La drammaturgia del corpo Un’inchiesta da Maggio all’infanzia

La corporeità è oggi uno dei temi più discussi nel dibattito pubblico e, allo stesso tempo, uno dei grandi rimossi della contemporaneità. Di certo, pare che il teatro non possa non affrontare la questione, costruendosi da sempre sul gesto e sul movimento, sulla mimica facciale e sulla presenza ed espressività dell’attore.

Molti degli spettacoli che abbiamo osservato alla ventunesima edizione di Maggio all’Infanzia ponevano proprio questo elemento al centro della loro pratica scenica, andando a comporre quella che per noi era una vera e propria “drammaturgia del corpo” dell’attore nello spazio. Abbiamo allora realizzato una breve inchiesta, chiedendo ad alcuni degli artisti presenti quali messaggi e quali intenzioni vengono veicolate dalla corporeità, in che modo la narrazione procede anche attraverso la “carne”, la voce e i gesti di chi è sul palco. Ne è uscita una mini-serie di videointerviste in cui troverete, oltre alle risposte degli intervistati, anche stralci degli spettacoli e riprese dai momenti del festival:

#1 – Luigi D’Elia, a partire dallo spettacolo Zanna Bianca

#2 – Alessia Candido e Miriam Costamagna (BIBOteatro), a partire dallo spettacolo Scarpette rosse di Emanuele Aldrovandi

#3 – Beatrice Ripoli ed Enrico De Meo, a partire dallo spettacolo Sogno di Fontemaggiore Teatro

#4 – Vito Cassano (Eleina D), a partire dallo spettacolo Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale

interviste a cura di Francesco Brusa, Nella Califano e Carlotta Tringali

riprese: Francesco Brusa, montaggio: Carlotta Tringali

 




I bambini e la verità del teatro. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 17 maggio 2018 al 20 si svolge fra Bari e Matera la ventunesima edizione di Maggio all’infanzia, una delle rassegne più auterevoli nel panorama del teatro ragazzi. Abbiamo incontrato la sua direttrice Teresa Ludovico, del Teatro Kismet, storica realtà che produce il festival. Con lei abbiamo discusso del programma e degli intenti che lo muovono.

Ci può presentare questa edizione di Maggio all’infanzia?

Si tratta di un’edizione particolare, siamo alla ventunesima, ormai siamo diventati adulti! Ho scelto un concetto guida per muovermi nel labirinto del festival: cammina cammina. Mettersi in cammino perché siamo sempre nel mondo della fiaba, dell’archetipo, perché parliamo d’infanzia e i bambini sono destinati a fare un lungo cammino. Cammina cammina perché gli operatori e le compagnie fanno un lungo viaggio per raggiungerci: noi siamo nel profondo sud! Il festival stesso si è spostato in altri luoghi, prima di tutto già da tempo ha creato un ponte con Matera, una città che amiamo molto e alla quale ci sentiamo molto legati per diverse ragioni; anche in previsione del 2019, Matera capitale europea della cultura, sembrava interessante dialogare con questa città. Un’edizione particolare del Maggio all’Infanzia, dunque, che andrà quasi ad anticipare quello che faremo nel 2019. La seconda novità è che abbiamo introdotto anche delle compagnie internazionali perché, volendo dialogare con Matera, ci è sembrato interessante coinvolgere degli artisti di altri Paesi, altro concetto guida del cammina cammina…

Il motto cammina cammina ha orientato anche la scelta degli spettacoli?

Il criterio importante quando si scelgono gli spettacoli è la qualità. Ovviamente non è possibile imbattersi ogni anno in dei capolavori perché gli spettacoli sono delle creature vive e gli artisti sono persone che cercano. A volte, anche compagnie che da anni ricercano sul tema dell’infanzia possono avere proposte più fragili. L’ambizione del festival, però, non è sempre quella di presentare spettacoli perfetti, ma lavori che abbiano qualcosa di vivo, delle domande, delle necessità. Possono essere proposte compiute o ancora alla ricerca di una strada per definirsi, ci arrivano molti lavori a metà del cammino, abbiamo moltissime prime e spesso non vediamo il prodotto già confezionato, cerchiamo quei percorsi che intercettino un’infanzia in movimento e che non si accontentino di un’idea astratta della crescita. La differenza è proprio tra chi ha solamente un’idea dell’infanzia e chi invece si pone per davvero in contatto con essa.
Ci sono, tra le altre cose, le grandi fiabe scritte e ripensate per i bambini, la sfida di ogni compagnia consiste nel cercare di utilizzare un linguaggio consono ai bambini di oggi. È molto interessante il Pollicino del Teatro della Tosse, che affronta la paura del distacco; o anche Scarpette Rosse di Biboteatro su testo di Emanuele Aldrovandi, uno spettacolo che ho scelto perché mi piaceva l’idea di vedere come un giovane drammaturgo potesse affrontare per la prima volta un testo dedicato all’infanzia. Secondo la sua lettura sono già le scarpe la strada da percorrere per diventare grandi. Un’altra fiaba presente nella vetrina di Bari è il Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale dove il vero protagonista è il lupo, un lupo che non vince ma che non muore nemmeno. Lo spettacolo è quasi senza parole e il regista ha lavorato con attori, acrobati e danzatori pugliesi. Un secondo tema è quello del rapporto con la musica che ritroviamo ne I Musicanti di Brema, uno spettacolo-concerto di Fabrizio Pallara molto stimolante per i bambini e in Concerto Fragile di Antonio Catalano, una proposta dedicata ai piccolissimi in cui gli oggetti quotidiani, messi in relazione con la natura, sono sempre al centro della scena.
In programma troviamo anche spettacoli ispirati a grandi romanzi di formazione: Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini, un viaggio nella foresta che faremo, insieme, attraverso gli occhi di un piccolo lupetto, Le nuove avventure di Bruno lo zozzo, ispirato al romanzo di Simona Frasca, una storia d’amore del Granteatrino proposto con il linguaggio dei burattini e Mio fratello rincorre i dinosauri con Christian Di Domenico, un narratore eccellente. In Molsa della compagnia Thomas Noone Dance, ispirato all’omonimo libro di David Cirici, sulla scena dei danzatori muovono delle marionette abbastanza grandi, mettendo in scena la storia di un bambino e del suo cane separati dalla guerra e che alla fine si rincontreranno. La casa del contemporaneo, invece, porta un testo che di solito propone agli adulti, TomCat, in cui si racconta lo stato d’animo di una ragazzina che sente di essere trattata come una cavia. Tra le “grandi narrazioni” c’è poi uno spettacolo di Flavio Albanese, Canto la storia dell’astuto Ulisse in cui delle sagome molto belle, realizzate da Lele Luzzati, dialogano con le ombre in un misto di linguaggi che prevede anche la narrazione. Questo è quello che accadrà nella vetrina di Bari. A Matera, invece, una città priva di teatri, è stato necessario ospitare spettacoli più agili come come quello del Circo El Grito, una compagnia di circo contemporaneo molto interessante.

Prima parlava dell’infanzia in movimento, un concetto molto affascinante. Come si intercetta? Quali sono le occasioni, i luoghi, dal punto di vista del teatro ma anche della nostra società in generale, per mettersi in ascolto dell’infanzia e capire quali sono le sue domande, i suoi dubbi?

Un’altra caratteristica di questo festival è che oltre alla vetrina ci sono tanti altri spettacoli in tanti altri luoghi e tante altre occasioni per intercettare questa infanzia in movimento. La caratteristica del teatro per l’infanzia, a differenza di quello per gli adulti, è che il bambino non sceglie di andare a teatro, ma c’è qualcuno che è intermediario. Noi cerchiamo tutto l’anno, e anche durante il festival, di coltivare dei rapporti speciali con chi può portare i bambini a teatro. Prima di tutto le insegnanti. Il festival prevede infatti sia spettacoli pomeridiani che matinée, per permettere alle insegnanti di portare i bambini. Chi muove questa infanzia sono appunto i genitori e le insegnanti e per le queste ultime cerchiamo tutto l’anno di costruire dei percorsi di visione attraverso il grande sostegno della Casa dello spettatore con Giorgio Testa e i suoi bravissimi collaboratori. Ogni anno attraverso questo percorso di formazione chiamato Esplorazioni cerchiamo di accrescere nelle insegnanti una maggiore consapevolezza del mondo dell’infanzia, ponendoci domande per noi fondamentali: come guardare uno spettacolo destinato ai bambini? Che caratteristiche ha? Come leggere uno spettacolo da sottoporre ai bambini? E abbiamo un gruppo veramente nutrito: sia pugliese che anche campano, perché anche il Teatro delle Nuvole (che fa parte della Fondazione SAT) fa anche un grandissimo lavoro. Saranno presenti al festival le insegnanti di Napoli, che durante l’anno hanno frequentato i corsi della Casa dello Spettatore e che quindi possiedono già una propria pratica di visione. Si diventa in qualche modo “complici”: gli insegnanti non subiscono più passivamente delle scelte ma ne sono partecipi in tutto e per tutto. Questo è un obiettivo che si sta cercando di raggiungere passo dopo passo. Infatti, quando trent’anni fa il Kismet ha iniziato il proprio percorso legato al teatro ragazzi fin sa subito abbiamo coinvolto gli insegnanti attraverso laboratori a loro dedicati. All’epoca si trattava veramente di iniziative insolite. Con gli anni però si è formata un’intera generazione di insegnanti che è diventata una generazione di veri e propri attivisti, creando associazioni come “Educhiamoci alla pace”. Ora, tutti questi insegnanti sono andati in pensione e noi qualche tempo fa ci siamo trovati nel bel mezzo di un passaggio generazionale senza sapere più con chi dialogare. Tant’è che c’è stato anche un grande calo di scuole che si interessavano al teatro ragazzi. Ecco che abbiamo dovuto reiniziare tutto da capo: ci siamo rimessi in movimento e abbiamo iniziato questo percorso con la Casa dello Spettatore, per ristabilire un contatto con chi lavora nel campo dell’educazione.
Quindi è chiaro che l’insegnante è un intermediario fondamentale. Dall’altra parte ci sono i genitori, che cerchiamo di intercettare in vari modi. Durante ogni spettacolo destinato alle famiglie, per esempio, realizziamo spesso nel foyer eventi, magari piccoli laboratori, che abbiano a che fare con il tema dello spettacolo, cercando di coinvolgere bambini e genitori.
Insomma, se vogliamo che questa generazione di “piccoli” entri in relazione con il linguaggio del teatro occorre preparare la strada. Non è sufficiente “prenderli” e metterli a guardare un’opera dal vivo senza alcuna preparazione. Tra l’altro la grande questione del teatro oggi è che i bambini sono molto abituati all’uso del cellulare, dell’i-pad, etc. sin da quando hanno pochissimi mesi di vita, per cui sono propensi a distrarsi facilmente. Quindi noi come operatori del settore abbiamo il compito di “conquistarli”, inventandoci delle modalità inedite di “teatro vivo”.

Da questo punto di vista, il contesto pugliese ti pare un “terreno fertile”?

Io penso che il teatro Kismet, proprio perché è una delle realtà teatrali più vecchie di tutto il meridione e d’Italia a lavorare attorno alle domande del bambino, in Puglia abbia fatto scuola. È quindi bello vedere come dall’esperienza del Kismet siano fiorite tantissime compagnie, che hanno fatto proprie le nostre modalità di relazione e coinvolgimento. Adesso esistono anche altri festival che si sono generati per “gemmazione” e che creano una molteplicità di occasioni d’incontro in tutta la regione, non solo da noi a Bari come poteva essere una volta. Ci sono insomma una miriade di attività che pongono grandissima attenzione all’infanzia, quindi i bambini sempre e ovunque, o la mattina attraverso i programmi scolastici o le domeniche pomeridiane o durante tutte le feste comandate, hanno l’occasione di praticare il linguaggio del teatro sia come spettatori che come partecipanti attivi, visto che tutti noi proponiamo corsi di ogni tipo dagli 0 anni fino all’adolescenza.
Tra l’altro il 13 maggio abbiamo realizzato Unduetrè/La cicogna naturale, una giornata particolare che abbiamo dedicato ai piccolissimi che ha coinvolto oltre ai bambini anche tutte le famiglie. Abbiamo offerto dunque la possibilità di trascorrere una giornata intera con laboratori di arte, musica, teatro, letture con momenti di confronto, riflessioni sulla genitorialità e l’educazione, di attraversare una molteplicità di domande legate all’infanzia e di farlo insieme. Il 15 maggio abbiamo costruito un grande corteo di apertura, che ha attraversato le vie della città dedicato ai “Mostri marini” con la partecipazione di 500 bambini che hanno sfilato in centro. Fra questi ultimi, circa un centinaio provenivano da scuole materne. Capite bene come dietro al festival ci sia un lavoro che si sviluppa lungo il corso di tutto l’anno, che lo rende un momento di grande coinvolgimento e di festa collettiva per la città intera (processo che stiamo cercando di portare anche a Matera). L’idea non è dunque quella di una vetrina, ma è una concezione più ampia che viene nutrita in ogni momento con varie iniziative che hanno nel Maggio la propria conclusione.
In fondo, questi 500 bambini che ne sanno del Maggio all’infanzia. Sanno che per tutto l’anno preparano qualcosa che ha un suo compimento, dopodiché andranno a teatro. Assoceranno dunque il lavoro prolungato con quello che gli spettacoli che verranno a vedere, creando una specie di continuum e facendo del festival anche un risultato del loro lavoro.

Parlava della necessità di dover coinvolgere spettatori – i bambini – abituati a modalità di fruizione sempre più rapide e veloci. Forse una chiave sta nell’ironia e nel divertimento, che ci sembrano centrali nel Teatro Ragazzi. Ma come evitare che scadano in mero intrattenimento?

