Segni New Generation Festival Quarto: verso possibili conclusioni

Nel programma della XIV edizione di Segni New Generations Festival (Mantova, 26 ottobre -3 novembre 2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni di scambio in una dimensione europea. I Dialoghi sulle estetiche del teatro ragazzi sono stati progettati e coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G (Cristina Cazzola, Cristina Carlini, Giuliana Ciancio, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto con le istituzioni; drammaturgie.

  1. Dove mi colloco; quello che
    penso

Primo
novembre; Teatro Accademico del Bibiena, Sala Piermarini.
Cinquantasette tra operatori e operatrici, artisti ed artiste. Se ne
stanno seduti, in attesa che si cominci. Prendono parola Carlotta
Garlanda e Cristina Garlini di Living, come avvenuto nei giorni
precedenti, ma questa volta – spiegano – «più
che parlare dovrete compiere un gesto».
«Via
le sedie»
quindi, «addossatevi
alla parete di sinistra, che funge da linea di partenza»
e «collocatevi
poi tra il principio e il fondo della sala»
a seconda «di
quanto siete in accordo o meno con la frase che di volta in volta vi
diremo».
Si tratta, insomma, di prendere posizione rispetto ad alcune tra le
affermazioni venute fuori nelle tre giornate precedenti; si tratta di
manifestare fisicamente l’unicità del proprio parere (che non
potrà mai coincidere del tutto con quello degli altri, tanto quanto
il corpo mio e il corpo tuo non possono occupare lo stesso punto
nello spazio) e si tratta di mettere quest’unicità in relazione
con chi, pensandola in maniera diversa, si dispone altrove:
rimanendomi accanto o stando all’opposto da me. Sorta di sondaggio
carnale, la pratica messa in atto da Living aiuta a capire come si
percepisce e come percepisce il proprio lavoro chi si dedica alla
teatralità per le nuove generazioni. E come un fosse un sondaggio ne
riporto perciò i risultati.

Primo.
“Il teatro per ragazzi viene considerato di serie B”
.

In
quaranta (70,1% del totale) sono d’accordo; in sette restano al
centro della sala (12,2%) mentre in dieci (17,5%) sono in aperto
dissenso. I disequilibri delle politiche nazionali («In
Austria il governo non investe quanto in altre iniziative culturali»,
«Ad
Honk Hong si pensa non valga la pena sostenere opere più brevi o dai
contenuti apparentemente semplificati»,
«I
bambini non votano: per questo in Italia il teatro per l’infanzia è
di serie B»),
la specificità del pubblico («i
nostri spettatori non scelgono direttamente: c’è chi lo fa per
loro»), il ridotto sostegno produttivo e le paghe al ribasso danno
il senso di una minorità che certi vantaggi oggettivi (le maggiori
possibilità di tournée, il bacino d’utenza scolastico, lo
sbigliettamento delle
matinée
) non
scalfisce.

Secondo.
“Il processo creativo è condizionato dai mediatori”.

In
quarantatré (il 75,4%) sono d’accordo: presidi, insegnanti o
assessori possono influenzare in principio o in
fieri
proposta, tema e
forma di uno spettacolo: la tal Giornata della Memoria, ad esempio, e
l’urgenza sociale del momento, i programmi didattici, il successo
di certi prodotti commercio-televisivi (considerati più facili da
fruire) sono «fattori fin troppo impattanti». In sette (12,2%)
restano in forse – «non sempre il mediatore incide e i temi
trattati sono quelli offerti dal nostro presente» –; altrettanti
(12,2%) sottolineano il ruolo necessario di maestri e istituzioni:
«in fondo si tratta di comprendere a chi ci si rivolge e in che modo
occorre farlo davvero».

Terzo.
“Partecipazione significa coinvolgimento attivo del pubblico”.

La
maggioranza ritiene che la presenza degli spettatori non sia
declinabile solo in termini di attivismo fisico esercitato
all’interno di uno spettacolo e dunque: in quattro (7,1%) se ne
stanno nel mezzo – «soprattutto per la genericità del quesito»
afferma qualcuno; perché «non dovremmo dimenticare che il teatro
lavora sulle relazioni tra gli esseri umani» dice qualcun altro –
mentre in cinquantatré (92,9%) rivendicano il valore assunto dalla
contemplazione oculare, dall’ascolto che avviene in platea, dalla
coesistenza vissuta frontalmente.

Quarta
e quinta frase – “È
responsabilità delle istituzioni individuare le politiche adatte
alla crescita del teatro ragazzi”
;
“Il settore ha una
scarsa capacità di percepirsi come tale e non lavora in quanto
categoria”
– vanno
assieme: nonostante determinino reazioni diverse. Si tratta infatti
di comprendere cosa possa un Ministero, una Regione o un Comune
rispetto al teatro e in che modo – con un Ministero, una Regione o
un Comune – ci si rapporta non come artista o compagnia ma in
quanto comparto lavorativo.

Nel
primo caso domina l’incertezza: in trentasei (63,1%) non sanno dire
la funzione specifica che toccherebbe alle istituzioni (la «messa a
disposizione di spazi e risorse» forse, e «il monitoraggio
qualitativo», «l’analisi delle ricadute economiche dirette e
indirette sui territori», «la concessione di fondi non legata alla
vendibilità di un titolo»); il 24,5% (quattordici partecipanti)
richiama le istituzioni «al proprio dovere» – definire
«politiche che agevolino sinergie produttive, sostengano il rischio
creativo, promuovano la sperimentazione interdisciplinare, tutelino
la professionalità e consentano l’applicazione in concreto del
diritto all’accesso del fatto artistico, a cominciare dai soggetti
più fragili e poveri» – mentre in sette (12,2%) rivendicano
distacco, alterità, indipendenza assoluta dalla Politica.

Nel secondo caso invece la divisione è netta: in cinque non parteggiano (8,7%) mentre i cinquantadue rimanenti si dividono perfettamente a metà (44,6% da un lato, 44,6% dall’altro): «non riusciamo a essere un insieme», «siamo frastagliati e divisi», «non costituiamo un movimento unitario», «non abbiamo un lessico comune né sappiamo rappresentarci» dicono in ventuno e – di contro – «rispetto ad altri ambiti parliamo di più tra noi», «le occasioni di confronto si stanno moltiplicando», «c’è il lavoro svolto in questi anni da Living, da Facciamolaconta, da C.Re.S.Co.» e «pensate anche a questa giornata che stiamo passando qui, adesso, in questo teatro» rispondono gli altri ventuno.

  1. Ciò che mi sembra

La
quarta giornata ha una funzione riepilogativa – le estetiche sono
assenti: cos’è per me la regia, come scrivo i miei testi, che
relazione scenico-drammaturgica ho con il pubblico, come uso il corpo
sul palco, in che modo declino questo o quel tema, qual è il lessico
che la mia compagnia ha sviluppato negli anni, che storie sto
narrando adesso agli spettatori e quali vorrei invece loro raccontare
domani. Non se ne parla, dunque, e non mi sorprende. È la
conseguenza (consueta) dell’incapacità che gli artisti hanno nel
dire poeticamente di sé ed è la conseguenza del pericolo che
sentono nel mettere in discussione il modo in cui stanno provando a
esistere in scena e della difficoltà che hanno nel trovare parole
che raccontino davvero il percorso tentato, già così incerto e
fragile nella pratica quotidiana. Come avviene di solito, anche in
questo caso si privilegiano dunque gli aspetti economico-
organizzativi.

Gli
operatori e gli artisti del teatro per le nuove generazioni si dicono
dunque nel complesso marginali, influenzati dai mediatori con cui
interloquiscono, indotti ad allestire processi che prevedano una
partecipazione diretta del pubblico che non sempre è necessaria
tanto quanto si dicono incerti nelle relazioni con le istituzioni e
incapaci di pensarsi collettivamente ed è – questa –
un’autorappresentazione identica a quella che la teatralità
(italiana, in particolare) esprime quasi in ogni occasione di
confronto, approfondimento e dibattito. La condizione limitrofa che
lamentano, insomma, è la stessa che appartiene ai teatranti in
quanto teatranti in un Paese che è penultimo in Europa per
investimento in istruzione, che destina alla cultura la metà di
quanto destinano in media gli altri Paesi europei (l’1,1% a fronte
del 2,2%) e il cui Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo si è più
che dimezzato in trent’anni (-54,81% dal 1985 a oggi) tanto da
incidere sul PIL odierno solo per lo 0,019%. L’influenza dei
mediatori subita dal teatro ragazzi rispecchia l’influenza subita
anche in altri contesti ed occasioni dai teatranti – quando
producono con un Nazionale vedendosi imporre dal direttore autore e
titolo, regista o parte del cast, un numero miserrimo di giorni di
prova; quando la loro creatività viene piegata alle esigenze
turistico-culinarie di Regioni e Comuni; quando l’assessore o il
programmatore ricorda che il 2019 è l’anno di Primo Levi per cui
conviene lavorare su La
tregua
, I
sommersi e i salvati
,
Se questo è un uomo
– mentre la partecipazione attiva del pubblico, prima che
un’esigenza compositiva, fa punteggio nei bandi. Basterebbe
ricordarsi che in Italia il Codice dello Spettacolo, atteso da
quarant’anni, è decaduto perché non sono stati redatti i decreti
attuativi per rendersi conto di quanto sia disattenta, friabile e
incerta l’interlocuzione istituzionale mentre – circa
l’incapacità di pensarsi come collettività sindacalizzata – si
consulti Vita da
artisti
ovvero la
ricerca sulle condizioni di lavoro dei professionisti dello
spettacolo redatta dalla CGIL e dalla Fondazione Di Vittorio nel
2017. Intermittenza d’impiego; prevalenza di paghe basse; ritardi
nel ricevere il dovuto; mancato rispetto del CCNL (mansioni non
previste dal contratto, ore di lavoro non retribuite, prove svolte
gratuitamente); insopportabili disparità generazionali, geografiche
e di genere; quota crescente di ricatti, soprusi e discriminazioni
professionali; tecnici e artisti che, a fronte di un infortunio
subito, hanno continuato a lavorare per paura di essere sostituiti.
Siamo “lavoratori autonomi con scarse tutele e diritti” ed
esercitiamo il mestiere “in preoccupanti condizioni di precarietà”
dice di sé l’84,8% dei professionisti dello spettacolo in Vita
da artisti
tanto
quanto dicono di sé i teatranti presenti nella sala Piermarini del
Teatro Accademico di Bibiena.

