via fino alla Z di zozzo. Dopo un’attesa da Deserto dei Tartari in un mondo tanto simile a 1984 di Orwell viene chiesto l’ultimo sforzo al soldato: attaccare il nemico, uno, solo, nella buca di fronte. Il cerchio della scena si ribalta, il nemico è scappato, e il nostro protagonista si ritrova in un mondo che è l’esatto speculare del suo: una trincea identica, gli stessi piselli, la stessa voce che parla in una lingua diversa, unica differenza… (c.f.)

Alle dieci del mattino il Museo del giocattolo di Bì, la fabbrica del gioco e delle arti è gremito di bambini piccolissimi, dai pochi mesi fino ai tre anni. Un pubblico tutto particolare quello di Ecco io qui. Narrazione sensibile per piccoli spettatori di Nudoecrudoteatro. Alessandra Pasi e Judith Annoni cantano una filastrocca, ammaliando i bambini, catturandone l’attenzione, riuscendo fin dai primi minuti a coinvolgerli nello spazio della scena. Questo è il fine di Ecco io qui, permettere ai più piccoli di sperimentare con tutti i loro sensi, guidati dalle attrici, i materiali e gli oggetti più disparati: cuscini di iuta, di lana, riempiti con grano e profumati come fiori, grandi quadrati di legno in cui entrare, tende di seta, specchi in cui riconoscersi o riconoscere l’altro, pezzi di legno da toccare o da suonare. Il vero spettacolo qui sono proprio i bambini che, sotto il vigile sguardo delle due attrici e delle mamme, sperimentano un mondo a loro misura, iniziano a conoscersi, giocano insieme, si prendono per mano per far scoprire al nuovo amico appena incontrato un cuscino particolarmente profumato, i giochi di luce che si possono creare con uno specchietto, la musica che può scaturire da una semplice corda tesa. Per tutta la durata dello spettacolo neanche una scaramuccia, nemmeno un pianto o un litigio e le attrici, spentesi le luci sulla scena, accendono piccole torce e cantano una canzone d’arrivederci di fronte allo sguardo luminoso dei loro piccoli spett-attori. (c.f.)

I trecento posti del Bì Teatro alle 11.00 sono gremiti di pubblico: nelle prime file i bambini e dietro di loro una folla di spettatori di ogni età. In scena c’è Becco di rame di Teatro del Buratto, uno spettacolo tratto dal libro del veterinario Alberto Briganti alla cui ideazione hanno lavorato Jolanda Cappi, Giusy Colucci e Nadia Milani, Matteo Moglianesi e Serena Crocco, questi ultimi anche in scena.
Ci accoglie all’apertura del sipario una notte senza stelle in cui le uniche luci provengono da piccole case fluttuanti nel nero della scena. Becco di rame è infatti uno spettacolo su nero in cui i protagonisti, tutti animali di stoffa, prendono vita grazie ai tre attori che li muovono senza mai far percepire la loro presenza, con grande stupore dei piccoli spettatori. Nello stile di un classico romanzo di formazione scopriamo la storia – vera – di un pulcino, salvato da un mercato e portato in una fattoria. Inizialmente solo, timido e spaesato incontrerà tre curiose galline, un po’ diffidenti perché incapaci di dargli un nome, troppo diverso da qualunque animale abbiano visto: è un cigno, o forse una papera? Il piccoletto non lo sa, si sente rifiutato, ma la conoscenza di Madame C., una cicogna viaggiatrice, e come tutti i viaggiatori esperta del mondo, gli permetterà di scoprire chi è: una regale oca Tolosa, capace di instaurare ottimi legami con tutti gli animali che la circondano. Il pulcino, accompagnato dalla sua famiglia adottiva, una coppia di innamoratissimi maiali, inizia a crescere: i click di una fittizia macchina fotografica fissano i momenti salienti della sua giovane vita. La mente corre all’infanzia di noi spettatori adulti, ogni frame ci appartiene, accomunandoci a tutti i bambini che assistono ridendo al primo compleanno del protagonista, ai suoi giochi, al primo bagnetto dal quale uscirà ormai grande. Divenuto oca da guardia il piccoletto è ora sicuro di sé e tiene al sicuro tutta la fattoria, ma un’enorme volpe meccanica si sta avvicinando pericolosamente. Nella lotta, un combattimento in perfetto stile disneyano, l’oca Tolosa perde la parte superiore del becco, ma riesce a scacciare il malvagio predatore.
Sarà un veterinario, quell’Alberto Briganti che ne ha scritto la storia, a salvargli la vita con una protesi in rame per il becco ed è a questo punto che tornano la paura di essere diverso e il timore di sentirsi nuovamente rifiutato. Invece la sua storia lo rende un simbolo di forza d’animo e coraggio, il suo becco sfavillante un esempio per tutti, grandi e piccini, del fatto che essere diversi non significhi essere peggiori. Alla fine dello spettacolo un emozionato Alberto Briganti è entrato nel Bì Teatro con una grande sorpresa per tutti: il vero Becco di rame sale sul palco, le sue grandi e grigie ali spiegate verso una tournée in scuole, teatri e centri culturali per far ammirare il suo lucente becco, per raccontare a chiunque abbia voglia di ascoltarla la sua storia. (c.f.)

Camilla Fava, Carlotta Tringali