Io penso che dipenda unicamente dalla professionalità degli artisti che lo praticano. Un buon artista è una persona con delle competenze, che è in contatto con il mondo e ha specifiche missioni: io faccio l’artista perché, in qualche modo, voglio testimoniare il mio sguardo sul mondo di oggi. Abbiamo una grande responsabilità quando facciamo spettacoli per bambini, perché i bambini sono gli uomini, le donne e i cittadini del futuro. Quindi il divertimento è una condizione: quando si va a vedere qualcosa ci si predispone già a uno stato di godimento, io vado a teatro perché voglio avere il piacere dell’incontro. Come ne uscirò da questo incontro non lo posso sapere e quelli che dicono a prescindere “io lo faccio per divertire” indicano già qualcosa di stereotipato; cosa significa far divertire qualcuno? Parliamo di idea del divertimento. Il teatro è qualcosa che accade lì, c’è un artista – una persona che ha passione per quello che sta facendo, che si impegna quotidianamente e che è consapevole dei propri mezzi – c’è una storia da raccontare, un linguaggio specifico, e c’è un’attenzione particolare verso chi fruisce lo spettacolo. Dovendo parlare di un pubblico bambino credo che il linguaggio della semplicità, del rigore e della perfezione sia importante: bisogna utilizzare in maniera chiara e precisa i simboli, perché quando ci rivolgiamo ai bambini noi contattiamo degli archetipi che, se confusi e mal gestiti, possono fare male; ogni elemento muove qualcosa. Di fronte alla confusione il bambino si distrae e quindi qualcosa non sta funzionando. Ho visto centinaia di spettacoli e mi sono fatta questa idea: non esiste un pubblico “difficile”, esiste un pubblico che non è abituato. Però se uno spettacolo è ben costruito nella sua semplicità, nel suo rigore, nella sua autenticità, funziona, è recepito e accolto; ciò che accade sulla scena deve essere autentico, non deve essere una presa in giro, non deve essere infantile, bambinesco: se tutto questo c’è, anche il bambino c’è, l’aura tra il bambino che è lì e l’artista che è dall’altra parte è un filo vero. Loro sono animaletti, nel senso buono della parola: quando c’è qualcosa di vivo lo acchiappano. La nostra responsabilità è di metterli nelle giuste condizioni.

Ritornando al concetto del buon artista, che esprimendosi in maniera autentica rende lo spettacolo vivo e quindi capace di catturare il pubblico, pensiamo ai suoi spettacoli tout public. Si può dunque realizzare uno spettacolo “per” bambini e ragazzi ma che, pur tenendo conto del proprio destinatario principale, possa arrivare a un pubblico di tutte le età?

Uno spettacolo fatto bene è uno spettacolo per tutti. I francesi dicono tout public, in realtà noi diciamo per tutti. Come dovrebbe essere. Uno spettacolo di Peter Brook, per esempio, è veramente uno spettacolo per tutti. Verso la metà del suo percorso lui invitava i bambini alle prove perché li considerava gli unici in grado di restituire agli attori la verità su quello che stavano facendo. Se lo spettacolo reggeva la comicità del bambino funzionava; a lui non interessava invitare gli intellettuali, per me capire questo è stata una grande lezione. Il bambino è lì e sei tu a dovere entrare in relazione. Inoltre Brook ha sempre utilizzato la semplicità: una cosa semplice non è una cosa banale, ma chiara; la cosa importante è costruire i livelli. L’ultima produzione che abbiamo realizzato in Giappone, Pinocchio, è uno spettacolo stratificato che a Tokio viene proposto sia la mattina per le scuole che la sera con un pubblico esclusivamente adulto.
In Italia tendiamo a sezionare molto (teatro ragazzi, teatro infanzia)… Certo i destinatari devono essere individuati e infatti uno spettacolo per adulti di un certo tipo forse non è sempre il caso di proporlo a un bambino. Il tema della morte, per esempio, si può affrontare con i bambini, ma attraverso un linguaggio consono, piuttosto che sottoporli a qualcosa di violento o feroce. La differenza sta nel tipo di linguaggio che si utilizza per portare in scena una storia universale. Quindi uno spettacolo per tutto il pubblico è quello in cui si propone una grande storia costruita su vari livelli: il bambino ne coglie un primo (noi lo sappiamo, le grandi storie hanno ampia profondità), ma anche l’intellettuale, se fa uno sforzo, può trovare in uno spettacolo come Pinocchio delle domande, degli stimoli, insomma qualcosa che abbia a che fare con un momento della propria vita.

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali 




Quella gioia che divora lo spazio. Un focus su Compagnia Rodisio

Davide Doro e Manuela Capece (Compagnia Rodisio) pongono grande attenzione al gesto, alla mimica, al movimento in scena nei suoi minimi dettagli. Al Festival Segnali hanno presentato Joy (prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale), uno spettacolo che cerca di raccontare nemmeno una situazione, ma uno stato d’animo, una sensazione impercettibile.
Vi proponiamo un focus su questa proposta, dove a una breve recensione dello spettacolo affianchiamo le parole della compagnia, con cui abbiamo conversato poco dopo la messa in scena.  

C’è un uomo che ha una sfera in mano, l’accarezza, la manipola, la dilata, la compatta, ad un certo punto la sfera immaginaria pulsa e diventa un cuore vivo agli occhi dello spettatore bambino che si trova di fronte a Joy di Compagnia Rodisio. L’uomo danza nello spazio con armonia e precisione adamantina e, nonostante la sua età, non ci racconta delle sue primavere, ma dell’essenza del viaggio che lo ha condotto davanti a noi, sul palco del Teatro Fontana per il Festival Segnali. Esplode il suo corpo, si divora lo spazio, lo abbraccia con una vertigine di ampi movimenti di braccia veloci, poi trattiene in sé quell’universo fagocitato cercando di far risuonare quel carnevale, dentro. L’uomo poi torna bambino e si confronta con l’assenza del corpo a scuola, in un sistema che il corpo lo annulla, lo mette a tacere, lo giudica come fastidioso quando indomabile ed esuberante, elogia l’immobilità non come conquista consapevole ma come possibile spegnimento di una accensione e di un desiderio al fare, all’andare. La sfera, che prima era gioiosa, si trasforma in un’esplosione di rabbia come se i due sentimenti si definissero solo se accostati, in un orizzonte dialogico dove lo scontro è finalizzato alla definizione del sé. E da questo universo mondo che è la costruzione dell’io, si arriva a spostare lo sguardo al di fuori, alla natura, al mondo animale, alle piante e ai fiori, in un esercizio di sguardo che si allontana e amplia, arrivando a puntare il naso all’insù fino alle stelle e all’universo al quale rivolgiamo preghiere, pensieri e interrogazioni capaci di riguardarci. Uno spettacolo dedicato al pubblico di bambini a partire dai 3 anni che ha la virtù di scegliere il linguaggio coreutico, senza paura di sbagliare o essere frainteso, andando dritti al corpo dello spettatore ed elargendo solo un piccolo frammento di racconto tattile ed emotivo: “Faceva freddo. Ero molto piccolo. E avevo paura. Mia mamma, senza mai lasciarmi la mano, si abbassò e raccolse una castagna da terra. Poi mi disse: “Vedi, questa castagna è magica. Tienila in tasca, e quando hai paura e ti senti solo, infila la mano in tasca e stringila forte. Vedrai, andrà tutto bene”. Ovviamente noi sappiamo che quella castagna non è magica, ma per una frazione di secondo, ci crediamo e usciamo dalla sala sereni, dopo aver attraversato svariate tempeste nel mezzo.

Agnese Doria

Lo spettacolo Caino e Abele di Compagnia Rodisio (ph:M.Zanghellin)

Cosa significa utilizzare il movimento nel teatro-ragazzi? C’è un “principio di semplicità” che anima il gesto?

Più che un principio di semplicità, credo che per noi prevalga un principio di onestà, di necessità, di modo che il gesto e il movimento non siano qualcosa di puramente estetico. È quasi una questione di verità. Esattamente come la parola: se nel tuo discorso ci sono parole in più, risultano in eccesso proprio perché non sono necessarie, vere e oneste.
È indubbio che partire da una storia, che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, possa sembrare meno difficoltoso per certi aspetti. Perlomeno come punto di partenza, dopodiché sorge tutta una serie di complessità sul come far arrivare questa narrazione al pubblico. Credo che appunto il “modo” sia la cosa centrale. Quindi non so se l’assenza di una narrazione complichi o meno le cose.
Nel caso di Joy, il pensiero che sta alla base della costruzione dello spettacolo ha seguito una mia esigenza molto personale, intima, per cui non sentivo la necessità di raccontare una storia con uno svolgimento chiaro ma piuttosto di condividere degli stati d’animo. Quindi, il principio che ho seguito è stato più quello di dover creare dell’armonia, laddove la gioia è appunto quella sensazione di essere in armonia con il resto, con l’oltre da sé.

Nel caso di Joy ci si rivolge a una fascia d’età di piccolissimi, dai 3 anni…

Crediamo che più si abbassi l’età, più ci voglia cura. Qualsiasi scelta in scena dev’essere supportata da una forte responsabilità, dal colore alle luci, etc. Questo però non vuol dire che si debba guardare al bambino piccolo intimoriti dal fatto che possa capire o non possa capire, che si debba divertire o non si debba divertire… Noi tentiamo di allargare quanto più riusciamo la “forbice delle loro possibilità di visione”: personalmente penso che un bambino anche molto piccolo possa seguire senza problemi l’opera o una storia drammatica, perché hanno strumenti di rielaborazione molto particolari.
Soprattutto gli spettatori che vanno dai 3 ai 5 anni si muovono nello spazio fra verità e finzione in maniera molto più agile dei grandi. Hanno molta più familiarità con l’elemento magico della scena e quindi puoi prenderti il lusso di proporre delle visioni anche fortemente complesse e ambigue, risulta paradossalmente più facile “osare”. Già con le elementari invece si perde quella capacità di stare fra il vero e il finto, gli strumenti di fruizione si avvicinano sempre di più a quelli degli adulti e subentra la necessità di avere una struttura, che può essere molto banalmente una storia o la riconoscibilità dei personaggi (buono/cattivo, etc.).
Quindi indubbiamente è delicato produrre spettacoli per questa fascia d’età, ma ci si può prendere un ampio spettro di libertà di composizione. Joy in tal senso è una proposta inusuale: ci sono parti che certamente richiamano il divertimento o la risata, ma di fondo è uno spettacolo contemplativo.

Voi lavorate molto anche in Francia. Che differenze ravvisate, soprattutto rispetto alle proposte di danza per i ragazzi?

In Italia è da qualche tempo che si è iniziato a proporre la danza ai bambini, mentre in Francia si tratta di un processo avviato da molti anni. Quindi hai un pubblico che, dai bambini ai genitori, è già abituato al movimento in scena, e questo succede dalla grande città al piccolo villaggio di provincia. Ovviamente la Francia e il Belgio sono un po’ delle eccezioni nel panorama internazionale, dove il sistema è talmente forte e avanzato che rende gli spettatori “pronti” e reattivi, perché è un pubblico fortemente stimolato da una grande varietà di proposte.

Nello spettacolo ci sono gesti molto vicini alla pantomima, al mimo, qualcosa che nel panorama attuale è sempre più raro vedere. Come mai?

Crediamo che sia molto legato al sistema di formazione e accademia. Non c’è più una formazione d’attore completa, che contempli anche queste forme di recitazione. Sempre tornando alla Francia, gli attori sono spesso anche danzatori e musicisti. Le nostre accademie sono invece rimaste a un sistema molto più classico, per cui ci si specializza rispetto a una o massimo due competenze. C’è un livello di formazione magari molto alto che però risulta diviso in settori. Invece in Francia, Belgio o anche Danimarca ci è capitato di vedere spettacoli dove gli interpreti, spesso anche molto giovani, possedevano uno spettro di linguaggi e abilità pressoché totale.
Noi ci siamo formati come autoditatti, affiancando durante gli anni ’90 dei maestri come Letizia Quintavalla, Bruno Stori o Maurizio Bercini, ma non abbiamo mai frequentato l’accademia. Però ci sarebbe piaciuto avere una formazione accademica ma completa, che stimolasse anche uno sviluppo di curiosità il più possibile vario ed eterogeneo. Al contrario, questo tipo di completezza la si deve cercare autonomamente, frequentando seminari, workshop, etc. che sono il più delle volte a pagamento per cui per un attore giovane diventa anche difficoltoso inventarsi il proprio percorso di “educazione teatrale”.

Francesco Brusa, Rodolfo Sacchettini




Tre domande per tre Pollicini. Conversazione con Teatro Paraìso, Eco di Fondo e Teatro del Piccione

Una fiaba oscura, cruda, inquietante, spesso nemmeno raccontata ai più piccoli, entra come fil rouge nella XXIX edizione del Festival Segnali, che ha visto ben tre Pollicino nella sua programmazione. Dal Pulgarcito di Teatro Paraìso (Tomás Fdez. Alonso, Ramòn Monje, Inaki Rikarte, Inaki Salvador) una delle proposte internazionali della rassegna, passando per l’anziano Pollicino di Eco di Fondo (Giacomo Ferraù, Giulia Viana, Libero Stelluti, Andrea Pinna) e concludendo con la fedele versione proposta da Teatro del Piccione (Simona Gambaro, Paolo Piano) e Teatro della Tosse, con regia e drammaturgia di Davide Doro e Manuela Capece, il celebre racconto di Perrault viene messo in scena da differenti angolature.
Abbiamo intervistato le tre compagnie per scoprire da dove venga la spinta e quali siano le scelte fatte per raccontare una fiaba solo in apparenza tanto senza speranza.

Perché avete deciso di mettere in scena Pollicino?