Mancata dunque l’analisi estetica – mancata una riflessione compartecipata sulle effettive specificità di settore, che sono specificità innanzitutto creative – a fine giornata non mi resta che questo: la certezza che le questioni politiche riguardanti il teatro per nuove generazioni siano le stesse che riguardano l’intero comparto teatrale nazionale.

Alessandro Toppi




Segni New Generation Festival Terzo: drammaturgie

Nel programma della XIV edizione di Segni New
Generations Festival
(Mantova, 26 ottobre -3 novembre
2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale
sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare
la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni
di scambio in una dimensione europea.
I Dialoghi
sulle estetiche del teatro ragazzi
sono stati progettati e
coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G
(
Cristina Cazzola, Cristina Carlini,
Giuliana Ciancio,
Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e
articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto
con le istituzioni; drammaturgie.

Quali le peculiarità della scrittura all’interno del complesso orizzonte del teatro ragazzi? Tre linee di confronto sono emerse con maggiore forza: il punto di vista adottato nella visione drammaturgica, muovendosi amletici fra lo sguardo del bambino e quello dell’adulto; la finalità didattica, spesso territorio di avvicinamento fra teatranti, mediatori, insegnanti; il rinnovamento semantico, non solo in termini creativi.

Spunto quest’ultimo condiviso da Francesca d’Ippolito (Factory Compagnia Transadriatica Teatro), che ha sottolineato inoltre la necessità di allontanarsi da parole ghettizzanti. Pensiero potenzialmente di ampio sviluppo. Anche per la visione sul contemporaneo che presuppone. Le ramificazioni extra-teatrali. All’interno di un settore modificatosi negli ultimi anni per temi affrontati, grammatiche, lessico. Perfino ironia. Eppure la riflessione è rimasta come sospesa. Un poco fagocitata dai continui rimandi alla difficoltà nel rapportarsi con scuole e istituzioni. Un approccio sulla difensiva che ha incanalato il dialogo verso un’analisi piuttosto ingrigita dello stato dell’arte, condizionata nel profondo da dinamiche politico-sociali. Antropologiche, ha azzardato qualcuno. In termini artistici, un apparente filtro con se stessi che ci si domanda se a volte non abbia i connotati dell’autocensura preventiva. E pazienza che il problema in realtà riguardi il mondo intero e non solo il teatro. La frequenza con cui si è riportato il discorso a questo ostacolo del quotidiano, dà probabilmente la misura di come il problema venga percepito nel suo complesso, ben prima di affrontare la pagina bianca.

Più strettamente teorica la questione del punto di vista, anche per il suo legame con le discipline pedagogiche. Perentorio in questo Koehler Detlef (Theater Gruene Sosse, Francoforte), che ha più volte ribadito come lo scopo didattico sia imprescindibile in qualsiasi produzione. Come se il palcoscenico fosse prima di tutto veicolo di messaggio e strumento di avvicinamento. Altre posizioni sono parse più sfumate. O confuse. Talvolta quasi a difendere una propria natura artistica tout court, forse percepita in pericolo di fronte a una limitazione di temi e di orizzonti. D’altronde la riflessione del teatro per ragazzi come figlio di un dio minore è fra quelle che tornano e ritornano con maggiore frequenza. E ambiguità. Rischiando di alimentare un processo di auto-etichettamento che non sembra fare un gran bene all’ambiente (vengono in mente certe dinamiche proprie delle profezie che si auto-avverano). Specie quando arriva ad essere argomentato con giustificazioni identitarie. Forse la nicchia a cui spesso si fa riferimento è più comoda che restrittiva. Il rischio – lo ha fatto intendere la direttrice artistica Cristina Cazzola – è che in questa bizzarra comfort zone a molti non dispiaccia trovare il proprio cantuccio. Eppure la percezione complessiva è che il settore meriti una visione meno sulla difensiva. Di se stessi e del proprio lavoro. A proteggere una virtuosa predisposizione alla ricerca e alla sperimentazione.

Uno scarto. Di prospettiva. In direzione di una presa di consapevolezza come categoria. Concetto purtroppo soltanto sfiorato. Ma da cui probabilmente passa l’acquisizione (o meno) di strumenti utili per cambiare i rapporti di forza politici con istituzioni, realtà locali, scuola. Magari lavorando insieme perché il teatro diventi materia curriculare. L’idea al momento possiede ancora connotati utopistici. Ma non è detto che le cose non possano modificarsi parecchio in fretta nel futuro prossimo. Per un obiettivo che riuscirebbe ad unire necessità sociali, artistiche, lavorative. Non male.

Diego Vincenti




Segni New Generation Festival Secondo: rapporti con le istituzioni

Nel programma della XIV edizione di Segni New Generations Festival (Mantova, 26 ottobre -3 novembre 2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale sul mondo del teatro ragazzi. Tra gli obiettivi, quello di indagare la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche, e le relazioni di scambio in una dimensione europea. I Dialoghi sulle estetiche del teatro ragazzi sono stati progettati e coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G (Cristina Cazzola, Cristina Carlini, Giuliana Ciancio, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) e articolati intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto con le istituzioni; drammaturgie.

Secondo dialogo: i rapporti con le istituzioni

Lavorando in un orizzonte in cui sembra negli ultimi anni essersi accresciuto il grado di consapevolezza (awareness secondo i criteri disciplinari europei in materia di progettazione culturale) sia negli operatori e artisti che nel pubblico, si è consolidata la tendenza a percepirsi parte di una community che si confronta sulle estetiche in rapporto ai modelli produttivi di business e governance, nazionali e internazionali. Nonostante risulti sempre più urgente soffermarsi sulle modalità in cui le estetiche relazionali stanno ibridando la ricerca contemporanea e quindi anche e soprattutto il teatro ragazzi, e come queste poi contribuiscano a delineare i confini dell’arte partecipativa; è opportuno innanzitutto comprendere come le estetiche stesse possano, e debbano, affermarsi nella loro libertà di espressione mantenendo tuttavia il rispetto dei parametri burocratici e amministrativi, i quali ne dovrebbero permettere il sostegno produttivo e distributivo. Si è inoltre discusso durante il pomeriggio della non sempre facile scelta, nella maggior parte dei casi obbligata, di molte compagnie di teatro ragazzi di lavorare per e con le scuole. L’istituzione scolastica resta infatti l’istituzione principale alla quale fare riferimento per l’accesso ai fondi. Perché le compagnie devono adattarsi necessariamente ai programmi formativi ministeriali pena l’esclusione dai finanziamenti? Perché l’ente scuola non considera lo spettacolo in sé andando oltre la più frequente richiesta laboratoriale? Queste sono solo alcune delle domande prese in esame. Individuando delle direttrici argomentative riguardanti cosa funziona, cosa manca e cosa si dovrebbe migliorare, i partecipanti al dibattito hanno discusso tanto dell’atteggiamento di chiusura da parte di alcuni enti e della loro frequente disinformazione quanto, allo stesso modo, del bisogno di dover entrare in contatto con le istituzioni del territorio, interlocutori indispensabili ma limitanti se non in grado di formarsi adeguatamente. La condivisione culturale e territoriale, tuttavia, deve fare i conti con una realtà frastagliata e differenziata da regione a regione, dove alcuni possiedono capillarità e ascolto e altri hanno difficoltà strutturali. Assunto di contesto in virtù del quale si potrebbe iniziare col ragionare attorno a interventi che, nel rispetto delle diverse specificità, possano vertere in primis su un programma di formazione e aggiornamento di un lessico della pratica scenica compreso e usato adeguatamente da tutti, affinché non ci siano incongruenze di significato fautrici di futili rallentamenti di percorso. In assenza di un vocabolario, il concetto di libertà quanto quello di pratica rischiano di inficiare la stessa progettualità condivisa alla quale gli intervenuti si sono ripetutamente appellati durante il dibattito. Sembrano infatti mancare degli strumenti riconosciuti e usati unanimemente: ciascuno dei partecipanti se da un lato ha fatto riferimento a problematiche comuni, dall’altro queste però sono state denunciate attraverso proposte di risoluzione dissimili che testimoniano come la consapevolezza del proprio operato sì cresce ma non è indirizzata verso una prospettiva che possa così trovare un’applicabilità formale ed egualitaria. Non stiamo parlando di uniformare le pratiche quanto invece di ragionare congiuntamente su processi estetici e manageriali perseguendo obiettivi che siano comuni e riconoscibili nel rispetto delle peculiarità specifiche di ogni singolo caso.

Lucia Medri




Segni New Generation festival Primo: partecipazione

Nel programma della XIV edizione di Segni New Generations Festival (Mantova, 26 ottobre -3 novembre 2019) sono state dedicate quattro giornate a un confronto trasversale sul mondo del teatro ragazzi con l’obiettivo di indagare la relazione tra i sistemi produttivi e le estetiche. Quanto incidono le prassi di distribuzione e finanziamento sugli esiti della creazione? Quanto è riconoscibile all’estero uno spettacolo italiano? La consapevolezza della propria identità e le prospettive di scambio in una dimensione di mercato europeo sono state un altro punto centrale: per questo motivo I Dialoghi sulle estetiche del teatro ragazzi sono stati progettati e coordinati in collaborazione con il team del progetto Liv.In.G (Cristna Cazzola, Cristina Carlini, Giuliana Ciancio, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo) piattaforma impegnata nelle internazionalizzazione delle imprese culturali. Le giornate di dialogo sono state articolate intorno ad alcuni temi chiave: partecipazione; rapporto con le istituzioni; drammaturgie.I Dialoghi sulle estetiche sono pensati come un vero e proprio cantiere di ricerca, di cui la prima edizione mantovana rappresenta una tappa-pilota.