Tomás Fdez. Alonso (Teatro Paraìso): Semplicemente ci sembrava un testo stimolante e desideravamo metterlo in scena. Per prima cosa lo abbiamo proposto al regista, che ci ha pensato sopra e se ne è uscito con la proposta di far diventare il personaggio di Pollicino un anziano. Questo è stato sostanzialmente il nostro punto di partenza. Il resto è stato costruito attraverso l’improvvisazione: da lì si sono create altre situazioni, che hanno innescato ulteriori intuizioni, da cui infine sono nate le scene e i conflitti presenti nello spettacolo. In più, ci siamo posti come condizione di non utilizzare alcuna ambientazione che non fosse quella di una normale stanza d’appartamento: tutte le vicende si sarebbero dovute svolgere negli spazi e con gli oggetti che si possono comunemente trovare in una normale camera. Questo, che potrebbe sembrare una limitazione, si è infine convertito in uno dei punti di forza dello spettacolo. Ci ha infatti permesso di trasformare tanti oggetti di uso quotidiano in qualcosa di diverso, a volte addirittura di farli diventare dei personaggi (come nel caso dei calzini che a un certo punto “impersonano” le figlie dell’Orco della fiaba), oppure di rendere più interessanti ed evocativi elemento che a tutta prima non sembrerebbero così centrali, come gli stivali delle sette leghe che vanno a dare senso a quasi tutto lo spettacolo.

Simona Gambaro, Paolo Piano (Teatro del Piccione): Pollicino è già entrato a far parte di nostri altri spettacoli, ad esempio con Piccoli Eroi. Nonostante si tratti di spettacoli diversi, c’è un’urgenza comune che parte dalla fiaba di Perrault. Nel Pollicino messo in scena qui a Segnali, centrale è l’elemento della paura, quel saper trovare le proprie risorse per affrontare una sfida. Questa paura e questa audacia accomunano Piccoli Eroi e Pollicino, sono l’urgenza che diventano un invito ad avere coraggio e fiducia.
Nel caso di Pollicino, la scelta drammaturgica e registica di Manuela Capece e Davide Doro è stata di mantenere un’assoluta fedeltà alla fiaba, messa in scena senza dare interpretazioni o doppie letture. La scelta, forte, è stata quella di essere nudi e crudi proprio come la fiaba, elementari nell’uso dei suoi simboli, della sua costruzione narrativa e dei personaggi. Una fiaba buia, truculenta, la cui crudezza abbiamo voluto trasmettere anche attraverso una scena che è uno spazio vuoto in cui vivono soltanto parole e personaggi. Paradossalmente però questa fiaba è anche un inno alla vita, al saper andare dentro e oltre le cose: lo spettacolo accade in teatro, un luogo di per sé buio, e i bambini vivono un’esperienza di paura, di inquietudine, che si fa strada, anche concretamente, tra il pubblico. La conquista del tesoro da parte di Pollicino, solo evocato e mai sul palco, nel finale è anche la conquista che il pubblico fa arrivando alla fine dello spettacolo: noi torniamo in scena come genitori e diciamo: «bravi bambini, ce l’avete fatta, siete stati coraggiosi». Questo è il nocciolo di Pollicino che, declinato per un’altra età, era in Piccoli Eroi.

Eco di fondo: Pollicino nasce proprio in un filone della compagnia, teso a indagare miti e fiabe. Da un lato, i miti sono maggiormente dedicati a un teatro per adulti, mentre le fiabe sono riservate ai più piccoli. Tuttavia spesso si mischiano anche perché miti e fiabe hanno delle radici molto comuni, lavorano su paradigmi potentissimi che si possono declinare in qualsiasi modo.
Come sempre, abbiamo sempre prima pensato al tema, di cosa avevamo urgenza di parlare anche a livello personale. È  un periodo della nostra vita in cui, com’è normale, ci dobbiamo assumere maggiori responsabilità, in cui stiamo diventando “genitori dei nostri genitori”. Inoltre, in questo momento stiamo anche portando avanti degli incontri con l’università di Milano incentrati sui caregiver. Quindi, abbiamo subito pensato a Pollicino in quanto fiaba dell’abbandono per eccellenza, assieme a Hansel e Gretel, con cui speriamo di confrontarci prima o poi.
In scena si vede una casa di riposo. Cosa si può dire delle case di riposo? Tutti abbiamo su di esse un’opinione personale, che però non rispecchia un’universalità. È qualcosa di molto specifico, che varia da persona a persona. Nel caso di Pollicino, il protagonista le vede come un inferno ma è chiaro che per molti altri non sia questa la realtà. Siamo stati in delle case di riposo, ne abbiamo osservato il funzionamento, con i bambini infine abbiamo realizzato delle prove aperte che ci aiutano a “rodare” lo spettacolo. Fino all’ultimo ci siamo interrogati se arrivare al punto in cui Pollicino diventa così piccolo da scomparire, avevamo dei dubbi su come potesse essere recepito dai bambini… ci è sembrato che il doppio piano di narrazione funzioni bene. Ai bambini arriva il lato più divertente e divertito, mentre gli adulti si identificano di più con le responsabilità connesse alle scelte da prendere nel momento in cui i propri genitori invecchiano.

Nonostante questi temi di fondo, negli spettacoli c’è anche un uso molto diffuso dell’ironia…

Simona Gambaro, Paolo Piano: Sì, è un doppio registro contraddittorio. Come siamo contraddittori noi in quanto persone lo sono anche i personaggi della fiaba e di conseguenza i nostri ruoli. Ci si completa. I due genitori che noi incarniamo si dimostrano dei disgraziati abbandonando i loro figli. È necessario notare come l’abbandono dei figli sia un fatto che accade oggi, magari lontano dai nostri occhi, ma accade. I genitori di Pollicino, come nella realtà, non sono univoci, non sono cattivi. Sono dei disgraziati che non possono fare altro, o non riescono a immaginare cos’altro potrebbero fare. Quando l’abbandono avviene nella realtà forse è proprio l’unico tentativo di soluzione immaginabile per chi lo mette in atto. Quindi essendo una realtà difficile non abbiamo potuto fare altro che restituirla nella sua complessità. In questi personaggi, in questi ruoli c’è anche la nostra inadeguatezza come esseri umani, la nostra necessità di cercare degli spiragli di felicità anche nella disperazione. È per questo che fanno capolino ironia e leggerezza.
Inoltre l’ironia assume un ruolo importante anche dal punto di vista drammaturgico. Per quanto i personaggi della fiaba siano tagliati con l’accetta, non abbiano nomi – sono il Padre, la Madre, un Boscaiolo e sua Moglie, l’Orco e l’Orchessa – siano monolitici insomma nella loro funzione, portandoli sul palco acquisiscono una rotondità. Tale rotondità e tale ambivalenza mettono “in moto” il pubblico, lo costringono a non restare passivo di fronte allo spettacolo. Se i personaggi fossero piatti, come schizzati su un foglio, saremmo noi come artisti a dare la nostra chiave di lettura, imboccando il pubblico, ma non è ciò che desideriamo per gli spettatori. Pollicino gioca molto sulla soglia, sul confine. Il linguaggio è chiuso, noi siamo immersi nella nostra storia, ma la soglia è permeabile e l’ironia è una delle chiavi d’accesso.

Eco di fondo: Ci siamo divertiti a ironizzare sul concetto del rimpicciolimento, per cui ogni gesto o azione diventa estremamente faticoso da compiere per una persona che si fa via via sempre più piccola (processo che ovviamente allude all’invecchiamento). In questo senso, il mondo delle fiabe è un’ambientazione che facilita a evadere dal realismo, che dunque ci aiuta a percepire le problematicità evidenti ma senza renderle evidentemente drammatiche. Ciò che avviene è dunque una decontestualizzazione delle problematiche concrete, per trasporle in un’ambientazione diversa. Di conseguenza abbiamo preso ispirazione dal ruolo che nella versione di Perrault hanno i genitori di Pollicino, che sono due boscaioli. Da lì è nata la nostra idea di raccontare un boscaiolo, che dunque nel contesto odierno potrebbe essere un progettatore di case e capanne, etc. e la moglie del boscaiolo che si presume invece trascorra più tempo a casa e da lì “assiste” i personaggi delle fiabe, offrendo loro un supporto per via telefonica.

Tomás Fdez. Alonso: Credo che i bambini abbiano molta capacità di resilienza. Nel momento in cui ancora stavamo costruendo lo spettacolo, ci siamo accorti di come Pollicino sia in realtà un testo veramente terrorizzante: parla di genitori che da quanto sono poveri sono costretti a prendere la decisione di abbandonare i propri figli nel bosco, per non vederli morire fondamentalmente. Sono situazioni tragiche, truculente…  Allo stesso tempo però sono storie che appartengono all’immaginario collettivo e la cui origine si perde nella notte dei tempi, sono un patrimonio della cultura occidentale. Come si possono raccontare a bambini piccoli? Durante le prove dello spettacolo, abbiamo conversato con degli psicologi, che ci hanno spiegato come non ci sia problema per i bambini a recepire queste storie, per loro il carattere terrorifico e truculento non ha nessuna importanza. I bambini si identificano con Pollicino, che è un bambino piccolo come loro, che come loro parla poco e ascolta molto, e che ha il coraggio e la forza per uscire dalle situazioni di massima difficoltà. È questo il valore delle fiabe per i bambini. Ecco perché i bambini nel vedere le vicende di Pollicino si divertono mentre gli adulti si concentrano su gli altri elementi maggiormente conflittuali. L’importante è riuscire a inserire nello spettacolo sufficienti “stratificazioni” e livelli, cosicché ciascuno spettatore possa entrare nella dimensione di narrazione che sente più vicina a lui.

C’è la sensazione di una sovrapposizione fra infanzia e vecchiaia (negli spettacoli di Teatro Paraìso e di Eco di Fondo, Pollicino è a tutti gli effetti un anziano)… che cosa hanno in comune queste età della vita? In generale, oggi, le fiabe parlano a tutti?

Tomás Fdez. Alonso: Credo che esistano opere universali, da cui derivano semplicemente letture diverse. L’isola del tesoro, E.T. o il cinema di Charlie Chaplin sono opere per bambini o per adulti? Allo stesso modo, Pollicino è una fiaba che appartiene all’immaginario occidentale.
Un nonno e un bambino hanno molto in comune. Il primo si trova all’inizio della vita e il secondo alla fine, rappresentano insieme il circolo della vita. Perché i bambini e gli anziani si intendono così facilmente? Perché in realtà dal punto di vista psicologico sono molto simili: gli anziani non vivono le cose in un modo così pesante come gli adulti e, di conseguenza, capiscono meglio i bambini.
Pensiamo alla maschera del clown, di cui si dice essere “il bambino che tutti siamo stati da piccoli”. Chi sono, di solito, i clown migliori nel circo? Sono quelle persone anziane, gli acrobati o i giocolieri che non possono più esercitarsi e che quindi diventano clown. Anche lì, come nella vita reale, chi è alla fine della vita o della carriera riesce a parlare meglio a chi invece sta nel punto iniziale del circolo. Il nonno si comporta a tutti gli effetti come un bambino: non vuole togliersi il pigiama, fa i capricci, nasconde cibo nelle tasche… azioni che spesso fanno anche i bambini, i quali dunque sono quelli che ridono di più osservando i nonni.

Eco di fondo: L’idea  del nostro spettacolo è stata anche quella di, attraverso il gioco e attraverso un immaginario comune, pop, ma anche con tutto il tatto possibile, guidare adulti ma soprattutto bambini a prendere consapevolezza delle diverse fasi della vita. Diventare anziani è un po’ come ritornare bambini, si diventa sempre più fragili, sempre più piccoli e si va in un altrove, proprio come i personaggi delle fiabe. Nelle fiabe c’è scritta la parola fine ma si sa che queste storie continuano da qualche altra parte, forse e chissà come.
Credo che questo sia un atteggiamento profondamente infantile: i bambini non capiscono la fine del gioco, però capiscono la trasformazione. Cioè, non smettono mai di giocare ma tu gli puoi proporre un altro gioco e loro ti seguiranno, perché intuiscono che non c’è fine ma c’è solo un’altra forma. Allora il gioco di correre diventa facciamo il gioco del silenzio e viene preso all’istante però cambia forma e non può diventare un’interruzione. È qualcosa che ci ha guidato anche a livello stilistico: nello spettacolo utilizziamo diversi linguaggi, dal cinema alla musica, da riferimenti ad altre fiabe agli oggetti, proprio come mischiare i linguaggi è alla base del gioco infantile. Il bambino fa dialogare mondi che non hanno a che fare l’uno con l’altro, e li fa dialogare per una sua scelta totalmente arbitraria.

Simona Gambaro, Paolo Piano: Purtroppo la fiaba ha perso il riconoscimento della sua funzione perché non è stata più utilizzata per lo strumento potentissimo che è. Pollicino è talmente truculenta che, per esempio, non è nemmeno stata presa in considerazione da Disney, ma la tendenza generale è quella di rendere le fiabe “a misura di bambino”, con poco rispetto invece per lui e per la sua capacità di comprensione. Calvino, nell’Introduzione a Fiabe italiane, dice che le fiabe sono il catalogo dei destini dell’uomo. In ogni fiaba sono raccontati i passaggi essenziali della vita, per cui un Pollicino parlerà in un modo diverso in base a chi lo ascolta, alla sua età, al suo vissuto.
Nello specifico questa fiaba è veramente oscura, spaventosa, contiene il peggio dell’animo umano: dall’abbandono alla povertà, dall’assassinio, anche di bambini, al cannibalismo. Eppure, ci abbiamo visto uno strumento da mettere nelle mani dei bambini con la consapevolezza che con i più piccoli si possa davvero affrontare qualunque discorso. Ci siamo resi conto che i giovani spettatori riconoscono immediatamente la possibilità di utilizzare un racconto come mezzo per se stessi, per la propria vita di ogni giorno, traducendolo in opportunità. Inizialmente abbiamo fatto resistenza alla volontà di Manuela Capece e Davide Doro di non fornire al pubblico alcuna interpretazione ulteriore della fiaba, pensavamo fosse necessario uno sforzo in più. Invece, quando abbiamo accettato questa pulizia, ci siamo resi conto che lì, in questa fiaba, e nella fiaba in generale, c’è tutto. Ci siamo fidati e affidati alla fiaba.

di Francesco Brusa, Agnese Doria, Camilla Fava, Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti

a cura di Francesco Brusa, Camilla Fava




Uno sguardo mai fermo. Conversazione con Renata Coluccini e Giuditta Mingucci al festival Segnali

Dal 2 al 4 maggio saremo presenti come osservatorio critico al Festival Segnali di Milano, fra i principali appuntamenti nazionali di teatro ragazzi. Una rassegna giunta alle ventinovesima edizione, che ha spesso saputo coniugare un particolare sguardo sulle compagnie del territorio con una vocazione internazionale. Abbiamo conversato con le direttrici del festival, Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, provando a ragionare sul presente e sul futuro della scena per l’infanzia.

Ci potete presentare l’edizione di quest’anno e le scelte compiute? In generale, quali domande si pone o si dovrebbe porre chi organizza un festival di teatro ragazzi?

Giuditta Mingucci: Il lavoro di direttrici artistiche è sempre interessante: ricevere tante proposte consente di avere il polso di quello che sta succedendo in giro per l’Italia nel settore del teatro per ragazzi e individuare una serie di tendenze. Non abbiamo ovviamente la pretesa di avere il controllo di tutto, molte compagnie hanno presentato i loro lavori in altri festival e altre non sono rientrate nei nostri tempi di programmazione. Una grossa parte delle novità però confluisce certamente sotto il nostro sguardo. Restituire questa complessità è per noi una grossa responsabilità, da una parte verso le compagnie e dall’altra verso gli operatori che frequentano il festival con l’obiettivo di capire dove sta andando il teatro ragazzi e di trovare proposte interessanti da programmare. Tale criterio di responsabilità ci guida sempre nella selezione.
Da questo punto di vista, cerchiamo dunque di includere proposte di nuovi gruppi o nuove formazioni ma anche di osservare come stanno procedendo le compagnie con una storia più lunga alle loro spalle, nel tentativo di mostrare come proposte un tempo dirompenti abbiano poi inaugurato percorsi consolidati, che si evolvono continuamente dalle premesse iniziali. Anche quest’anno c’è inoltre la presenza di due compagnie internazionali: è sempre più frequente infatti la collaborazione tra artisti e/o istituzioni di paesi diversi all’interno dell’Europa. Sono elementi di novità che rispecchiano tra l’altro direzioni secondo noi assolutamente auspicabili per il teatro ragazzi.

Renata Coluccini: Quando ci troviamo davanti alla scelta degli spettacoli per Segnali, un pensiero che ci attraversa sempre e che dà adito a interessanti discussioni è capire quando uno spettacolo è da festival e quando è da programmazione. A volte le cose coincidono e a volte no, ma crediamo che nel festival debbano trovare spazio lavori che, per tema o linguaggio, osano un po’ di più e che proprio per questo possono avere più difficoltà di programmazione. Il festival è il luogo giusto per dargli voce.
Rispetto al programma del 2018 si può sottolineare la presenza di diversi “Pollicini”, fatto che ci ha incuriosito e ci ha spinto a interrogarci sull’importanza del tema del perdersi e del ritrovarsi. Tra le proposte che abbiamo ricevuto ce n’erano appunto tre legate alla fiaba, molto diverse tra loro: ci sembrava interessante allora proporre un Pollicino al giorno, anche come stimolo alla riflessione su come una stessa fiaba possa essere trattata in modi e con linguaggi diversi.

GM: Per quanto riguarda proprio i linguaggi, quest’anno ne toccheremo diversi: avremo un’orchestra, circo, esperimenti ad alto tasso di tecnologia e altri ad alto tasso di tradizione, e anche due spettacoli senza parole.

Avete menzionato il tema della perdita e dell’abbandono come uno dei possibili fil rouge trasversali al festival: come affrontare temi difficili e fino a dove si può spingere il teatro, e l’arte in generale, nell’affrontare temi complessi senza spaventare un pubblico giovane? Quanto e come osare?

RC: Credo che il problema non sia del pubblico giovane. Gli spettacoli rivolti all’infanzia o agli adolescenti possono trattare qualsiasi tematica, se lo fanno con il giusto linguaggio. Il problema spesso nasce da chi decide per i ragazzi se possono vedere o meno uno spettacolo, ovvero dagli insegnanti. La paura è adulta: i temi non sono tabù per il pubblico di riferimento, ma sono gli insegnanti che, a monte, hanno paura di attraversare questi stessi temi con i ragazzi. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso a Segnali con Racconto alla rovescia, che trattava il tema della morte: non c’è stato nessun problema nella ricezione.
I temi cosiddetti tabù (la morte, l’abbandono, la sessualità…) d’altra parte sono temi importantissimi per tutti noi, al di là dell’età, e credo che ogni artista sviluppi urgenze espressive legate a essi. È allora giusto che li attraversi: quando il teatro (in special modo quello rivolto all’infanzia) parte da urgenze sincere, e autentiche, funziona.

GM: Toccare temi tabù è molto importante, ma non deve rimanere un pensiero astratto, didattico nel senso deteriore del termine. La sorgente artistica è quella che ti consente di trovare la strada giusta per parlare di qualunque cosa. Senza dubbio è necessario un ulteriore lavoro da parte di chi produce per veicolare questo messaggio e perché gli spettacoli arrivino dove devono arrivare. Abbiamo a che fare con un pubblico che è inevitabilmente mediato e un lavoro di mediazione è quindi necessario. Capita spesso che spettacoli importanti non richiamino pubblico a causa del titolo o del tema, nel confronto con determinate fasce di età, ma tutto dipende da come questi contenuti vengono trattati.

Giuditta Mingucci

Segnali compie ventinove anni e con il Festival è cambiato anche il pubblico: cosa chiedono oggi come spettatori giovani e adolescenti che vengono a teatro?

GM: Mi viene in mente un’esperienza che abbiamo vissuto come compagnia insieme ad altre realtà europee di produzione per questa fascia d’età: dalla Finlandia la richiesta dei giovani che partecipavano al progetto era rivolta a un teatro che non parlasse più di bullismo o anoressia. Questo è un indicatore importante di come ci poniamo nei confronti del teatro ragazzi in quanto adulti. Spesso, infatti, ci concentriamo su problematiche che gli adolescenti vivono diversamente rispetto a noi. È per questo che è fondamentale mantenere un dialogo aperto e, come molte compagnie fanno, lavorare partendo da laboratori in cui i ragazzi partecipino, dunque da un confronto molto diretto con loro ancora prima di andare in scena.

RC: Il cuore della questione credo stia nel non fare degli spettacoli solo “per” adolescenti, ma “con” loro. Lavorare con i ragazzi mi mette in crisi ogni volta, in una crisi positiva che si trasforma in crescita e in mutamento di prospettiva.
Da anni come compagnia di produzione stiamo portando avanti un progetto con adolescenti e preadolescenti che ci permette di avere un contatto diretto con loro. Se noi leghiamo il loro essere adolescenti al fatto di avere dei problemi giusto perché sono in una fascia d’età complessa la loro reazione sarà sempre: “perché devo sopportare questo carico?” È perciò necessario costruire dei percorsi insieme a loro prima di andare in scena. Il modo di “rappresentarli” e di parlare di loro poi può variare: dalla provocazione, perché no, alla radiografia.

A tal proposito, quali aspetti della “vita adulta” vengono messi in crisi dallo sguardo adolescente e bambino?

GM: I ragazzi vanno all’origine delle cose, sono capaci attraverso domande semplici di trovare il cuore dei problemi. Chiedono le ragioni di ciò che vedono e di ciò che accade facendo domande importanti e puntuali senza giocare, come magari capita a noi, con la superficie. Il rischio per noi adulti è infatti dare troppe cose per scontate perché pensiamo di averle ormai metabolizzate. Invece la comprensione che abbiamo acquisito necessita di essere interrogata: si scade nella banalità se si cessa di porre e porsi domande. Diviene così fondamentale essere riportati all’origine delle cose con quella purezza, quella percezione della novità e anche dell’eccezionalità dell’ordinario che è cifra distintiva di un pubblico di ragazzi. Anche al livello della teatralità, le reazioni che ha il pubblico più giovane rivelano una curiosità e una passione nei confronti del teatro in sé, anche nei suoi aspetti tecnici, che per noi sono ovvie o poco interessanti. È uno sguardo altro, che stimola in quanto diverso. Per ricollegarsi alla XXIX edizione di Segnali, per noi è importante che ci siano due proposte internazionali, che danno un’altra prospettiva sulla realtà che ci circonda. Avere la possibilità di spostare lo sguardo è sempre un grande vantaggio, non tanto per cambiare ciò che siamo, ma per approfondire la coscienza e la percezione della propria identità in relazione con ciò che è altro da noi. Questo confronto non deve trasformarsi necessariamente in condivisione di punti di vista o visioni sul e del mondo, ma è assolutamente necessario per spingersi più lontano.

RC: Quando incontri i ragazzi accade davvero che il tuo sguardo si sposti in un duplice movimento: verso l’interno e verso l’esterno. Inizi a guardare la società e il te stesso più profondo da un’angolazione leggermente diversa riscoprendo aspetti che davi per scontati o per acquisiti. Questo confronto penso ti mantenga vivo, attento, critico. Credo che sia nostro dovere di adulti stimolare negli adolescenti un spirito critico che è parte di ognuno di noi, che deve solo essere “risvegliato”. Nel momento in cui i ragazzi riescono a tirare fuori questo sguardo critico sulla realtà modificano anche il nostro di adulti.

Negli ultimi tempi assistiamo a molte compagnie di ricerca che si misurano con spettacoli per ragazzi…

RC: Quando ho iniziato a occuparmi di teatro ragazzi, le compagnie di teatro ragazzi si mescolavano molto con quelle di ricerca. I due ambienti erano molto prossimi, ci si incontrava, si parlava, si discuteva. Dopodiché c’è stata una separazione. Il fatto che qualcuno che fa teatro di ricerca per adulti abbia voglia di misurarsi con i più giovani per me è qualcosa di molto “organico”, di molto coerente. Di fatto i ragazzi ti spingono a non stare fermo, non puoi dire “ho trovato il linguaggio della mia vita e farò sempre questa cosa”. Loro cambiano e tu devi cambiare di conseguenza, anche andandogli contro. Come per noi che facciamo teatro ragazzi è sano misurarci con altri pubblici di riferimento, così mi sembra altrettanto sano e necessario il percorso inverso. I ragazzi rappresentano uno stimolo eccezionale per mettere in gioco ciò che ritieni già acquisito e provare a misurarti con percorsi, linguaggi e tematiche nuove.

GM: Peter Brook stesso, in particolari fasi della preparazione dei suoi spettacoli, portava i propri attori nelle scuole per mettere, diciamo, “sotto stress” il lavoro fin lì compiuto attraverso la relazione con i ragazzi. Non mi stupisce questa esigenza delle compagnie di ricerca.

Renata Coluccini

Provando a fare uno sforzo di immaginazione, cosa chiedereste al teatro ragazzi del futuro?

RC: Penso che il teatro ragazzi in questo momento per svilupparsi abbia bisogno di essere sostenuto in maniera seria, anche economicamente. Non può vivere solo dello sbigliettamento, perché una politica che voglia intercettare esigenze e desideri dei ragazzi è costretta a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. Riempire le sale non è qualcosa di positivo a priori, il teatro ragazzi dovrebbe a volte sperimentare misure e dimensioni diverse, anche piccole… Mi piacerebbe che si potessero creare davvero delle reti fra le realtà che già stanno operando sul territorio: un aspetto fondamentale, su cui stiamo lavorando già in vari modi. Infine vorrei che ci si potesse concedere dei margini di errore, perché penso che la ricerca passi anche da questo. A volte il rischio è ritrovarsi presi da doveri produttivi di tempi, di ritmi, di dati ministeriali e non, che impediscono di concederti quella che è una ricerca che sbaglia per trovare la strada… come Pollicino, appunto. Questa è la mia utopia. La mia utopia sarebbe un festival dell’errore, dove portare tutti i propri percorsi sbagliati ma da cui trovare, poi, delle strade.

GM: Aggiungerei anche che il teatro-ragazzi è un ambito che merita un ulteriore approfondimento critico, ed è per questo che ci sforziamo di unire la qualità artistica in quanto tale con approcci e stimoli che definiscano un riferimento per il pubblico giovane. Rispetto al teatro “per adulti”, il teatro ragazzi è forse un po’ meno studiato e approfondito dall’esterno. Sarebbe molto importante riuscire a sviluppare nei prossimi anni uno sguardo di questo tipo.

RC: L’altro tentativo che stiamo facendo adesso, anche con il festival di Castelfiorentino, è quello di circondarci o trovare dei “complici”. Il contatto con l’università ad esempio, con figure che si occupano di aspetti educativi, creativi e pedagogici legati ai giovani (come accadrà nel convegno organizzato il 2 maggio), ha l’obiettivo di creare un movimento di pensiero che non sia limitato solo al teatro, ma con cui provare ad affrontare insieme il futuro. Si tratta proprio di ritrovare un movimento culturale in senso lato, di cui una componente importantissima deve essere il teatro.

Francesco Brusa, Camilla Fava, Francesca Serrazanetti




Sotto la linea di terra non c’è niente. Intervista a Patrizio Dall’Argine

Ci puoi raccontare da quali esigenze nasce Teatro Medico-Ipnotico?