Primo dialogo: Partecipazione

Parola chiave dell’agenda europea, la partecipazione è diventata il vero e proprio mantra di questa decade. Coinvolgimento attivo del pubblico, inclusione delle fasce sociali “deboli” per età o posizionamento, pratiche di co-creazione: non c’è bando nel quale non si faccia cenno ad almeno uno di questi aspetti. In occasione del primo dialogo, i partecipanti sono stati invitati a ragionare sulle questioni ancora aperte e sui nodi problematici. In particolare: quali effetti hanno avuto sulle estetiche oltre dieci anni di politiche sulla partecipazione? Come si declinano simili pratiche in un ambito, come il teatro ragazzi, costitutivamente orientato al coinvolgimento attivo del pubblico? Quali sono le questioni calde dal punto di vista educativo?

Il
primo passaggio da fare, secondo la maggioranza dei partecipanti, è
non ragionare in termini di semplice intrattenimento: la
partecipazione va vista piuttosto come un vero e proprio “learning
process” che può risultare faticoso e non per forza piacevole.
Ogni proposta deve dunque cercare di tenere in equilibrio le due
polarità necessarie in un processo di apprendimento: libertà e
coercizione. Lavorare sulla partecipazione – viene sottolineato da
più parti – non deve essere il pretesto per arretrare sul fronte
estetico o educativo. Il proliferare di drammaturgie aperte con
finali “on demand”, dove è lo spettatore a decidere l’esito
della storia, è un esempio di come si rischi di produrre
semplificazione: il teatro non deve rinunciare a proporre poetiche,
mondi, immaginari, delegandoli in toto allo spettatore.
L’attivazione diretta del giovane pubblico deve essere anzi una
ricerca di complessità; una strada per scardinare gli automatismi
del pensiero dato, per recuperare le potenzialità del pensiero
critico e per educare all’autonomia.

In
termini di progettazione, lavorare sulla partecipazione significa
prevedere un impegno dell’operatore a lungo raggio, che parte
dall’ideazione e arriva fino alla misurazione dei risultati: un
ruolo di tessitura che raramente viene riconosciuto in termini
economici, perché si tende troppo spesso a guardare solo al “qui e
ora” dell’incontro con il pubblico. La possibilità di
concentrarsi invece sul “prima e dopo” dei processi di
partecipazione – concedendosi spazi di deposito dei progetti e di
riflessione – potrebbe fare la differenza, soprattutto in termini
di valutazione dell’impatto: quali azioni si sono rivelate più
incisive? È possibile individuare modelli e buone pratiche
replicabili? Quali sono gli indicatori di un esperimento
partecipativo particolarmente riuscito?

I processi di attivazione del pubblico nel teatro ragazzi hanno poi specifiche difficoltà; non ultima la necessità di rivolgersi anche a un mediatore (insegnante, genitore, educatore), e di dover quindi prevedere un ulteriore ‘target’ per le proprie pratiche. Molte, dall’altro lato, le potenzialità ancora inesplorate. Lavorare con le giovani generazioni permette di avere un osservatorio privilegiato sulle tendenze e i cambiamenti in corso e consente, se si è disposti a mettersi in autentico ascolto, di lavorare con enorme libertà. Per questo motivo il teatro ragazzi potrebbe costituire, forse più di quanto sia stato indagato fin ora, uno straordinario laboratorio di sperimentazione sulle pratiche della partecipazione. Mettere alla prova formule funzionali ma già trite, rinnovare i linguaggi, scoprire nuove possibilità di co-creazione, anche nel rapporto con le nuove tecnologie: gli spazi di lavoro con le giovani generazioni potrebbero trasformarsi in un’area di vera e propria avanguardia progettuale.

Maddalena Giovannelli




Essere se stessi, o la rivincita della ferinità

Cosa si cerca in uno spettacolo teatrale rivolto alle nuove generazioni? Quando un adulto porta un bambino a teatro (perché il bambino è portato e non può scegliere di recarvisi da solo come lo psicologo e studioso Giorgio Testa specifica) in base a cosa sceglie quale rappresentazione vedere? Deve essere un titolo classico (una fiaba appartenente al repertorio per l’infanzia…), affrontare un tema caldo per la società odierna (il bullismo o l’utilizzo delle nuove tecnologie…), trattare concetti utili alla crescita personale del bambino (altruismo, comprensione, rispetto…), fargli capire quale sia il suo ruolo nel mondo? Spesso gli adulti chiedono allo spettacolo teatrale una predisposizione alla pedagogia, dove per quest’ultima si intende “la disciplina che studia i problemi relativi all’educazione e alla formazione dell’uomo, avvalendosi dell’apporto di numerose altre scienze allo scopo di indicare i principi, i metodi, i sistemi su cui modellare la concreta prassi educativa” (fonte Treccani). Il teatro diventa quindi un viatico attraverso cui fornire al bambino alcuni strumenti utili che come una bussola possano guidarlo a districarsi nel mondo, lo rendano capace di relazionarsi con le altre persone, di sviluppare un comportamento di rispetto verso se stesso e verso gli altri. Ma non è solo questo – che potrebbe far apparire il teatro come una sorta di semplice stampella in soccorso all’educazione (e forse sembrare didascalico – e in proposito rimandiamo a una piccola inchiesta. Il teatro tocca la sfera emotiva, offrendo allo spettatore (bambino, ma anche adulto) molto di più che questioni su cui apprendere lezioni e interrogarsi, perché lo si vive sulla propria pelle e diventa un dispositivo potente, diretto: passa attraverso un linguaggio prorompente, è un corpo a corpo che arriva prima della stessa parola, si serve di immagini evocative che aprono a un’alterità o ad altri mondi possibili, forse più gentili, in cui la bellezza è un valore aggiunto da rispettare, da invocare.

Al festival Maggio all’Infanzia abbiamo assistito a diversi spettacoli che suggerivano ai più piccoli con quale spirito affacciarsi alla vita. Se da una parte il tema del coraggio e della paura sono stati ampiamente indagati dall’altra parte abbiamo notato come molte compagnie abbiano esplorato il bisogno di spingere i bambini a essere se stessi. Ne Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo, spettacolo indicato dai 4 agli 8 anni, i simpatici pupazzi creati da Lucrezia Tritone, animati da Anna Chiara Castellano Visaggi e Giacomo Dimase, diretti a loro volta da Marianna Di Muro – affrontano in maniera semplice ed efficace, il tema dell’amore. Come tutti i bambini che si rispettino anche il piccolo Bruno pone infinite domande a tutti quelli che lo circondano, i genitori, gli amici e i maialini suoi compagni, per capire come poter essere accettato dagli altri. Utilizza una narrazione lineare – senza troppe sorprese – facendo leva su personaggi leggeri e divertenti che catturano i bambini in sala che ridono, partecipano a accettano alla fine Bruno – come i suoi amici  e soprattutto la sua nuova fidanzatina – nonostante la sua avversione all’acqua e al sapone. Non c’è dentifricio, capelli in ordine né vestiti puliti che tengano se questi piegano e trasformano la personalità: in fondo, sembra suggerirci lo spettacolo, chi ti ama lo fa per ciò che sei e non per ciò che vorresti sembrare. Insomma il messaggio finale di essere se stessi fino in fondo paga sempre, ci dice Bruno che Zozzo era e Zozzo rimane tra i gridolini entusiasti dei bambini che comprendono come l’essere amati vada al di là di ogni apparenza possibile, (nella speranza che non boicottino l’uso della saponetta per emulare il loro nuovo amico pupazzo).

Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo

Si confronta invece con una drammaturgia grottesca Emanuele Aldrovandi che compone Scarpette rosse per BIBOTeatro, con la rigorosa e pulita regia di Andrea Chiodi e le due brave ed esplosive attrici Alessia Candido e Miriam Costamagna. Le due scarpette rievocano la storia che le ha portate a far liberare, in una ragazzina che le aveva indossate, una energia irrefrenabile e incontrollabile senza però considerare le conseguenze negative che questa avrebbe portato alla bambina stessa (costretta a perdere i suoi piedi) e alla persona a lei più vicina (che dopo averla accudita si ritrova a morire in solitudine). E allora qui, in uno spettacolo proposto dai 9 anni, Aldrovandi spinge verso risultati estremi l’essere se stessi a tutti i costi, senza reprimere in alcuna misura le proprie pulsioni. La scrittura del drammaturgo emiliano è, come ci ha abituato anche nei suoi lavori “per adulti”, una scrittura insistente e insistita, qua e là scattante e nervosa, che cade “a goccia” sul palco scavando lo spazio e assumendo come motore interno le contraddizioni della volontà. Repressione contro pulsione, responsabilità contro libertà, riverenza contro autodeterminazione. La bambina, che a livello logico-narrativo è la protagonista della storia, viene ridotta a un pupazzo gigante inanimato mentre le scarpette rosse, i due oggetti, sono impersonate da attrici in carne e ossa. È una sorta di “feticismo scenico”, che giustamente simboleggia un certo incancrenirsi della capacità di giudizio e scelta, la cristallizzazione del percorso di crescita su un solo e unico atto, la danza sfrenata, che piano piano diventa esasperazione, rito macabro, destino tragico.