Teatro Medico-Ipnotico nasce dopo alcuni anni di riflessione e dalla mia esigenza di volermi definitivamente staccare dalla natura umana. Prima avevo avuto varie esperienze come macchinista, scenografo, scultore e drammaturgo, legate al settore del teatro ragazzi ma a volte anche del teatro per adulti, in cui non utilizzavo solo i burattini ma anche gli attori. Ecco, volevo spostarmi esclusivamente in baracca e lasciare che parlassero i burattini.
Tra l’altro la fondazione di Teatro Medico-Ipnotico è coincisa con un incarico presso il Museo Dei Burattini di Parma, dove è conservata la collezione della famiglia Ferrari (una delle famiglie di burattinai più importanti della storia d’Italia). Durante questo incarico ho iniziato a scrivere storie e a inventarmi personaggi che fossero maggiormente legati alla contemporaneità, mentre la produzione dei Ferrari ricalca di più le orme della tradizione. Così mi sono ritagliato una significativa fetta di pubblico.
La compagnia nasce infatti anche dalla convinzione che i tempi sono maturi perché il teatro dei burattini ritorni ad essere una “abitudine laica” caratterizzata da una forte continuità nel tempo. Il discorso che cerchiamo di portare avanti è proprio quello di voler uscire dalla logica dell’evento, della performance. Solo attraverso la continuità di proposta è possibile uscire dalla logica dell’evento e della sopravvalutazione del lavoro culturale. In Francia, nei teatri Guignol, teatri stabili che si trovano nei parchi di quartiere, esiste questo tipo di programmazione: si va in scena tre giorni alla settimana con uno spettacolo che resta in cartellone un mese e poi cambia.

Qual è dunque la specificità dei burattini sulla scena?

Pensate solo al fatto che il burattino si esibisce in una baracca con il boccascena. Si tratta di un palco naturale, che non crea alcun problema se vuoi esibirti all’aperto. Credo che questa sia una caratteristica fortemente connaturata al burattino: gli esperimenti, nati soprattutto dalla necessità tipica dei ‘70 di destrutturare i linguaggi, di abbattimento della baracca e dell’animazione a vista lasciano secondo me un po’ il tempo che trovano. Alla fine, le questioni creative con cui ti confronti sono le stesse dell’animazione in baracca. È vero: gli orientali hanno una smaccata ed esteticamente interessante propensione all’animazione a vista che nasce però anche da un rapporto con la visione, con l’oggetto e con la luce molto diverso dal nostro. Si tratta delle capacità di rendersi invisibili attraverso la presenza. In occidente, invece, la nostra attitudine è forse più legata alla necessità di creare “meraviglia”.
Ecco, il burattino ti lascia la libertà di essere invisibile, andare in scena rappresenta una sorta di “piccolo suicidio”dell’identità. Non occorre crearsi un’identità perché il burattino ne ha già una propria, e molto marcata. Infatti, è quando ti senti “forte” che lavori male: vai a prevaricare quelle che sono le caratteristiche intrinseche dei personaggi in scena. La baracca accoglie da sempre gli animi più inquieti ma devi essere sincero e devi essere capace di metterti a disposizione dei pezzi che manovri. Mi viene in mente la leggenda dell’homunculus: una creatura che ti “costruisci” e che ti rispetta nel momento in cui anche tu la rispetti a tua volta. Se invece la disprezzi, usandola come fonte di guadagno, ti maledice.


Hai parlato di “meraviglia”. Cos’è la meraviglia oggi, in una società caratterizzata da una grande immersività tecnologica?

Se prendiamo anche gli ultimi film della Disney, notiamo come si è arrivati al un punto in cui tutto è finto. La meraviglia oggi si nutre in realtà di mere apparenze, di immagini virtuali appunto. Di fronte a un tale “parossismo” il teatro ha alcune carte da giocarsi, che sono quelle della magia, dell’incanto, della “vivida verità” di certi elementi: il rumore del legno, l’odore del borotalco, i suoni forti la consapevolezza di essere dentro a una sala… l’invisibile, soprattutto. Fare teatro significa secondo me avere coscienza di lavorare con l’invisibile, sapendo che il palco è appunto il luogo in cui questo invisibile deve manifestarsi. Non sempre è così: esistono tanti spettacoli che strizzano in continuazione l’occhio a quello che c’è fuori, invece il teatro dev’essere qualcosa che ti costringe a entrare dentro. Quando animi i burattini evochi qualcosa. Il burattino è un simulacro, un fantasma (“fantasma” in greco significava infatti “immagine”). Si avvicina alle statue che nell’antichità erano poste sopra nelle tombe: la loro funzione non era quella di essere viste dai vivi, ma quella molto più oscura di trattenere lo sguardo dei morti per evitare così di scongiurare che i morti tornassero, una delle paure più ataviche dell’essere umano.
Ecco allora che, rispetto alla meraviglia, il teatro ha dalla sua la capacità evocativa e la capacità dunque di immaginare, di “vedere” l’invisibile. È un punto centrale in un momento storico in cui la finzione è diventata più reale della realtà…ma cosa c’è dietro questa magnificenza? E’ così con il teatro in voga oggi: un teatro di idee. Come diceva un grandissimo, è meglio invece avere un’idea di teatro.

Che differenze osservi fra il pubblico bambino e quello adulto? Forse che tale meraviglia si diffonda un po’ per contagio…

Venire a vedere uno spettacolo di burattini è credere a questo patto: sotto alla linea di terra della barra non c’è niente. È anche un discorso sulle profondità: io che faccio pure il pittore ho sempre cercato la profondità, il rapporto figura-fondo. Ricreare questi elementi nel teatro di burattini è molto divertente: l’illuminotecnica ti offre ampie possibilità con pochi ed economici mezzi tecnici.
Inoltre il teatro di burattini così come la rappresentazione in generale hanno a che fare con l’infrazione di un divieto. È quello che ho cercato di esplicitare col mio spettacolo su Modigliani. Modigliani e i pittori dell’Ècole de Paris erano ebrei e si confrontavano dunque con una proibizione religiosa verso la rappresentazione della figura umana. La volontà di rompere dei divieti è da sempre uno dei “carburanti” principali per gli artisti. Oggi non c’è più niente da rompere e questo rende forse più stimolante provare a creare spettacoli per tutti. Io sono uscito dal teatro ragazzi proprio perché non ne potevo più di fare spettacoli di settore e oggi alle nostre rappresentazioni vengono molti adulti da soli, che non accompagnano bambini. Per raggiungere un tale risultato, occorre saper calare i canovacci classici del teatro di burattini nella contemporaneità. E occorre anche saper seguire il “perturbante intrinseco” degli oggetti inanimati: il volto di Guignol, in fondo, è modellato sulla forma di un teschio, è il volto della morte.

(ph: Thea Ambrosini)

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Come avviene il processo di creazione dei testi?

Intanto, il nome Teatro Medico-Ipnotico è tratto dal film di Bergman Il volto. Ammiro i lavori di Jean Renoir e di Nicholas De Stael. La pittura e il cinema sono, con la realtà, le mie fonti di ispirazione primarie. Lo stesso Cappello a cilindro deriva dalla visione di Liebelei di Max Ophuls. In effetti, penso che il teatro di burattini assomigli molto al cinema classico: una ricerca di equilibrio e di armonia. I miei spettacoli di repertorio nel tempo vengono calibrati, si asciugano e semplificano. Il classico è un’opera fuori dal tempo, una dimensione difficilissima da raggiungere, in cui l’autore si eclissa a favore dell’opera
Insisto, quando scrivo io ho il cinema in testa, cerco di raccontare per immagini. Per me un campo lungo vale più di un intreccio drammaturgico di Molière.

Il mondo dei burattini non è così conosciuto ai più. Come mai? Cosa dovrebbe cambiare affinché guadagni una maggiore attenzione?

Spesso l’ambiente dei burattini è un ambiente chiuso, eccessivamente accademico. Per questo se ne parla poco e la maggior parte delle volte male. Esiste però una sorta di “movimento dal basso”: Paolo Parmiggiani, per esempio, è un ricercatore che ha scritto testi importanti e che consiglia di unificare il complesso e ricco panorama del teatro di animazione italiano con il nome di Teatro di Pupazzi, dando così un respiro più internazionale e popolare a quello che solo in Italia viene chiamato Teatro di Figura. Questo genere, ormai dominato soprattutto dalla figura umana, ha un po’ il fiato corto e non mi sembra che dimostri grosse capacità di rinnovarsi. Spesso si assiste a psico-drammi legati al rapporto tra l’animatore e l’oggetto animato…limitando tutto ad un rapporto di potere. E poi diciamo la verità: il nome “figura” non ha appeal, da trent’anni viene proposto e non ha attaccato nell’immaginario. A me sembra che il Teatro di figura in Italia oggi si sia ridotto ad essere una maschera usata dal teatro ragazzi per farsi un po’ più bello di quello che è.
Parmiggiani è tra i pochi studiosi che conosco che ha la capacità di immergere il burattino nella contemporaneità pur mantenendone il suo mistero antico e la sua leggera e nello stesso tempo perturbante identità di oggetto-giocattolo. Ma una visione obbiettiva e storica è censurata da chi vuole mantenere il burattino tra le polveri ottocentesche e le ormai retro-avanguardie del novecento. E’ di nuovo un problema legato all’Accademia che celebra ciò che è finito e non quello che è vivo, e il burattino è molto vivo. Poi certo, c’è anche una specificità italiana che deriva dal conflitto generazionale del nostro paese. C’è insomma un vuoto generazionale nelle posizioni di potere e questo fa sì che il contesto si rinnovi molto lentamente o che si vada avanti con espedienti legati più alla comunicazione piuttosto che ad un linguaggio complesso e affascinante come quello dei pupazzi.

Francesco Brusa, Lorenzo Donati




“Fare il giro”, per una pedagogia delle emozioni. Conversazione con Giuliano Scarpinato

Abbiamo dialogato con Giuliano Scarpinato qualche tempo dopo il debutto della sua nuova produzione per ragazzi – Alan e il mare – nell’edizione 2017 del Festival Segnali di Milano. A partire dai nodi della nostra inchiesta sulle arti e l’infanzia è nata una più ampia conversazione che affronta diversi aspetti del percorso di quest’artista nel suo rivolgersi al giovane pubblico.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

L’incontro con il teatro ragazzi è stato per me abbastanza fortuito… Sono sempre stato un grande amante e collezionista degli albi illustrati, questa sorta di haiku straordinari che nel giro di poche pagine, pochissime frasi e alcune immagini fortemente iconiche riescono a rendere il cuore delle cose. Il desiderio di avventurarmi nel campo del teatro ragazzi è nato proprio da uno di questi libri: La grande fabbrica delle parole (A. de Lestrade, V. Docampo, Terre di mezzo, 2010) a cui si è ispirato La fortuna di Philéas, progetto con il quale nel 2012 ho partecipato per la prima volta al Premio Scenario infanzia. Fu l’inizio di un’esplorazione: cominciai a tastare il terreno, ad accorgermi delle esigenze del pubblico e del modo in cui avevo mancato degli obiettivi, ne avevo centrati altri. Due anni dopo è scattata la scintilla di Fa’fafine, è stato un incontro simile. Mi capitò di leggere un articolo a proposito dei bambini gender fluid, gender creative su “Internazionale” e mi innamorai della questione. Trovai estremamente interessante l’idea che esistessero questi piccoli guerrieri della libertà identitaria e, in modo piuttosto lineare, pensai che sarebbe stata una bella storia da raccontare a un pubblico di giovanissimi. Ecco, con Fa’afafine mi sono realmente addentrato in questo mondo. All’atto pratico, insieme alle polemiche ingenerate e al riconoscimento della critica, lo spettacolo ha avuto una risposta magnifica da parte dei ragazzi; ho potuto verificarlo con loro replica dopo replica anche perché è stato costantemente accompagnato dal confronto con il pubblico. E così, dopo i desideri e le intuizioni, a partire da questi momenti di scambio, ho raggiunto via via una sempre maggiore consapevolezza e mi sono reso conto di quanto fosse privilegiato il terreno di confronto con le nuove generazioni, di quanto fosse emozionante e restituisse la necessità del teatro. Quella offerta dai ragazzi – capaci, con occhio dotato d’incanto, di cogliere aspetti che spesso ci sfuggono – è una possibilità di condivisione reale tra artisti e pubblico che dovrebbe essere estesa a tutto il teatro.

Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Il mio approccio, l’ho scoperto in modo del tutto empirico, equivale a fare il giro. Fino ad ora ho trattato argomenti molto delicati, scivolosi – l’identità di genere, le sue varianti; la perdita di un figlio e il lutto all’interno della cornice più ampia della fuga da un paese in guerra e dell’emigrazione –, queste tematiche, però, non ho voluto e non amo affrontarle di petto, né in modo cronachistico. Riguardo la storia di Alan Kurdi, per esempio, credo che sul piano del racconto giornalistico sia stato detto e visto veramente di tutto. Ogni giorno inoltre veniamo a sapere delle vicende di un nuovo barcone e di alti numeri di vittime; le informazioni arrivano in dosi così massicce che ciò non può che provocare in noi una certa assuefazione, al di là delle inclinazioni umanitarie e della sensibilità di ciascuno. Di conseguenza con lo strumento teatro io scelgo di fare il giro, decido cioè di trasformare e avvalermi – come nel caso di Alan e il mare – di un dispositivo magico, fiabesco. Nello spettacolo questo coincide con la trasformazione della morte in una metamorfosi: Alan diventa un bambino-pesce che dal momento del naufragio appartiene per sempre al mare, da dove può fuoriuscire, essere ripartorito, a volte, per stare accanto al padre pochi minuti e poi tornare ­– come una Cenerentola “al suo rintocco” – dentro una dimensione che ormai lo imprigiona… Quando ho visto la foto del bambino sulla costa di Bodrum una delle primissime cose a cui ho pensato e che annovero tra le ragioni del suo grande impatto mediatico è stata la forte ambiguità dell’immagine: la posa del suo corpo non lasciava capire se fosse morto o dormiente. Quest’aspetto durante il processo creativo ha contribuito a dar vita al dispositivo fiabesco, che è stato per me il nucleo generatore dello spettacolo; la cronaca e i fatti realmente accaduti ne hanno costituito la cornice. Ma, perché fare il giro? Perché ciò che penso e noto rispetto all’approccio con i ragazzi è che sia più efficace parlare loro attraverso il sogno, la favola tornando però circolarmente alla realtà, cercando di rendere quanto più universale e condivisibile la vicenda. Così, secondo me, c’è una possibilità in più per scavalcare meccanismi di assuefazione e tornare alla realtà delle cose con un sentimento diverso, più “compromettente”.