Perché – sembrano dirci alcuni degli spettacoli di Maggio all’Infanzia – la “scoperta di se stessi” non è certo un pranzo di gala. Si tratta di un processo che libera energie dionisiache, potenzialmente pericolose e disgreganti. Occorre andare sempre contro qualcuno o qualcosa, siano le norme dell’apparenza (Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo) o le rigidità della morale comune (Scarpette rosse). Essere se stessi significa lottare?
I musicanti di Brema del Teatro delle Apparizioni dà a queste suggestioni precisi connotati politici. La storia della sgangherata “combriccola animale”, protagonista della fiaba dei fratelli Andersen, è affidata in scena al duo Bartolini/Baronio, che si incarica di arricchire la narrazione di voci, rumori, versi e loop chitarristici. C’è infatti la sovrapposizione fra racconto orale recitato e forma-concerto, per cui le vicenda e le gesta dei “musicanti” si intrecciano con canzoni live ed effetti sonori. In generale, perlomeno nei momenti più riusciti dello spettacolo, sono proprio due diverse sintassi a fondersi insieme: nel momento in cui gli animali fanno irruzione nella casa dei briganti, una delle scene-madre della fiaba, ecco che viene rotta anche la scenografia in un tripudio di luci e fumo sparato sul palco, come nel più classico “culmine” da concerto-rock. E a partire è la più classica delle canzoni di dissacrazione e ribellione nichiliste: Anarchy in the UK dei Sex Pistols. I padroni della fiaba, dai quali le bestie scappano, diventano allora i “padroni” contro cui si dirige la lotta di classe (verso la fine dello spettacolo vengono proiettate immagini che rimandano alle fabbriche e al mondo del lavoro odierno). Così il viaggio dei musicanti di Brema diventa un gesto politico, un romanzo on the road di stampo se non sessantottino perlomeno che affonda le radici nell’atmosfera beat (Che colpa abbiamo noi?, La mia banda suona il rock sono alcuni dei titoli suonati durante la messa in scena). Qualcosa che, per l’animalizzazione allegorica di vicende Politiche (con la P maiuscola), a tratti potrebbe ricordare due illustri precedenti: il classico La fattoria degli animali di Orwell e l’oramai altrettanto celebre Maus di Art Spiegelman.

Scarpette rosse

Essere se stessi non significa dunque guardarsi dentro, ma costruire delle alterità, proiettarsi verso un altrove utopico ma possibile. Anche se sembra paradossale, la “solitudine” (leggi: individualismo) è d’ostacolo, non d’aiuto, all’introspezione e alla scoperta di sé. Il filo concettuale di questi tre spettacoli pare dirci infatti che solo nell’incontro con l’altro, o meglio nella radicale spinta a volerlo “abbracciare” e comprendere, risiede il principio dell’essere se stessi.
Eppure, di quale Altro stiamo parlando? E in che modo esso viene evocato sul palco? Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo, Scarpette rosse e I musicanti di Brema sono proposte per certi versi antitetiche. La prima concepisce il diverso da sé come semplice relazione affettiva e interpersonale, facendo leva su una totale trasparenza e perfetta intelligibilità dell’approccio drammaturgico; le altre due rimandano invece a una dimensione oscura e inafferrabile dell’animo umano, che per Aldrovandi diventa un’energia irrefrenabile e scomposta con cui far “esplodere” gli elementi scenici in un processo parossistico, mentre per il Teatro delle Apparizioni è quasi la negazione dell’umano, nemmeno l’animalità ma una ferinità caotica e istintuale, che trova il proprio corrispettivo formale nella confusione di livelli e piani narrativo-scenografici (concerto rock, racconto, recitazione onomatopeica, etc.).
In generale, si intravede il rischio che procedimenti siffatti non riescano a reggersi da soli. Se, come accennavamo all’inizio, per pedagogia si intende appunto “bussola”, capacità di fornire al bambino strumenti per orientarsi, sembrerebbe che nel caso degli spettacoli di Marianna Di Muro, ma soprattutto di BIBOteatro e Fabrizio Pallara una tale istanza “educativa” non sia presente in scena ma venga rimandata a un momento del tutto “extra-teatrale”. Si evoca la sporcizia e il caos, si fanno riferimenti a immaginari politici abbastanza precisi e precisamente “schierati” che difficilmente risuoneranno nella mente di un bambino, lasciando però che tali elementi diventino preponderanti e non si risolvano nell’andamento generale del racconto. O, se lo fanno (come magari nel caso de Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo), restano comunque parzialmente ambigui rispetto al “valore” che noi spettatori dovremmo attribuirgli. Dicevamo che lo spettacolo mostra come l’amore vada al di là di ogni apparenza. Vero, ma ciò non toglie che Bruno sia rispetto alle convenzioni sociali un “diverso”, volendo anche un filo emarginato per via di questa sua diversità (che è, nella levità del racconto, la semplice abitudine di non lavarsi). Che farsene di questa abitudine, una volta che si è riscattati dall’amore e si viene accettati? Ribadire la propria diversità con orgoglio in quanto scelta oppure proclamarne l’insignificanza rispetto ad altre caratteristiche che ci accomunano? Similmente, pensando a Scarpette rosse, come consideriamo il coraggio della ribellione nel momento in cui ci viene mostrato che questo coraggio viene punito dall’autorità o dal “destino”?
Ma, d’altronde, dicevamo anche che un bambino viene portato a teatro, ed è forse giusto che uno spettacolo si assuma il rischio di rimanere aperto, di sottrarsi a una comprensione immediata demandando appunto ai vari “attori della mediazione” (scuola, genitori, operatori…) il compito di riempire dubbi e vuoti con ulteriori domande. Ricordandoci che non sempre trionfa il bene e che esistono situazioni in cui l’umano ha bisogno di soccombere alla “rivincita della ferinità” per rigenerarsi (e, pensando allo strano connubio di fiaba, animali e musica a tutto volume che è I musicanti di Brema, non è appunto il rock una delle massime e più scandalose rivincite della ferinità della storia?).
Ricordandoci che, infine, dobbiamo a volte guardare con sospetto al sentirci troppo “soddisfatti” e rasserenati a teatro. Per citare Walter Siti (e rimandando a un concetto di cui abbiamo parlato estesamente), «se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensione dell’eros contro il grigio della rinuncia?»

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Il dovere dell’artista al coraggio e la paura di noi spettatori

Il teatro Kismet e il teatro Abeliano si trovano ai poli opposti della direttrice nord/sud di Bari. Li collega una tortuosa traiettoria che passa per il centro cittadino, oppure una strada statale che – nei nostri spostamenti da uno spettacolo all’altro – vediamo spesso fitta di ingorghi e di traffico. Il compito di questi teatri è proprio anche quello di ricucire certe lontananze, di installarsi nella periferia per dare vita a una “particolarità urbana” che non diventi emarginazione sociale. Ed è appunto sul filo di tali questioni che il festival Maggio all’infanzia ragiona e sviluppa le proprie azioni da oltre vent’anni. Lo fa assumendo l’infanzia come una prospettiva possibile, sul presente, certo, ma inevitabilmente anche sul futuro. Lo fa riempiendo la direttrice nord/sud di una nutrita comunità di operatori, insegnanti, artisti, bambini e famiglie, semplici spettatori (ma può uno spettatore essere veramente semplice o  semplicemente disinteressato?) che per quattro giorni si muovono, osservano, si incuriosiscono.

Fra il Kismet e l’Abeliano ci sono quasi sei chilometri. Fra il palco e la prima fila di spettatori c’è circa un metro di separazione. Anzi, ancora meno per Concerto fragile di Casa degli Alfieri – Universi sensibili (per la regia di Antonio Catalano), una delle proposte che apre la giornata inaugurale del festival. I bambini sono infatti a strettissimo contatto con le attrici, a dividerli praticamente solo un fascio di luce. Sul palco, una sorta di laboratorio o addirittura di “cucina sonora” fatta di piccoli oggetti, contenitori, bizzarri strumenti ma soprattutto di un fondoscena dal chiaro sapore artigianale e casalingo, dietro il quale i protagonisti a volte si rintanano per meglio rimarcare i gesti e le espressioni. Quello di Sara Bevilacqua e Alessandra Manti è un invito a scomporre e ricomporre in continuazione il suono e la sua esemplificazione grafica. Non a caso all’inizio ci viene chiesto di immaginare il “rumore di occhi” e vediamo degli occhi finti che le attrici “indossano” mentre riproducono il suono di una tale operazione. Poi, metaforicamente, ci caviamo pure noi gli occhi ed è la volta del rumore dei pesci, delle stelle, del tempo che passa e così via, in un piccolo crescendo di premesse astratte che si traducono però in un approccio che resta sempre fortemente figurativo.
«A teatro si fa silenzio» dice una maschera del Kismet prima dell’inizio dello spettacolo. Eppure, poco dopo la sala viene riempita di stimoli uditivi. Eppure, la compagnia durante lo spettacolo cerca ripetutamente la “rumorosa partecipazione” dei bambini, spingendoli a battere le mani, a cantare con loro, ad ammiccare ai propri gesti. Un anno fa – proprio commentando il festival di Maggio all’infanzia – parlavamo sulla scorta di Korczak del “diritto del bambino al rispetto”. Ora, ci pare che questo principio possa trovare il proprio contrappeso speculare nel “dovere dell’artista al coraggio”. In quel metro scarso fra la prima fila e il palco, c’è un abisso: l’abisso di una radicale distanza, di cui il teatro sembrerebbe non poter fare a meno per accadere. Si tratta ovviamente di una distanza che può essere messa in discussione, sfumata o annullata, ma che dovrebbe essere presupposta affinché vi sia innanzitutto una relazione, fra chi da una parte si assume il rischio di presentarsi in quanto alterità e chi dall’altra è così chiamato a un ascolto nel senso più profondo del termine. Sono, in fondo, le basilari condizioni per instaurare un qualsivoglia rapporto pedagogico.
Nell’approccio di Casa degli Alfieri – Universi sensibili parrebbe esserci invece una certa paura a instaurare questa distanza, la tendenza a confondere i piani per timore di non suscitare l’interesse del bambino. Si porta una ragazzina del pubblico sul palco, senza poi lasciarle alcuna autonomia. Ci si esprime a volte a versi e mugugni, quando la situazione sembrerebbe invece reclamare il semplice uso delle parole. È un peccato, dal momento che l’impianto dello spettacolo, seppur esile (fragile come appunto esemplificato dal titolo), possiede una carica evocativa che guarda agli elementi, a una felice e rarefatta “intrusione” dei misteri del cosmo dentro oggetti di carattere domestico. Ma quello che ne riceviamo infine è uno smussato incanto verso le “cose primarie” e non, ben più potente e viscerale, un incanto primario verso le cose, verso il teatro.

Concerto Fragile

L’artista che si relazioni con un pubblico bambino ha davanti a sé una spietata sincerità e uno sguardo in attesa, sospeso, curioso di ciò che dovrà accadere dopo il buio in sala e nello stesso tempo pronto a vagare alla ricerca di altri stimoli più accattivanti. Tutto questo, insieme al dovere al rispetto del proprio interlocutore e al dovere al coraggio della messinscena, rende arduo il compito dell’artista e pregno di responsabilità, ma, riprendendo le parole di Chiara Guidi in un’intervista per il festival di Castelfiorentino di quest’anno, «non bisogna aver paura delle nostre paure» di fronte ai bambini. Relazionarsi con questo tipo di pubblico, infatti, vuol dire innanzitutto essere capaci di superare ogni tipo di stereotipo che accompagna l’idea d’infanzia, come quello secondo il quale esisterebbero temi, considerati tabù, con i quali essa non debba venire a contatto. Parlare ai bambini di morte e di violenza, per esempio, sembra ancora difficile, sebbene essi ne vengano quotidianamente subissati attraverso i media, che però non lasciano il tempo dell’elaborazione, costringendo l’interlocutore a subire immagini e informazioni che finiscono per perdere il proprio stesso senso. È per questo, forse, che ascoltare una storia risulta sempre un’esperienza potente e impressionante, per i bambini come per gli adulti, proprio perché il tempo sospeso del racconto permette di soffermarsi sulle emozioni che provengono dall’ascolto. Moltissimo teatro ragazzi sceglie di mettere in scena le fiabe classiche; le fiabe però non nascono per i bambini, ma arrivano a loro dopo accurate rivisitazioni e addolcimenti, attraverso altre strade, e contengono spesso accadimenti tragici dove tutti quei temi considerati tabù, di cui prima si parlava, sono all’ordine del giorno. Quando un artista decide di mettere in scena una fiaba classica presentandola nei suoi tratti originali, superando la paura delle proprie paure e riconoscendo il valore formativo e iniziatico della fiaba, che nasce come faro per accompagnare la crescita, ecco che ci troviamo di fronte a un’opera di senso.

Pollicino, una fiaba che parla, tra le altre cose, di abbandono, di paura, di morte è stata la storia della quale Manuela Capece e Davide Doro della Compagnia Rodisio hanno curato la regia e la drammaturgia. I due attori, Simona Gambaro e Paolo Piano sono stati magistrali protagonisti di un racconto immersivo che comincia, come tutte le storie, con un fuoco centrale. Il pubblico non si ritrova a essere solo spettatore, testimone di una storia che si svolge inesorabile sotto i propri occhi, ma è chiamato a una riflessione profonda e contraddittoria. Il dialogo iniziale dei genitori di Pollicino non lascia trapelare alcun giudizio rispetto al loro comportamento: erano poveri, non potevano sfamare i propri figli e li hanno abbandonati. All’inizio dello spettacolo I due attori si rivolgono al pubblico dimostrando continui sbalzi d’umore: passano dalla gioia al senso di colpa, alla disperazione, dei lampi emotivi che ci investono con una luce violenta e sorridiamo e ridiamo e ripiombiamo nella pena. Genitori che abbandonano i propri figli al loro destino, soli, nel buio del bosco, con la propria paura. Come soli e al buio siamo noi spettatori: la musica esce dalle casse fortissima, stordisce e qualche bambino cerca rassicurazione tra le braccia dei genitori o chiede conferma rispetto alla finzione di ciò che sta vedendo. L’orchessa, invece, quasi in un ribaltamento delle certezze emotive, è una madre premurosa che non può fare a meno di accoglierti, fa scaldare i sette fratelli, o meglio, ci fa scaldare, perché è a noi che si rivolge. Ci fa mangiare bene e ci manda a letto, sfidando la folle crudeltà del marito, l’Orco. Un orco ricoperto di pelliccia che potrebbe essere chiunque e qualsiasi cosa, potrebbe racchiudere tutte le nostre più intime paure, l’uomo nero, senza volto, il volto lo conosciamo solo noi. Il passo è lento, pesante ed è sempre più vicino. Aspettiamo il momento in cui deciderà di sfondare la quarta parete e questo accade nel momento peggiore, quando brandisce un coltellaccio tra le mani e grugnendo salta da una sedia all’altra della platea, illuminato a tratti da una luce stroboscopica, e sembra essere dovunque. La sala piomba nel terrore. È troppo? Noi sappiamo solo di aver fatto un percorso, di essere stati tanti piccoli Pollicino e il nostro coraggio è stato premiato. A differenza dei media, che non permettono di metabolizzare le immagini, di porsi domande su ciò che stiamo guardando, il teatro ha il potere di farci ancora più paura, ma di stimolare domande, di entrare in contatto con la nostra intimità. I due attori, alla fine, si complimentano con noi per il nostro coraggio, siamo stati bravi. Ci accompagnano sulla soglia della storia, siamo usciti e ce l’abbiamo fatta, rallenta a poco a poco la tensione e festeggiamo con loro, più forti, più grandi, sotto una pioggia dorata.

Locandina di Cappuccetto Rosso

Con lo stesso senso del rispetto e del coraggio la fiaba di Cappuccetto Rosso viene affrontata dal regista Michelangelo Campanale (coadiuvato dalle coreografie di Vito Cassano), che già in alcuni dei suoi precedenti lavori ha dimostrato quanto per lui sia importante rispettare la verità della fiaba: conoscere la verità e saperla affrontare è l’unico modo per crescere. Un lupo, una bambina, il rosso e il nero, una rosa e un gruppo di danzatori-acrobati. La messinscena di Campanale è un vero e proprio show che coinvolge e rapisce, ma dietro le luci, la musica, le danze frenetiche, si consuma una delle più ambigue delle fiabe: un lupo inganna una bambina e la divora. È un lupo antropomorfizzato quello di Campanale, un uomo elegante che sa danzare con leggerezza, ma che alla vista della bambina non sa reprimere i propri istinti animaleschi. Si rivolge anche a un pubblico di bambini che nonostante lo abbia visto braccato da un gruppo di cacciatori e ripetutamente colpito, ma mai mortalmente, non è dalla sua parte. Lo riconoscono come il lupo cattivo delle fiabe al quale spetta, alla fine, una meritata morte affinché il bene trionfi. È proprio a questo punto che il lupo ricorda ai bambini che ucciderlo è inutile, la paura è inarrestabile e non morirebbe insieme a lui. I momenti di divertimento e di eccitata allegria sono tanti e fanno da contrappeso a una storia della quale cogliamo la verità dolorosa nei momenti di delicatezza e rallentamento. Cappuccetto Rosso attraversa il bosco, a passi lenti, raccogliendo I fiori che il lupo ha messo lì per lei, una trappola, per condurla sulla soglia di una casa a lei nota ma che non avrà nulla di famigliare. Attraverso l’espediente del ralenty viviamo uno dei momenti più intensi dello spettacolo: un uscio che si apre e poi si richiude contiene tutta la disperazione di un evento. Cappuccetto Rosso è afferrata per le trecce e dopo non sappiamo più nulla di lei. In quel gesto violento è racchiuso tutto l’orrore di quell’esclamazione tanto attesa dai bambini, e ascoltata sempre con paura ed eccitazione: «è per mangiarti meglio!». Sebbene tutto avvenga con una lentezza inesorabile non possiamo far niente per lei, e quindi per noi, che siamo sempre coinvolti emotivamente. Non si può cambiare il destino della fiaba, è lui che opera in noi un mutamento, una crescita, ma solo se ci viene raccontata la verità. Campanale non adotta il finale di Perrault, ma il suo punto di vista è forse ancora più inquietante: la bambina si salva, ma il lupo non muore mai, è sempre in agguato. Questa volta Cappuccetto Rosso ce l’ha fatta, ma domani chissà …