Cosa ti ha spinto a condividere queste particolari tematiche proprio con lo sguardo, l’ascolto dei più piccoli?

Mi è davvero difficile pensare a una cesura tra il pubblico bambino e quello adulto. A prescindere dall’età anagrafica, credo che il punto siano l’occhio e l’orecchio bambino come entità. Né Fa’afafineAlan e il mare sono spettacoli pensati esclusivamente per i bambini, certo, loro sono privilegiati perché hanno un accesso più rapido a determinati tipi di salti: dal sogno alla realtà, e viceversa. Allo stesso tempo però, come i bambini, sono privilegiati quegli spettatori di tutte le età in grado di conservare uno sguardo infantile. Ecco, più che il pubblico dei bambini io scelgo un pubblico di bambini. Ma probabilmente questo ha a che fare anche con qualcosa che mi riguarda in prima persona: se io non portassi sulle spalle, come uno zainetto, il bambino che sono stato, con le sue mancanze, i suoi bisogni, i suoi desideri, probabilmente non avrei iniziato a fare teatro. Quindi ciò che trovo importante è andare a incontrare degli spettatori che siano rimasti, anche loro, “bambini nel tempo” e viaggino senza aver paura della propria bambinità.

(Alan e il mare)

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come può il teatro relazionarsi con questi nuovi ritmi del contemporaneo? E, ancora, in cosa consiste la “differenza teatrale”?

Quando diventa luogo primario del sogno, dello squarcio onirico, il teatro trova uno dei suoi tratti distintivi. È quest’aspetto secondo me, insieme al dato caratterizzante e imprescindibile della compresenza di attori e spettatori, a costituirne l’unicità, e a permettere di non condividere esclusivamente la nuda, cruda o banale realtà. Ma entrambi gli ingredienti, dal mio punto di vista, possono essere presenti: si parte dal dato reale e si attraversa un canyon di sogno (o di incubo) per poi risalirlo e arrivare di nuovo alla realtà. E questo il teatro può farlo in modo del tutto privilegiato proprio perché il suo tempo è più dilatato rispetto a quello dei diversi media. Mi stupisco sempre di quanto lavoro ci voglia per creare un’ora di spettacolo, di quanto tutto sia, fondamentalmente, un lavoro sulla sintesi; sintesi che, però, nel momento dell’incontro con il pubblico può corrispondere a una dilatazione temporale molto più ampia… Piccolo miracolo distintivo legato anche alle circostanze: allo star chiusi, insieme, in quest’antro buio, questa placenta, che permette di vivere una ritualità ormai molto più difficile da condividere al cinema, per esempio, dato che il nostro modo di fruirne si è imbarbarito, proprio per la sua “somiglianza” con la televisione o le serie tv viste sul pc nella propria stanzetta. Quanto meno la presenza dell’attore in teatro dà allo spettatore una responsabilità.

Che tipo di rapporto si instaura, invece, tra la scena e il video nei tuoi lavori?

Nel rivolgersi al pubblico dei più giovani non si può ignorare il fatto che le nuove generazioni abbiano come canale privilegiato un certo tipo di comunicazione – veloce, rapida, basata fondamentalmente sull’immagine – si può però declinarla sul versante del sogno, appunto. Quindi, in Alan e il mare l’uso del video non è di tipo giornalistico, non ci sono filmati relativi alla situazione siriana; lo spettacolo inizia con un’immagine molto rapida – è una bomba che scoppia – ma subito entra in un’altra dimensione e si dà accesso all’immaginazione. Allo stesso modo, grazie a un connubio tra il video e la scena, e alle bellissime proiezioni di Daniele Salaris, abbiamo potuto portare sul palco il mare di Alan, che è anche quello dei suoi ricordi, dove poi sarà accolto il padre e vedrà il loro cane, Abibi, diventato un cane-paguro, e l’albero di gelso del loro cortile, riempitosi di corallo. Il video allora mi permette di saltare i confini spazio-temporali o di convocare altri personaggi – i genitori di Alex in Fa’afafine; la madre di Alan che torna, come una sorta di muta fata turchina, nei sogni del padre. Amo molto questo mix tra linguaggi, lo trovo rispondente al tipo di percezione che abbiamo oggi delle cose.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Com’è possibile evitare il didattismo?

Non ho alcuna pretesa di insegnare né di essere un pedagogo, si tratta più di un dialogo, una condivisione. Cerco davvero di mettermi sullo stesso piano dei ragazzi e non su quello superiore di chi dice cosa fare, pensare o provare. Chiaramente è lo strumento teatro in sé a poter contenere una funzione pedagogica e, forse, ciò che posso immaginare per il teatro in generale è che contribuisca a una pedagogia delle emozioni. Trovo importante – e qui torno al tipo di teatro che amo anche vedere e alla realtà che ci circonda, con le sue efferatezze più o meno mediaticamente esposte – che si dia luogo a una rialfabetizzazione emotiva, perché mi sembra che oggi sia in atto il processo contrario e che le emozioni, positive e negative, e il loro attraversamento costituiscano un problema. I diversi filtri della comunicazione di cui disponiamo (Whatsapp, i vari social) rendono possibile arroccarsi in posizioni di difesa e distacco che fanno perdere il contatto con le emozioni primarie, con le lacrime, le urla. Credo che questo sia molto pericoloso, nell’ambito relazionale privato come in quello pubblico. In tal senso ciò che mi piacerebbe fare con il mio lavoro è contribuire a ricreare un alfabeto, partecipare a questa pedagogia delle emozioni.

Francesca Bini




Il meraviglioso segreto della narrazione. Intervista a Francesco Niccolini

Al festival Teatro fra le generazioni di Castelfiorentino Francesco Niccolini ha presentato “Digiunando davanti al mare”, un intenso spettacolo incentrato sulla parabola dell’attivista e sociologo Danilo Dolci. Gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività di drammaturgo, su come i toni e gli accenti della scena escano modificati dall’incontro con gli spettatori più giovani. Ne è uscita una lunga conversazione che tocca i tanti “misteri” della narrazione.

Nella tua carriera ti sei cimentato sia in creazioni originali che in riscritture. Quale rapporto intrattenere col “classico” se pensiamo alla scena di un teatro per i ragazzi?

Io ho bisogno di avere un rapporto continuo con i classici perché sono un nutrimento fondamentale. Passo molto tempo a studiarli e a riprodurre un rapporto, mi auguro sano, di riscrittura. Recentemente ho adattato un Misantropo e da poco anche un Riccardo III con Enzo Vetrano e Stefano Randisi che debutterà a ottobre. Si tratta di due operazioni molto diverse: da una parte il Misantropo vede otto attori in scena e i personaggi sono proprio quelli di Molière, anche se il testo è dimezzato; Riccardo III, invece, vede in scena tre attori soltanto che interpretano tutte le parti, la struttura dunque ne esce radicalmente sconvolta. Si tratta di un confronto utilissimo, non smetto mai di imparare dai classici. Poi, però, credo sia giusto che ci sia lo spazio per la creazione: compagnie, organizzatori teatrali, io stesso, tutti insomma dovremmo trovare il coraggio per rischiare di più e realizzare testi completamente nuovi. Mi sembra che lo spazio per questo tipo di operazioni sia sempre più piccolo e penso davvero si tratti di un grave errore del teatro italiano. Ripeto: i classici sono fondamentali poi, però, occorre avere il coraggio di lasciarli, altrimenti il rischio è di andare sempre di più verso una cultura meramente “archeologica”, verso una cultura morta. Sono stato pochi mesi fa a Valencia e il cartellone del teatro nazionale indicava un solo classico e otto testi nuovi… in Italia il rapporto è praticamente invertito!

In che modo chi si occupa di teatro ragazzi dovrebbe relazionarsi con il proprio destinatario?

Per quanto mi riguarda devo capire prima di tutto a quale fascia d’età mi sto rivolgendo. Pochi giorni fa ho finito di scrivere un testo per bambini dai tre ai cinque anni (Il piccolo Aron e il Signore del Bosco, per Alcantara teatro). La lingua cambia completamente e così il ritmo, il tempo, la quantità di parole. Nella mia carriera, poi, ho avuto anche delle bellissime sorprese a posteriori, per cui magari ho scoperto che uno spettacolo nato per ragazzi dai dodici anni in su lo potevamo fare anche per i più piccoli, oppure che spettacoli per gli otto-dieci anni potevano essere tranquillamente presentati a bambini di sei o addirittura di cinque anni. È anche vero che oltre a questo, che è importante e determinante per il teatro dell’infanzia, esistono una serie di componenti come la poesia, il divertimento, il batticuore, che si mescolano fra loro e vanno al di là di qualunque distinzione d’età. Ma allo stesso tempo è chiaro che il modo di divertirsi per un bambino di quattro anni o per uno di dodici non è lo stesso, per cui risulta indispensabile prestarvi una grande attenzione e un grandissimo rispetto.
Sono sfumature e diversità stimolanti. Nel corso degli anni ho lavorato nelle situazioni più disparate e considero questo fatto una grande fortuna: sono passato dal monologo con il grande attore per il pubblico serale al confronto con il bambino di cinque anni. Non ho una compagnia mia, ma lavoro con differenti gruppi e artisti e questo mi diverte molto, come pure cambiare continuamente il tipo di pubblico.

(Il Misantropo)

Come conoscere dunque i diversi referenti? Esistono pratiche laboratoriali, specifiche modalità di osservazione?

Io cerco di mettermi “dentro” gli occhi dello spettatore, che sia un bambino di cinque di otto o di dodici anni o un signore di settanta, e cerco di assumere quel punto di vista; è ovvio che quando lavori per l’infanzia tale operazione diventi maggiormente specifica. Anni fa ho sentito Sanchis Sinisterra dire una cosa che mi piacque moltissimo: «Ho scritto sessanta testi e mi dicono che sembrano scritti da sessanta autori diversi». Mi piace poterlo pensare anche di me, cioè di poter essere quasi un autore invisibile, diventare quel particolare pubblico, quell’attore, quella compagnia, quel linguaggio particolari. Si tratta di  trasformarsi in qualcun altro ed è una “schizofrenia sana” per questo mestiere, perché mi permette di vivere molte vite e di divertirmi come un bambino che gioca: ripeto, lo considero una fortuna, un privilegio.
Il mio bambino preferito è un bambino di otto anni, quella è forse la mia età “ideale”. Devo però diventare quel bambino, poi cerco di capire se devo farmi un po’ più piccolo o crescere un po’ di più, ma l’importante è assumere quegli occhi, la lingua che parla lui, che diverte lui. Mi sento un po’ un sarto, un po’ un cuoco: devo capire gli ingredienti che ci sono, cucire addosso agli attori un particolare vestito e poi mediare tra i miei desideri e i desideri del pubblico. Mi piace il teatro perché necessita di una collaborazione costante. Non ho mai pensato di dover imporre il mio punto di vista, cerco invece di fare in modo che tutti facciano un passo l’uno verso l’altro, portando gradualmente gli attori, i registi, gli scenografi e infine gli spettatori a vedere il “film” che io mi sono già fatto nella testa e “trasmetterlo” anche nella testa degli altri. È sempre una questione di occhi che devono scambiarsi.

Hai menzionato la questione del “comico”. Esistono secondo te dei paletti da non oltrepassare quando si usa la comicità con i ragazzi?

Confini invalicabili preferisco non metterli. Ciò che a me non interessa è il comico facile, quello della parolaccia, legato alla volgarità. Penso ci siano diverse qualità del comico.  Ad esempio, in questi giorni ho dovuto scrivere per bambini molto piccoli e so che questa storia ha una grossa componente di comicità legata alla tenerezza. Ha come protagonista un bambino di cinque anni e quattro animali con i quali lui ha un rapporto quotidiano e le prime volte in cui ho provato a leggerla ho visto e sentito nelle persone attivarsi una comicità “piccola”, che tende più al sorriso che alla risata, qualcosa – ripeto – di intimamente legato alla tenerezza.
Al contrario, un paio di anni fa ho realizzato uno spettacolo con Flavio Albanese che si chiama L’universo è un materasso, per ragazzi di dieci e dodici anni, sulla storia dell’universo, partendo da Esiodo e arrivando fino alla fisica quantistica. Si tratta di uno spettacolo diviso in quattro capitoli, molto diversi fra loro e tutti con una loro specifica comicità. Quando si racconta della Teogonia gli dèi ne combinano di tutti i colori, creando una sensazione di ridicolo. Oppure nell’ultima parte va in scena un dialogo che vede un giovane e imbarazzato Einstein spiegare a Crono, il Tempo, che il tempo non esiste! Qui la comicità è molto più surreale.

Come nasce Digiunando davanti al mare?