Francesco Brusa, Nella Califano




Tanti linguaggi che parlano una sola lingua, quella del teatro

C’è una delle scene finali di Kill Bill, in cui il “cattivo” che dà titolo al film discetta della filosofia alla base dei fumetti sui supereroi. Uno in particolare sembra discostarsi da tutti gli altri: «Quando Superman si sveglia al mattino, è Superman. Il suo alter-ego è Clark Kent. […] Quello che Kent indossa, gli occhiali, il vestito da impiegato, è il suo costume. È il costume che Superman usa per adattarsi a noi. Clark Kent rappresenta il modo in cui Superman vede noi umani».
Superabile della compagnia Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, proposta del Festival Segnali tra l’altro vincitrice di un premio Eolo, sembra utilizzare un meccanismo simile, sembra mettere in atto un ribaltamento di sguardo che chiama subito in causa una certa idea di normalità e di “potere”, nel senso di capacità di agire nel quotidiano. I quattro personaggi dello spettacolo, di cui due in carrozzina, sono immersi proprio in un mondo da fumetto, in vere e proprie strisce disegnate (fatte scorrere su una lavagna che le proietta su di un grande schermo sul fondo del palco), scenario delle loro azioni. Con ironia lieve ma spesso anche caustica, ora rivolta verso se stessi ora verso chi non è portatore di una disabilità comunemente intesa, ci raccontano di gesti, sentimenti, difficoltà e frustrazioni che abitano la loro vita di tutti i giorni. E ci indicano il perché non è una vita “normale”: fintanto che la società ci spinge al restringimento di tempi e ritmi, a considerare il lavoro e le relazioni come delle performance, non ci sarà mai “luogo” per la diversità.
È significativo che il fumetto e il disegno, discipline che in maniera forse più immediata di altre rivelano il loro carattere di rappresentazione personale e fittizia, si facciano strumenti per ragionare di temi che paiono invece incarnarsi nelle fibre più concrete dell’individuo: libertà, coraggio, amore. E lo fanno appunto ponendosi in contrasto visivo e stilistico con i corpi vivi, in qualche modo teatralmente pesanti, degli attori. Skreek – a comic revolution, una produzione di Dascollectiv con la regia di Giovanni Jussi: un vertiginoso gioco di scatole cinesi, che rompe in continuazione tutte le quarte e le quinte pareti possibili. Ad accoglierci in sala è infatti un video che mostra delle riprese in tempo reale dell’esterno del teatro. Poi vediamo la protagonista in carne e ossa entrare dalla porta laterale e dirigersi verso il bordo del palco, dove è apprestata una “sala di comando” fatta di cavi, mixer e microfoni. Da lì lei, la “Creatrice”, si mette in comunicazione con Jean Luke, materializzatosi sullo schermo in un altrove in bianco e nero che ha tutte le fattezze di un comunissimo appartamento, trasfigurato però da linee e oggetti disegnati a mano, ancora una volta vicini a un’estetica da graphic novel. Chi è Jean Luke? È un personaggio virtuale, pare frutto dell’immaginazione della Creatrice, un “supereroe andato in pensione”, un ragazzo che vuole salvare il mondo, ma non sa come farlo. Tantomeno sa bene cosa sia il “mondo”, visto che è confinato fra le quattro mura dell’appartamento, immagine nata dalla mente di colei che lo ha creato. Eppure da lì vuole scappare, reclama la propria libertà. A un certo punto, per compiacerlo, la Creatrice chiama un volontario dal pubblico, che dovrebbe andare a far compagnia a Jean Luke. Si alza Davide, un ragazzino che viene condotto dietro le quinte e infine risucchiato nello schermo, dentro l’appartamento del supereroe il quale, dopo aver brevemente tentato di fare conoscenza, lo prende in ostaggio e si “compra” così la propria fuga dal mondo virtuale: mentre un video finalmente a colori ci mostra Jean Luke uscire dal teatro per le strade di Milano, Davide rimane invece imprigionato nel monocromatico appartamento, in un loop drammaturgico che segna la fine dello spettacolo.
«La felicità consiste nella libertà, e la libertà nel coraggio» recita il libretto di scena di Skreek di Dascollectiv, riprendendo Pericle. Eppure, la chiusura ambigua e amara delle vicende sembra suggerirci che la nostra libertà è quasi sempre a spese di qualcun altro.

Frankie

C’è, in questa ambiguità e amarezza, un ribaltamento anche formale. Fumetto, disegno e illustrazione, che a prima vista potrebbero essere considerati come un “porto sicuro” dell’evasione e della fantasia, si fanno invece segno di una certa componente oscura, quasi distopica. Invece di lanciarci verso nuovi universi e avventure, paiono costringere e racchiudere in microcosmi asfittici. Tale è la gabbia domestica in cui è confinato Jean Luke. Similmente, la quotidianità dei protagonisti di Superabile di Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt assume dei tratti claustrofobici, rivela dei confini difficili da forzare. L’essenzialità del disegno, in particolare se in bianco e nero e “a pennarellone” come succede in buona parte di questi spettacoli, assume quindi una funzione per così dire “espressionistica”. Tesa cioè a espungere dalla realtà le sfumature, per rimarcarne al contrario gli elementi più perturbanti e stridenti. Ma tesa soprattutto, come accennavamo in precedenza, a reclamare per la presenza dei corpi attoriali in scena uno statuto di verità che in qualche modo si sporga oltre il teatro, si affacci con il busto e il volto fuori dalla scena, pure restandovi dentro con i piedi ben ancorati. «Siete sicuri di essere reali?» ci chiede la protagonista di Skreek, mentre i due personaggi in sedia a rotelle di Superabile si guardano l’un l’altro e si domandano: «Che cosa vedi?» «Due occhi, un naso con un neo, un volto…».
Le componenti smaccatamente rappresentative e finzionali esprimono il punto di vista e i sentimenti dei personaggi, oggettivizzandoli nel fumetto, mentre i loro corpi e i pensieri che da quei corpi provengono procedono più vicini a noi, per una sorta di “sbalzo percettivo”. Ecco dunque che l’utilizzo di linguaggi altri, la messa in campo dei nuovi media sulla scena, serve in fondo a ribadire il più antico dei linguaggi teatrali: la compresenza di attore e spettatore, impegnati quasi in egual misura in un comune processo di partecipazione emotiva. Con il dubbio, però, che i ruoli siano saltati, perché gli attori sul palco diventano praticamente spettatori di se stessi, dei propri flussi mentali che scorrono sullo schermo. E noi in poltrona ci sentiremmo chiamati a intervenire, visto che, lasciati così come sono, gli sviluppi di Superabile e Skreek così come quelli di Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto sembrano faticare a procedere, ingolfarsi, entrare in strani loop…  Perché è il nostro punto di vista sulla diversità, sul potere, sul coraggio a dover cambiare, per dare alle storie un altro esito. Potremmo essere dei potenziali deus ex-machina, e restiamo inchiodati al nostro posto. Ma, via via che gli spettacoli ci pongono di fronte alle nostre responsabilità, è un posto sempre più scomodo.
Il pubblico è testimone quindi e, per essere testimoni, è necessario rendersi consapevoli, come scriveva Ubersfeld, della dinamica di “denegazione”. Senza rinnegare la realtà che avviene sul palco, il pubblico deve accettarla come altra, accogliendone la profonda veridicità e la responsabilità etica ad essa connessa: lo spettatore deve poter andare fino in fondo, non essere mai estraneo, nonostante il gioco finzionale e la distanza rispetto a ciò che vede sul palco.
Come per l’oscuro spettacolo Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto, che, attraverso un’estetica da primo cinema muto, grazie anche a quello schermo velato, filtro della visione e concreta parete da superare, racconta una storia – su fondo nero – in cui il pubblico non può far altro che immergersi, ma prendendo una posizione. Non si esce dallo spettacolo senza un’opinione. Il racconto senza parole di un figlio, marionetta creata da Mariella Carbone, abbandonato sempre più a se stesso a causa degli impegni dei genitori, è tutto contemporaneo. Le movenze ripetute, alienanti, da pupazzo di legno appartengono però più ai vivi che alla marionetta stessa. Sarà un disegno a riconsegnare al figlio la possibilità di sognare un mondo altro, reso vivo da un essere immaginato e immaginario, quel mostruoso Frankie alla Mary Shelley che si rivela l’unica opportunità di fuga da una realtà buia, ripetitiva e claustrofobica. Un finale aperto, il ritrovarsi della famiglia oltre la cortina del velo, al confine con la platea, che lascia spazio a interpretazioni anche opposte, nasconde in sé la responsabilità dello spettatore.
Il teatro, con il mistero e il celato che gli concedono vita e sostanza, può risalire al suo essere evento in dialogo con la natura umana più profonda proprio grazie all’unione di differenti linguaggi. Non un’unione sintetica o pacificata, ma, seguendo Artaud nel suo Sul teatro libanese, una sorta di fusione che metta l’accento sull’interferenza tra segni significativi ed espressivi diversi. Che si tratti di fumetti, tecnologie all’avanguardia, immaginario cinematografico, nella programmazione della XXIX edizione di Segnali gli spettacoli che uniscono forme espressive diverse in scena lo fanno per metterle in contrasto con il dispositivo teatrale, giocando sull’interferenza e non sulla sintesi di linguaggi, rimarcandone la mancanza di identità.

Francesco Brusa, Camilla Fava




Fra gli schermi di una comunicazione (im)possibile

Sembra offrire risposte più che stimolare domande Lorella Zanardo, con il suo Schermi. Se li conosci non li eviti. Una conferenza-spettacolo che si inserisce in modo anomalo nella programmazione del festival, proprio per la sua matrice didattica che pare allontanarsi da qualsiasi interrogazione sulle forme della rappresentazione e sul ruolo dell’immaginazione.
Una proposta sui generis quindi per il contesto in cui si colloca, che non pretende probabilmente di essere valutata su un piano propriamente artistico, ma che offre interessanti spunti di riflessione sui linguaggi e sulle forme della comunicazione e dell’informazione tra adulto e adolescente. Dopo Il corpo delle donne, il documentario visto online da 15 milioni di persone e che ha portato la sua autrice nelle scuole di tutta Italia, questo nuovo lavoro porta invece la Zanardo nei teatri, sulla scena. La conferenza spettacolo parte proprio da lì, e del documentario ripropone frammenti e concetti. A essi aggiunge dati e video che spaziano dal cyberbullismo alle fake news, dalle pubblicità “buone” e “cattive” all’hatespeech, dagli stereotipi di genere al diritto di essere informati, dalla gestione dei dati personali che passano attraverso la rete a “termini e condizioni” nell’uso dei social network. Insomma, afferma Lorella Zanardo rivolgendosi ai ragazzi, ma allo stesso tempo a genitori e insegnanti, così come a cinque anni si impara a leggere e scrivere, ora è tempo di alfabetizzarsi ai media: sapere guardare immagini e schermi che ci circondano significa essere cittadini consapevoli. Sembra però dare un assaggio di troppi temi qui Zanardo, che ai pericoli della rete sovrappone la già indagata questione legata all’immagine femminile proposta dai manifesti pubblicitari o dalla televisione che ereditiamo dagli anni Novanta.
Nella sovrabbondanza di temi, la formula comunicativa “vincente” che viene qui sperimentata pare attingere a un linguaggio più televisivo che teatrale (basti pensare ai sottofondi sonori o alle ricostruzioni video) e tramite questo cercare l’empatia del pubblico.
Schermi sembra insomma usare strumenti opposti a quelli del teatro: non propone temi e criticità per astrazione ma li spiega fino all’eccesso, non lascia spazio ai ragazzi per trarre da soli le loro conclusioni ma afferma dati incontestabili. Voi potete cambiare il mondo, noi vi possiamo aiutare, dice. Ambisce a offrire, insomma, gli strumenti per una cittadinanza attiva prima ancora che di una consapevolezza critica che passi per il dubbio, la messa in discussione, la capacità di arrivare autonomamente a porsi delle domande. Una proposta importante per contenuti e mission, che si offre più come strumento didattico che come riflessione sulle forme del teatro: nel rapporto con i ragazzi, qual è la formula più efficace per mettersi in discussione e stimolare una consapevolezza critica?

Schermi

D’altronde, la parte di programmazione del festival dedicata agli adolescenti sembra mettere al centro proprio il rapporto con i ragazzi, nelle forme della comunicazione e nel tentativo di “rendere visibili” determinati temi. Così anche Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst con la brillante e caustica drammaturgia di Donatella Diamanti, che pur si presenta inequivocabilmente come spettacolo e il cui patto finzionale è dunque chiaro e fin da subito determinato, potrebbe in alcune su parti sollevare dubbi sulla natura del dispositivo teatrale propriamente inteso.
Il palco è un ring, rosa e morbido come una moquette ma pur sempre un campo di battaglia. È in questo spazio, aperto ma sottilmente angusto e dai tratti domestici, che viene ritratta una famiglia composta da madre (Letizia Pardi) padre (Francesco Franzosi) e figlia adolescente (Greta Cassanelli). Con pennellate acute a tratti graffianti, l’autrice fotografa con ironia adulti e millenials alle prese con l’adolescenza. Partendo da alcune suggestioni presenti nel libro di Paul Buhre, che a soli 16 anni ha scritto Noi (e voi), un testo che è una lettera ai genitori sull’adolescenza, si cerca di indagare nell’abisso di una persona adulta messa di fronte a qualcosa che non capisce, qualcosa che non riconosce, linguisticamente e cognitivamente. Frastornati, o meglio smarriti, gli adulti che prima capivano i figli, adesso sono messi a dura prova, vacillano e annaspano alla ricerca di punti di riferimento, persi tra manuali che possano aiutare la loro genitorialità messa in crisi e il dialogo con esperti di ogni sorta, senza che gli venga in mente di rivolgersi ai diretti interessati, i figli o gli amici dei figli. In questo caso corre in aiuto Agata, un’adolescente che sul modello di SOS Tata si reca in famiglia per osservare modalità, argomentazioni e reazioni dei due genitori, facendo subito affiorare criticità e etichettandoli biecamente (con la giustificazione che “fa parte del programma”) esattamente come gli adulti etichettano i giovani figli (sdraiati, svogliati, sempre con le cuffie nelle orecchie, capaci solo di dire “un attimo”). E tra spettri di una “medicalizzazione” che è lì come orizzonte possibile se non concreto, risate, cartelloni che definiscono i comportamenti e freeze, Agata racconta di una generazione che si confronta con adulti in perenne attesa dei figli (che escano dal bagno, che tornino a casa da scuola, che escano da musica…) e, come si sa, dall’attesa alla pretesa il passo è breve e allora gli assi del controllo e della conseguente delusione paiono l’unico orizzonte di dialogo (o non dialogo) possibile.  Nonostante la leggerezza e i sorrisi la domanda arriva puntuale e a fuoco: quali sono gli strumenti in mano agli adulti per incontrare questa alterità?
Lezioni di Famiglia di Donatella Diamanti fotografa bene una generazione, quella dei millennials, e i rapporti con i genitori stretti tra vulnerabilità e autorità, smarrimento e disperazione, il tutto condito e attanagliato nelle maglie dei gruppi WhatsApp parentali dai quali pare impossibile sottrarsi. L’intento è chiaro e viene portato al pubblico con leggerezza, ironia e freschezza, che non guastano soprattutto quando invece i toni per parlare di adolescenza sono spesso sensazionalistici, allarmisti ai confini con il morboso-scandalistico. Tuttavia lo spettacolo, eccetto qualche passo, rimane piuttosto bidimensionale, quasi appiattito su una visione a 32 pollici, movimentato “solo” dalla bravura degli attori (in particolare la madre, interpretata da Letizia Pardi, è credibile ed efficace senza scadere del macchiettistico). Manca quasi del tutto l’impianto della scena, il corpo e i movimenti degli attori, le atmosfere cangianti delle luci, ovvero quella capacità trasformativa che conduce lo spettatore in un altrove, capace di convocarlo al di fuori delle proprie aspettative, abitudini, schemi mentali. Qualcosa cioè che possa spostarci, disorientarci da noi stessi, in una parola che ci arricchisca, che ci possa porre domande fino a snervarci, un qualcosa cioè che renda l’esperienza del teatro unica e diversa da tutte le altre. Qualcosa che non avremmo potuto leggere così sul giornale, che non avremmo potuto vedere al cinema, che non avremmo potuto apprendere leggendo un libro.

Insomma, sia Schermi di Lorella Zanardo che Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst sembrano rinchiudersi nelle strettoie di una comunicazione a senso unico, abdicando a utilizzare pienamente le potenzialità della scena in favore della volontà di far “passare un messaggio” o fotografare la criticità di dialogo intergenerazionale. Ma dove, esattamente, gli spettacoli avrebbero potuto spingersi, determinando caratteristiche di alterità rispetto all’esperienza quotidiana o rispetto ai format da fiction televisiva? Si ha come l’impressione di qualcosa che resta in ombra, che non viene affrontato del tutto. Ai “personaggi” – siano il padre e la madre di Lezioni di famiglia o la miriade di dati e problematiche sciorinata in Schermi –  manca un po’ di spessore chiaroscurale, ci vengono presentati in maniera in fin dei conti pacificata. Eppure, è evidente che fra i due genitori scorrano non-detti, incomprensioni, reciproche estraneità. Così come è evidente che social e televisione, con cui si veicolano spesso concetti violenti o sessisti, non siano dei mezzi neutri. Ci si aspetterebbe dunque che i discorsi si allarghino anche ai contorni e ai contesti delle “tematiche” da cui prendono abbrivio, che il palco diventi un luogo in cui articolare anche una riflessione politica sulla famiglia come istituzione o per mettere in crisi le stesse logiche della comunicazione e della pubblicità.
Vero, sembra compito forse troppo arduo e radicale da chiedere a delle proposte sceniche per l’infanzia. Ma dove portarlo avanti, se non a teatro? e con chi, se non con una comunità di spettatori attenti e di generazioni diverse?

Agnese Doria, Francesca Serrazanetti




L’eterno ritorno, o dell’anziano e del bambino

Un’urgenza emerge dalla programmazione della XXIX edizione di Segnali: raccontare quel rapporto tra infanzia e anzianità che, oggi, viene spesso negato nella separazione di soggetti diversi inseriti in contenitori sociali stagni, ordinati, non permeabili.
Certo è che i nonni rimangono un punto di riferimento all’interno della famiglia, ma di che famiglia si parla in una società iper-individualista, nonché resistente alle contaminazioni generazionali? Identificare un valore nell’infanzia è acquisizione recente, mentre l’anzianità continua a perdere importanza sociale, facendosi simbolo semplicistico di decadenza e improduttività. È qui che si sente necessario un nuovo modo di intendere e vivere il dialogo intergenerazionale ed è di questo dialogo che spettacoli diversi, sia per pubblico che per linguaggi, parlano. Dal musicale Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco passando per il muto Ticina mani di corteccia di Il teatro nel Baule per approdare a due dei tre Pollicino presentati al Festival, la proposta internazionale di Pulgarcito di Teatro Paraìso e Pollicino di Eco di Fondo, il rapporto tra bambini e anziani acquisisce nuova linfa e si fa spunto per riflessioni extra-teatrali.
Un uroboro, quell’eterno ritorno delle cose, quel ciclo senza inizio né fine, in cui nascita e morte coincidono. Un ciclo in cui un figlio può trasformarsi in genitore di suo padre, in cui c’è chi continua a crescere e chi, al contrario, continua a rimpicciolire. Fino alla definitiva scomparsa.
Anziani e bambini non hanno in comune né passato né futuro, la loro relazione vive immersa in un breve attimo presente, come quella tra l’ormai microscopico Pollicino di Eco di Fondo, suo figlio boscaiolo e il nipote che continuerà a disegnarlo per poter vivere avventure insieme, anche se in un altrove inconoscibile, seppur possibile da immaginare.
Quella necessità del bambino di giocare, di evadere, di conoscere i perché delle cose, la richiesta di storie e racconti da ripetere, con piccole variazioni, in continuo, il profondo bisogno di sentirsi protetti e al contempo di mantenere inalterata una routine, uniti a egocentrismo e richieste di indipendenza, si specchiano nell’anziano, in un tempo dilatato che concede maggiore concretezza ai legami affettivi e agli oggetti del passato e del presente, come si rende palese in Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione De Falco. Oggetti e persone che non hanno nulla a che fare con l’economia o con la produttività, ma che acquisiscono senso in quanto dilatazione della propria presenza e, per gli anziani, anche preparazione al distacco, all’assenza.
Un’assenza che non può però essere totale, come spiega il vecchissimo Pollicino, alias Andrea Pinna, di Eco di Fondo perché, anche se l’uno diventerà talmente grande da non poter essere visto dall’altro, sempre più piccolo, un luogo in cui incontrarsi sarà sempre lì, oltre il palco, basta inventarlo.
Quel luogo non è necessariamente oltre la vita, sembra suggerire Pollicino, può trovarsi nelle nostre città, può essere uno spazio concreto che, come scrive Vanna Iori in Pedagogia dell’invecchiamento e identità di genere [ETS, 2012], permetta di ripensare l’orientamento esistenziale di senso nel diventare anziani senza così perderne i vantaggi. È nel vivere esperienze comuni e continuative tra età, immaginari, idee, vissuti diversi che si concretizza la possibilità di uno scambio e di una crescita reali; come quella nonna e quel bambino in fuga che si adattano reciprocamente l’uno all’altra, imparando lui fin da piccolo ad accettare ciò che è diverso, e lei a non lasciarsi invecchiare, ma a continuare a scegliere.
La diversità acquisisce concretezza estetica oltreché anagrafica in Ticina mani di corteccia (Il teatro nel baule), simile a un muto re Mida che, anziché vedere ogni cosa toccata trasformarsi in oro, la vede sparire, distruggersi, appassire. Qui la vecchiaia si scorge in un personaggio solo, ai margini della società, abbandonato a causa delle sue stravaganze, non unicamente nell’aspetto. Anche qui sarà grazie a un essere opposto a lei, e quindi nell’incontro, seppur difficile, doloroso, terribile nel senso sublime del termine, che Ticina troverà nuove energie per il suo viaggio. Un viaggio complesso, contraddittorio che, se si ha il coraggio di cambiare punto di vista, permetterà di scorgere l’amore nel continuo flusso della vita.
La relazione tra chi sta entrando nella vita e chi sta per abbandonarla è visibilmente asimmetrica, ma, al contempo, rende possibile scorgere, attraverso l’apprendimento reciproco, come per Ticina, Pollicino o quella nonna e quel bambino, la necessità di relazione, condivisione e confronto di ogni essere umano, mai sufficiente a se stesso, nonostante la nostra società cerchi di negarlo. Questa relazione sbilanciata si può così fare strumento per recuperare quel vincolo reciproco tra uomini che interrompe il “progetto immunitario” della modernità e dell’individualismo, seguendo Elena Pulcini e il suo L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale [Bollati Boringhieri, 2001]. Quell’urgenza sentita da molti artisti, registi e compagnie prende così la forma di una necessità: darsi il tempo di riscoprire nella vecchiaia, così come nella prima età, la capacità di vedere la profondità delle cose senza dare peso alla superficie, uno sguardo essenziale, capace di unire esistenze tanto diverse perché nella vita tutto è in movimento e non smette mai di scorrere.