Questo spettacolo è nato in seguito a un laboratorio di narrazione tenutosi a Mola di Bari, in cui chiesi a Giuseppe Semeraro di partecipare. Era la prima volta che provavamo a lavorare insieme. Qualche giorno di lavoro mi è servito per capire che l’attitudine di Giuseppe fosse molto più legata alla pratica attoriale, che a quella del narratore. Per questo dall’idea originaria di una narrazione  sono passato a quella di un racconto in cui avrebbero dialogato due personaggi: uno doveva essere inevitabilmente Danilo Dolci, che venendo dal nord avrebbe parlato in italiano. Il suo personaggio è caratterizzato da una “fermezza dolce” e ho creduto che per le corde recitative di Giuseppe ci volesse anche un personaggio siciliano, così ho inventato Zimbrogi. Il fatto che Giuseppe parlasse il dialetto salentino, abbastanza imparentato con i dialetti siciliani, lo avrebbe facilitato. Quella di Zimbrogi è un’invenzione parzialmente basata sulla realtà perché fra le persone che Dolci aveva intorno c’era anche un pastore esperto di stelle e di animali. Ho messo insieme le testimonianze di altri personaggi siciliani che Dolci conosceva e in più alcuni elementi propri di questo Ambrogio che è diventato l’alter ego di Dolci. Zimbrogi ha dieci anni in più di Dolci, ma presto si accorgono che questa differenza non li divide, anzi, diventano presto amici: Ambrogio è un ventisettenne con la prigione alle spalle, il riformatorio, una vita difficilissima ed è quasi analfabeta, per cui è un ragazzino quasi quanto Danilo che, da parte sua, capirà di aver bisogno anche di quel punto di vista per comprendere la terra in cui decide di fare attivismo, mentre Zimbrogi si innamora della capacità di Danilo di sognare le cose e farle esistere. Lo capisce in maniera viscerale e questa presa di coscienza diventa un po’ il fulcro dello spettacolo.
Ci sono dunque brevi momenti di narrazione, mentre ho scelto di costruire le parole di Danilo partendo dagli atti del processo che lo ha visto come imputato. Questi atti sono poetici nelle parti in cui Danilo parla, incredibili e surreali quando parla l’accusa, infine molto intensi e sentiti quando a esprimersi è la difesa: Pietro Calamandrei era l’avvocato di Dolci. Un po’ alla volta è venuto fuori il testo dello spettacolo, che a volte è un dialogo altre volta consiste in una serie di veri e propri monologhi idealmente rivolti a un terzo personaggio che non c’è e che è il giudice che condannerà i due personaggi.
L’altra cosa che mi sembrava indispensabile era mantenere una chiave che non fosse seriosa ma per una situazione così surreale e grottesca ho pensato di rendere tutto tragicamente comico. Basta pensare al carabiniere che fa sfollare i manifestanti radunati sulla spiaggia dicendo che è vietato stare in molti sulla spiaggia e che è vietato digiunare. “Magari!”, risponde Zimbrogi. Si tratta appunto di episodi tragici che diventano comici, poiché rivelano il paradosso di una giustizia italiana incapace di difendere chi subisce, tanto da considerare i più poveri alla stregua di “banditi”. È il paradosso dei paradossi.

(Digiunando davanti al mare)

Lo spettacolo è nato da subito con un destinatario preciso?

È nato per gli adulti, poi ci siamo accorti che per le scuole superiori funzionava molto bene. La risposta è emotivamente forte, probabilmente anche perché si raccontano cose dure però, come dicevo, con una vena comica e poetica. La capacità di Danilo Dolci, che era anche un poeta, è proprio quella di riuscire a mettere in atto gesti provocatori con grande delicatezza e grande poesia, pensiamo solo al fatto di ascoltare Bach durante una manifestazione in spiaggia… Oppure quando dice ai manifestanti: “non portate i coltelli altrimenti ci accuseranno di essere armati! Spezzeremo il pane con le mani…”.  Possono sembrare degli enunciati banali ma in realtà racchiudono un affascinante potenziale evangelico.

In effetti il racconto di Danilo Dolci si avvicina parecchio alla fiaba. Quanto c’è nella storia umana di fiabesco e quanto invece le fiabe dicono rispetto alla nostra storia?

Credo che tutto questo poi stia negli occhi delle persone. Io sono molto legato all’idea di uno sguardo incantato e meravigliato. Quella che ritengo una mia grande fortuna è che continuo a vivere la meraviglia di fronte alle cose e credo che sia questo a rendere meraviglioso il racconto. Dunque se c’è alla base uno sguardo “meravigliato”, ecco che in qualsiasi vicenda  la componente fiabesca viene esaltata, viene fuori. A volte anche passando dal cinismo, dalla durezza, perché sono convinto che occorra sempre mantenere una forbice aperta fra tragico e comico, cinico e sentimentale, tra la capacità di essere assolutamente freddo oppure fortemente emozionale.
L’obiettivo resta comunque quello di trasmettere allo spettatore questo incanto, questa meraviglia, anche solo per un momento. Un attore da solo sul palco che racconta senza altri strumenti che non siano il suo corpo e la sua voce, deve aver dentro di sé la meraviglia. E deve avere così chiara la visione di quello stupore da diventare visionario col suo stesso corpo e con le sue stesse parole, in modo da restituirla a chi ha davanti, perché in mezzo fra lui e il pubblico non c’è niente. Sbaglia il narratore che pensa possa aiutare servirsi di uno schermo, immagini o video: si rischia al contrario di indebolire la visione.
Ecco, la trasmissione della meraviglia è il meraviglioso segreto della narrazione. È ciò che chiamo, senza paura di sembrare retorico, “batticuore”: far uscire lo spettatore con un battito cardiaco lievemente più alto di quando era entrato. Se accade questa cosa, vuol dire che sono riuscito a far emergere almeno in una certa misura la fiaba, qualunque cosa io stia raccontando.

La meraviglia come segreto del “tout public”, anche?

Anni fa in Francia, lavoravo su un Mahābhārata con il marionettista Massimo Schuster e oltre a realizzare una versione con le marionette ne abbiamo fatta anche una “in narrazione”. La prima volta che l’abbiamo portato in Italia, a Prato, era estate e ci siamo trovati incredibilmente davanti a un pubblico composto nella sua maggioranza da bambini.
Lo spettacolo trattava una storia complessa, ambiziosa, difficile come è il Mahābhārata con nomi complicati per i bambini italiani. Eppure ne sono rimasti incantati, come quando racconti loro vecchie fiabe italiane ben note.
Quando le corde risuonano fra le nostre vite e quello che ci viene raccontato, oppure fra quello che ci viene raccontato e quello che, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, sta radicato dentro i millenni sui quali noi cresciamo, il racconto tiene. Però non si può usare sempre la stessa formula ed è bello poter variare ogni volta lo schema, porsi delle scommesse più complicate, più ardite. Altre volte capisci che devi stare in una semplicità assoluta. Devi decidere ogni volta e non c’è una risposta fissa che vale per tutto. Una cosa che serve è un’applicazione lenta, costante e umile, studiare tanto e avere umilmente il coraggio e la fiducia di mettersi nelle mani l’uno dell’altro (drammaturgo, regista, attore…). Ma soprattutto avere la serenità anche di poter sbagliare: la scienza si basa sull’errore, dobbiamo poter sbagliare e sapere scartare per tempo tutto quello che non funziona.
Con Luigi d’Elia lo dico sempre: il primo spettacolo che abbiamo fatto è stato un disastro e lo ricordo con felicità perché quel disastro ci ha permesso di conoscerci, di capirci, di far nascere un’amicizia e di capire che la strada che dovevamo percorrere era completamente diversa da quella da cui eravamo partiti. Per cui evviva quel disastro, senza di esso non ci sarebbe stata la progressiva conoscenza e l’enorme fiducia che poi è nata e che ci porta l’anno prossimo a festeggiare un decennio di spettacoli. Ogni giorno che Luigi ed io passiamo a teatro è perché siamo felici di farlo, ci sentiamo allegri, ridiamo. E la vita ci sembra più bella.

Francesco Brusa, Nella Califano




La paura dell’infanzia. Conversazione con Chiara Guidi

Chiara Guidi ha portato al Festival Teatro fra le Generazioni 2018 Fiabe Giapponesi, un complesso esperimento in cui tre narrazioni tradizionali nipponiche rivivono in una relazione sempre dinamica e accesa con una platea gremita di bambine e bambini. Con lei abbiamo parlato della necessità di un teatro che si ponga l’infanzia come categoria di pensiero.

Sto riflettendo molto sulla necessità di trovare un linguaggio che possa riunire, in uno spazio comunitario, tutte le fasce d’età, per cui questa è un po’ la matrice dell’idea di “teatro infantile”: un teatro che dovrebbe ammettere anche le giraffe, se entrassero a teatro. Un linguaggio universale come quello del rito, dove non ci si pone certo il problema di chi partecipa. Nel rito non c’è una selezione, addirittura quando indicevano i grandi digiuni o i grandi riti del passato entravano anche i lattanti. La formula del teatro consiste nel mettersi di fronte a qualcuno e creare una relazione; da qui si apre una problematicità enorme, perché si convoca sempre qualcuno per aprire un artificio, un processo che contiene in sé la scelta delle parole. Io per esempio, per poter raccontare quello che è successo stamattina, devo trovarle quelle parole, cercarle, e le parole cercate mettono in una condizione di invenzione per la quale lo spettacolo non finisce. Io non voglio che si finiscano gli spettacoli, do sempre un appuntamento al pomeriggio o ai giorni successivi.
Mi è successo anche con settecento bambini in Australia, ad Adelaide, con Jack e il fagiolo magico. I bambini scendevano, prendevano i fagioli per terra. Tu hai una filastrocca: leggila in modo che la voce vada contro la rima della filastrocca. È questa l’idea, mentre noi ci siamo abituati a una struttura teatrale frontale e rigida: vai contro quella! Penso possa essere utile vedere che cosa un’epoca storica come la nostra possa raccogliere dai cambiamenti visivi di un tempo così frammentario. Potremmo forse trovare qualcosa per intaccare la struttura; non per chiuderla, ma per trovare una durata, un ordine. Nelle Fiabe Giapponesi c’è un grande ordine, una grande costruzione “fissa” che pure può mutare ogni volta perché il teatro deve essere in grado di reggere la forza d’urto dell’infante, di colui che è privo del linguaggio. Si apre una questione enorme: come fai a reggere la forza d’urto degli stranieri? Tu, uomo di cultura, io che mi adopero… io che mi reputo non razzista…

È impossibile essere l’altro…

Esatto, eppure io ho bisogno dell’altro. Per eccellenza lo straniero è l’infante. Un bambino che strizza l’occhio a quella sedia – perché si, è una sedia, ma lui sa che è anche un cavallo – a me questo fa paura.

In questo senso intendi “fuori del linguaggio”…

L’infante rinomina, ha questa capacità di rompere… Pensate che cosa oggi succede a scuola, dove tutto è catalogato secondo terminologie inglesi, come un linguaggio separato da se stesso: io di fronte a quella parola dove sono? Un processo simile accade se sostituiamo “parola” con “rappresentazione”: quello spettacolo, di fronte al bambino, come lo vuole ingannare? Con quale gioco lo vuole ingannare, lui che sa vedere in quella sedia il cavallo? Io lo dico perché me lo ricordo: quando ero bambina c’era un cuscino che mi mettevo in testa e per me quello era un cappello, anche se continuava a essere un cuscino.

Nelle Fiabe Giapponesi ci sono una complessità, una ritmica, una stratificazione altissime. Poi c’è la questione filosofica iniziale che si sviluppa in diverse direzioni: ci sono le fiabe con una propria linearità, c’è la meraviglia del linguaggio teatrale che però è anche fatta di estrema semplicità. Che cosa è importante che resti dal tuo punto di vista? 

Questa domanda la devi fare a te stesso, quando leggi Cappuccetto Rosso a un bambino che te la chiede tante volte. Quanto gli possa far bene non lo sappiamo, quanti chilogrammi di favola ci facciano bene…  In questa epoca è importante essere riconoscenti a qualcosa che ci fa bene mentre noi non ne siamo consapevoli, scardinando la logica per la quale se qualcosa ci fa bene dobbiamo esserne consapevoli. L’amore non nasce così, tu ti innamori e non sai perché ed è l’amore che muove le cose, insieme alle stelle. La risposta alla tua domanda è “non lo so”, io so solo che questi bambini che hanno visto Fiabe Giapponesi oggi chiederanno ai genitori di essere portati in teatro. In città piccole in cui ho fatto lo spettacolo, mi è capitato di incontrare dei bambini per strada che mi hanno chiesto scusa perché i genitori non avevano voluto portarli a teatro. Succedeva qualcosa di simile negli anni 90’ con la Scuola Sperimentale, dove per tre anni avevo seguito più o meno gli stessi bambini con i quali si stabiliva un’intesa profonda e nascosta, la stessa che provo a ottenere nello spettacolo. È quello che cerco di dire anche nel libro La voce in una foresta di immagini visibili: io recito per cercare il silenzio. Faccio tutto questo per non esserci, divento io la scatola vuota, mi metto sul fondo e dico: «Voglio vedere lo spettacolo». Io ho scelto questi nove bambini, uno mi ha detto che non lo voleva fare, ma io: «Eh no, ormai sei qui e lo fai». Se spingi troppo forte rompi qualcosa, se spingi troppo poco non lasci un segno, bisogna stare nel mezzo, penso che questa sia proprio la forza dell’artigianato che si avvale della materia della voce, del corpo, dei gesti, perché anche la voce a volte ottiene il silenzio: basta scendere di una tonalità.

Nello spettacolo sono però presenti tensioni narrative anche lineari, quelle delle tre fiabe…

Occorre essere consapevoli dell’importanza del racconto e quindi, attraverso il racconto, dell’organicità della fiaba, soprattutto per quanto concerne la durata del tempo, che è contraria alla frammentarietà che viviamo. Io non voglio informare sul vuoto e sul nulla, non voglio informare su chissà che cosa del Giappone, non ci sono indicazioni didascaliche, è tutto aperto. Ciò che voglio è cercare un linguaggio che non abbia un punto ma che sia una linea; per questo lo spettacolo non finisce.
Tra l’inizio e la fine dello spettacolo avviene un cambiamento, una sorta di prova di democrazia, un “luogo politico”. Per questo è importante il “metodo errante”: incontrare gli attori, i genitori gli insegnanti; la comunità diventa riconoscente e riconoscibile, lì mi pongo un problema di utilità. Prendiamo coscienza di quello che entra nell’essenza della relazione. Alla fine de La terra dei lombrichi, quando i bambini fanno la merenda, tanti adulti in quel momento piangono. Perché all’inizio i bambini arrivano sono tutti briosi e poi alla fine, quando hanno portato fiori dall’Ade, e hanno lasciato nell’Ade solo il “Lombricone”, portano su in qualche modo Alcesti. E anche il loro compagno che va con la morte nell’Ade, è lui che sceglie di andare.
Una volta una bambina brasiliana incominciò a piangere moltissimo perché la sua amica era andata con la Morte. Io mi sono avvicinata e ho detto: «Dove siamo? In teatro, stiamo giocando». E lei ha risposto: «Sì, ma è così finto che sembra vero». È quello che cerco anche io. Vedersi piangere stando dentro, questo io chiedo al teatro: essere adulti e chiedersi perché qualcosa ci abbia fatto piangere.
Per parlare di infanzia bisogna parlare di musica, cioè dello statuto della musica, della sua invisibilità. Faccio lo spettacolo, ma al contempo sono lo spettacolo. Per questo adesso con Tuffo – che è l’ultimo percorso che presenterò al festival Puerilia a Cesena – entrano solo venti bambini e gli adulti sono esclusi. I bambini escono con la promessa che nell’arco di una settimana “tufferanno” nel mondo una delle azioni fatte durante l’ora e mezza in cui siamo stati insieme. Il teatro irrompe nella realtà, però io accompagno la descrizione di Tuffo con l’immagine di Paestum del Tuffatore e si sa che quel tuffo è nel mondo dei morti. È così il rito, è fatto a strati.