Ticina mani di corteccia

E chissà che tali urgenze e necessità non acquisiscano poi una declinazione propriamente sensoriale, un ribaltamento di sguardo che non sia tanto mutare prospettive e punti di vista, quanto cercare di sfuggire alla visione stessa.  Gli attori di Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco sono completamente soli sul palco. Nessuna scenografia, se non la luce che comunque permane fissa praticamente per tutta la durata dello spettacolo. Nessun oggetto di scena, se non gli indumenti che caratterizzano con semplicità i protagonisti. La loro è una recitazione che si avvicina molto alla pantomima, quasi alla gestualità del vaudeville: il bambino finge spesso di suonare un pianoforte di cui sentiamo solo il suono, la “nonna” mette in moto e guida un’automobile invisibile, ci viene chiesto di immaginare in continuazione oggetti, incontri, situazioni… Un viaggio sghembo e stralunato, idealmente “notturno”, dentro a una città “x” che sembra assumere i tratti di una metropoli primo-novecentesca, poiché contiene già in sé (o meglio, “arriva a contenerla” attraverso l’innocenza dei due protagonisti) una precipua dimensione di sorpresa e spaesamento.  Una dimensione per cui il rombo dei motori diventa una promessa di velocità e progresso, per cui semafori e fili del telegrafo non sono semplice “arredamento urbano” ma si fanno simbolo anche di civilizzazione. E, in maniera in fondo analoga ai flaneur di quell’epoca, ad avvincerci nella “a-topia scenica” creata dalla Compagnia Arione non sono dunque immagini o visioni, bensì i suoni e i rumori perturbanti della città, a volte anche gli odori e i gusti (in un momento dello spettacolo i due discutono proprio di ciò che stanno mangiando assieme…).
Ecco allora come l’alleanza fra prima e terza età derivi innanzitutto da una sorta di “complicità sensoriale”. La ribellione, anzi forse una vera e propria guerra (come evocato in un’altra proposta del festival, La guerra dei bottoni di Tib Teatro) contro gli adulti è una guerra contro la dittatura della vista. Non è infatti  l’età adulta proprio quel periodo della vita in cui la visione, intesa come razionalità e distanza, assume una posizione prevalente rispetto agli altri sensi? E, un poco più a fondo, non è quell’età della vita in cui in primo luogo si fa marcata una rigida distinzione fra i sensi, da cui poi il primato della vista deriva? Nell’infanzia e nella vecchiaia, per motivi diversi, vige invece un regime di maggiore “confusione”, di scivolamento da un piano all’altro, in una condizione di indeterminatezza nell’interpretare gli stimoli che rende più facile poter traslare le esperienze, che crea una realtà maggiormente allusiva e associativa, più vicina al sogno se vogliamo.
È dunque inevitabile che il teatro-ragazzi, un teatro che prova a tradurre la “infantilità” in una poetica, faccia propri tali principi di decostruzione dello sguardo. Sciogliendo molto spesso la visione in ascolto, trasformando il palco in un parco (giochi), che richiama e attira soprattutto il tatto. Un processo che, se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe avere implicazioni profonde. In un’intervista su Doppiozero il direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe Peter Weibel fa notare come morale e regole di convivenza che ciascuna società prova a darsi siano inestricabilmente legate alla sensorialità. I dieci comandamenti sono dei precetti adatti a un mondo in cui il nostro prossimo lo è anzitutto in senso spaziale, è vicino. Al contrario, oggi, quel “progetto immunitario” cui accennavamo in precedenza ci spinge verso una “società della lontananza” in cui il vincolo morale si esercita spesso fra persone e corpi magari distanti migliaia di chilometri, dove le conseguenze di certi comportamenti non hanno più un’evidenza fisica, immediatamente percepibile. È chiaro che la vista, in particolar modo se mediata, telecomunicativa o spettatoriale, gioca un ruolo fondamentale in tutto questo.
Il teatro-ragazzi potrebbe essere allora un modo per mettere in discussione  tale lontananza, per ricondurre al centro del nostro agire quei sensi che appaiono disattivati dalla società odierna. La scena per l’infanzia come luogo per ripensare, attraverso l’alleanza di figure che sembrano agli antipodi (il bambino e l’anziano), una nuova “etica della prossimità”, che, anzi, potrebbe quasi essere un’efficace definizione del teatro stesso.

Oggi

Eppure, l’alleanza fra infanzia e vecchiaia è un’alleanza poetica e intrisa di dolcezza, ma comunque ambigua e non priva di chiaroscuri. Pulgarcito, della compagnia spagnola Teatro Paraìso, ricompone i pezzi della catena generazionale e, senza rinunciare alla tenera dimensione di sogno ed evasione propria delle fiabe, ci mette di fronte anche a un crudo senso della responsabilità. In fondo, la felicità di relazione fra bambini e nonni, la leggerezza di cui si compone il loro rapporto, accade perché viene in una certa misura sospeso il “dovere della responsabilità”. Ma cosa succede quando i figli sono costretti a diventare “genitori dei propri genitori”?
Tomas Fdez e Ramon Monje sono figlio (ormai adulto) e padre (ormai anziano). Sulla scena, vediamo il primo intento a preparare le valigie per il secondo, che scopriamo dover essere accompagnato alla casa di riposo il giorno seguente. Affetto da demenza senile, recalcitrante, il padre fa i “capricci” per non farsi mettere il pigiama proprio come un bambino, si nasconde del cibo nelle tasche e non ne vuole sapere di andare a letto. Dopo essersi arrabbiato, il figlio prova allora la tattica della dolcezza: «Papà, ti ricordi quando mi raccontavi della fiaba di Pollicino?» Da qui inizia un’ingegnosa e incalzante sovrapposizione fra realtà e surrealtà, fra verità e sogno, in cui i due protagonisti si fanno prendere dalla narrazione e diventano in tutto e per tutto i personaggi di Pollicino, utilizzando l’armadio come luogo per nascondersi, prendendo i calzini per orchette, perdendosi e rincorrendosi nei pochi metri quadri della stanza. Un’evasione e un invasamento che però paiono non influire sulle decisioni concrete: al termine di questa fuga dalla realtà, vediamo il figlio riuscire finalmente a mettere a letto il padre, che sembra comunque destinato ad andare in casa di riposo (nonostante il figlio gli lasci tenere in tasca un tozzo di pane, a suggerire una certa apertura). Ma quello che si è guadagnato è la consapevolezza dell’abbandono, la sensazione di una riappacificazione generazionale pur nell’amarezza delle contingenze.
È sorprendente come la rappresentazione di una disfunzione intellettiva, quella dell’anziano padre, diventi il gancio drammaturgico per aumentare e magnificare il personaggio. Ramon Monje impersona una figura dall’abilità motoria ridotta, dalle capacità mentali offuscate, eppure – attraverso l’immersione nell’infra-realismo della fiaba – passa ad essere un vecchio, un bambino, il padre che fu, Pollicino e l’Orco senza soluzione di continuità e senza dover mutare minimamente tono recitativo. Diventa, in tutto e per tutto, un Super-personaggio. Forse, proprio qui si trova la chiave per immaginare un dialogo intergenerazionale che non neghi il conflitto e l’estraneità, né debba sospendere la responsabilità per postulare un incontro. Pulgarcito del Teatro Paraìso ci suggerisce non tanto dei modi per comprendere chi è distante da noi anagraficamente, ma ci spinge a introiettare quelle dimensioni infantili o senili che le diverse età esprimono, senza dovere per questo cambiare la propria “metrica esistenziale”.
Ci chiama ad essere, sugli spalti o anche fuori dai teatri, indefessi e infaticabili Super-spettatori!

Francesco Brusa, Camilla Fava