Hai detto che hai bisogno dei bambini per parlare agli adulti. In Fiabe Giapponesi tu stessa, in qualche modo, impieghi i bambini per raggiungere gli adulti in sala, ai quali proprio ti rivolgevi. Qual è dunque il tuo referente? In che modo tutto ciò sposta la questione del destinatario?

Trasferiamoci nella scuola. Io devo insegnare a te Napoleone. Io ti fornisco degli input su Napoleone e tu insegni a me Napoleone. Vuol dire che l’insegnante non dovrebbe appoggiarsi alle tipologie, ai metodi tipici, ma l’allievo dovrebbe venire in soccorso alla sua impossibilità di dire tutto a proposito di Napoleone. Questo creerebbe una situazione dello “stare tra” e non comunicare “da… a”; significherebbe stare in quel mezzo, in quella possibilità. Anche se non si dice niente di comprensibile, resta una traccia di senso. Ma la scuola pota le tracce di senso: per esempio, le macchie nel quaderno non si fanno, ma ci sono alcune macchie che sono stupende. «Il chiasso è l’opposto del silenzio»; già la Montessori aveva detto che il silenzio è a sé e che il chiasso è un’altra cosa. Ti trovi a fare una domanda perché interroghi una persona; in realtà dovresti interrogare te stesso, perché se tu aspetti quello che già ti chiedi allora che interrogazione è? Perché è tutto inserito in una prospettiva mercantilistica.

Nella situazione che crei all’inizio nelle Fiabe Giapponesi, scegliendo i bambini e facendoli salire sul palco, attraverso i corpi dei bambini sulla scena è come se creassi un contesto che sembra essere quello adatto e necessario al discorso che intendi portare. Senza poi arrivare a definire una posizione esistenziale o filosofica di vuoto, assenza o volere/non volere. Tramite la presenza dei bambini sia in platea che sul palco, è come se si creasse un contesto per il linguaggio che presenti.

Se lo spettacolo fosse fatto solo da me, semplicemente non potrei mai farlo. Come farei, alla mia età, a metter su un costume di fronte a bambini che sanno giocare meglio di me? Per questo, secondo me, non si può fare uno spettacolo per bambini sotto ai sei anni. È impossibile perché hanno la magia dell’intuizione del gioco. Un bimbo di quattro anni lo intrattieni con le luci, dicendo «la mela è rossa…» – sto esagerando, ovviamente – ma dov’è la scoperta del teatro? Il primo teatro che fanno accade quando si nascondono dietro la spalla della madre e fanno “cucù”, è quello! E avviene quando la vicinanza adulto-bambino è molto stretta. Quando incomincia ad allentarsi, allora è necessaria la relazione del teatro. Io vado a inserirmi tra le due note – adulto e bambino – per poter creare una relazione, perché ai bambini l’arte non interessa, ai bambini interessa giocare, mangiare un gelato. Questo è un tuo problema adulto, perché tu vuoi dar loro un’altra possibilità di mondo, di immaginario, di scarto, di differenza, di attrito rispetto alla realtà delle cose e alla débacle che viviamo. Però questi bambini, laddove si innamorano, portano il fuoco del racconto, sono loro il racconto: il tuo racconto di Cappuccetto Rosso vive del fuoco negli occhi di chi ti ascolta. Quando portammo Buchettino in Giappone, dissi all’attrice giapponese di andare nelle scuole a raccontare la favola, dal momento che non sapevo quale livello di relazione avessero con la fiaba, infatti in Oriente i bambini non giocano più: non c’è più il gioco mimetico, che a dire il vero si è perso molto anche da noi. Infatti in un prossimo spettacolo vorrei svuotare la Sala Bianca del Teatro Comandini e mettere in scena una lotta tra cowboy e indiani, escludendo gli adulti perché siano i bambini poi a trasferire questa energia del gioco nella realtà. Un gioco sottile, perché dentro portano un’idea di morte, di presenza.

Un po’ come il vuoto e il “non volere” delle Fiabe Giapponesi, dove la domanda di fondo sta attorno alla possibilità di comprendere l’identità fra volere e non volere…

In Fiabe Giapponesi io ci sono, ma potrei non esserci e quando non ci sono, che forma ha il mio vuoto? Se provassi a rispondere direi cose molto intellettuali. C’è una frase che ricorre nello spettacolo: «La forma è il vuoto e il vuoto è la forma». In un’occasione un bimbo ha detto: «Il nulla è il deserto senza sabbia». Altrove un altro ha detto qualcosa di incredibile, quasi come se fosse Georges Didi-Huberman a parlare: «Il nulla è proprio nulla e su questo non c’è da discutere. Il vuoto, se scavi, in fondo qualcosa trovi». Che è esattamente la nostra visione di arte: non è la superficie… oppure sì, è quella superficie che si lascia vedere, non è qualcosa di trascendentale.
Qui secondo me si rivela la spiritualità del bambino, che non è infangata da una new age di elementi, è profonda, qualcosa che ti connette al tuo sacco nella pancia della mamma, a tutta la vita. Una bambina si avvicina alla nonna e dice: «Sai, ho alzato la mano per andare nella Terra dei Lombrichi con la morte». E la nonna me lo dice perché la mamma di quella bambina è in ospedale per un cancro alla testa. In Australia entrano gli spettatori, un vecchio distribuisce a tutti i bimbi tre fagioli, quindi entrano tutti con una mano chiusa a pugno: questo è un segno molto forte. Un bimbo è tornato indietro perché un altro era a metà della fila.
Come ci credono è incredibile… possono veramente diventare dei mostri. Non c’è niente di grazioso nei bambini, sono terribili, sono grandi antichi, però non bisogna aver paura di loro. O meglio: non bisogna aver paura delle nostre paure di fronte a loro, il problema è questo. Io sono dentro questi discorsi perché sto cercando di scrivere questo libro per l’editore Sossella, insieme a Lucia Amara, Teatro Infantile. Ho impostato il libro in modo tale che il mio scritto riguardi l’arte del teatro, la tecnica del teatro che porta a un teatro infantile. Non è quindi l’arte del teatro rivolta ai bambini, ma il teatro come poetica – tempo, spazio, azione – di fronte allo spettatore per eccellenza, che è un bambino. Rispetto a un bambino ho bisogno degli adulti: quindi l’infanzia potrebbe essere anche una categoria del pensiero. Non vedi più le cose escludendole, ma – per esperienza – le poni talmente dentro tale categoria che sopraggiunge il coraggio di individuare per la stessa cosa due diversi nomi. Il coraggio di spostarsi su diversi punti di vista, quello che affermava Florenskij: «Muovetevi, guardate una cosa da più punti di vista». Superiamo l’angoscia del dover fare qualcosa con un preciso obiettivo: «Devo fare questo!». Se mi dicono che mi producono uno spettacolo io rispondo: «No, prima faccio una prova, poi la vieni a vedere e decidi».

Siamo spesso portati a idealizzare l’infanzia come possibilità di recuperare una condizione più originaria, più pura. Ci pare che a una tale visione idealizzata ponga la paura come contrappeso: questo spettatore bambino fa paura. Se noi abitiamo quello stato ci facciamo paura…

È anche una questione molto pratica: Buchettino può saltare se i bambini fanno troppo chiasso e cominciano a prendersi a cuscinate, c’è un rischio effettivo. Oppure se cerchi di creare l’atmosfera delle fiabe e i bambini parlano… anche nelle replica di oggi a volte sembrava che non si riuscisse ad “afferrare la favola”, per cui ascoltavo i bambini e riprendevo le loro parole, le ripetevo in modo che ritrovassero l’attenzione. È strano, io sto raccogliendo molti esempi su questo. Le stesse fiabe fatte a Lubiana, in una stanza a quattro pareti, rappresentava un’altra difficoltà.  In quel caso il pubblico bambino entrava, separava i fagioli che erano a terra e ci ritrovavamo tutti seduti sullo stesso grande tatami, anche gli adulti, mentre tutte e quattro le pareti attorno, dietro cui si vedevano le figure  illuminate, continuamente in continuazione. Spesso sono uscita da questi spettacoli con le insegnanti arrabbiate, perché i bambini non alzavano mai la testa e quindi, secondo loro, non vedevano lo spettacolo. E invece i bambini erano attentissimi, perché quando c’era l’apice della favola, si fermavano per alzare la testa e seguire. E allora ho risposto a quelle insegnanti: «Secondo voi quelle stesse immagini non le vedevano tra i fagioli?». Perché dobbiamo guardare tutti lì? Per l’utilità? Perché sennò si disperde? Che cos’è l’utilità? Che cos’è la perdita? Quindi è strano questo pubblico, perché è un pubblico bambino: anche io idealizzo l’infanzia, ma allo stesso tempo so che è terribile. Non sai quante volte l’ho detestata. Una volta in Buchettino a Bari avevano raggiunto un tale livello di confusione che dovevo mollare. Io non posso richiamare al silenzio: sono un’attrice, non posso fare la maestra. Stavo dicendo: «Va bene, ci fermiamo qui, non c’è possibilità di fare lo spettacolo». L’attore di fronte a un bambino non può limitarsi a fare la propria parte, pretendendo che il bambino ascolti, deve continuamente raccogliere e stabilire una relazione. Lo stesso movimento che fa la voce con le parole: sono andata giù, vado su, sono andata di qua, vado di là. È un grande movimento, una grande erranza. A un certo punto, cercando di inventare qualcosa, mi sono messa in piedi e ho cominciato a girare su me stessa come una trottola, un movimento assurdo: si sono zittiti tutti. Da quel momento ho detto: «Quando alzo un dito fate chiasso, quando lo abbasso fate silenzio», perché loro avevano bisogno di fare chiasso. Quindi è una difficoltà in atto, che credo che gli insegnanti affrontino quotidianamente. È chiesto tanto a un insegnante, per questo il teatro è interessante per la scuola, perché tra scuola e teatro non c’è grande differenza nel tipo di relazione. Si può dire che il teatro è una finzione, la scuola no, anche se in realtà in qualche modo finge anche la scuola, perché l’insegnante non è se stessa quando insegna: ha una distanza, una postura, un comportamento. Quindi questa idea di finzione, di inganno, di artificio è interessante.

È interessante questo pregiudizio per cui i bambini che non si concentrerebbero mentre cercano i fagioli: ci sembra invece che sia proprio il principio della narrazione, si è sempre narrato facendo qualcos’altro…

Esatto, è proprio questo che accade. E poi non si trattava di storie raccontate ai bambini, quelli si addormentavano. Le fiabe erano per gli adulti, come fece Tolstoj quando raccolse nelle sue Storie anche i racconti di animali, oltre alle favole di Esopo che raccoglieva dalla bocca delle persone. Nella narrazione c’è un desiderio di conoscenza, di precisione, quasi matematica. La parola dice questo: desiderio di apprendere. Comenio, che fu il primo pedagogista, parlava proprio di “matesi” e “matetica”, questa capacità di dire l’invisibile attraverso il visibile. Sto lavorando molto su questo, come i disegni astratti del libro sulla voce. Sono grafici che apparentemente non dicono niente e invece contengono tutto. Sono segni che non capisci e invece sono fondamentali. C’è un musicista che ha fatto una cosa analoga, Neuhaus: ha esposto dei disegni che sono, visivamente, il suono che lui ha prodotto ma che non ha potuto registrare perché in condizioni estreme. Sono dipinti che, mentre guardi, ti fanno sentire la musica. Allo stesso modo se tu guardi il bambino, gli parli ma senti la musica, il suono che produce, la vibrazione. C’è un libro di Carla Melazzini (progetto Chance dei Maestri di Strada di Napoli) che parla di questo e che mi sta tornando molto utile, Insegnare al Principe di Danimarca. Si parla di una difficoltà oggettiva: bambini di terza media che devono recuperare un anno di scuola per il diploma e vanno dunque motivati, si devono cioè innamorare della relazione. È una difficoltà vera nei quartieri più malfamati di Napoli. È importante chiedersi perché dobbiamo portare a teatro i bambini? Che cosa voglio dire loro? Li vuoi spaventare? No. Farli felici? Nemmeno, non ho nessun potere. In queste fiabe non c’è un lieto fine, ma nel percorso – sempre in avanti – “povero, ricco, povero” c’è la filosofia zen, quella filosofia orientale di cui l’Occidente è stato impregnato, ma che ora sta perdendo. Un sentire e una conoscenza popolari che sono però stati esclusi dal nostro orizzonte. John Cage attingeva molto da lì. Perché il silenzio è musica? Perché c’è stato Cage, ma perché non è popolare questa cosa? Perché il rumore è musica? Perché non è popolare? Perché c’è un’isteria che dice che il rumore dà fastidio. Come si può andare davanti a un bambino e scimmiottare l’infanzia? Bisogna abbattere la tradizione. Questa è la nostra storia, sono le nostre ossa, sono i nostri muscoli del pensiero.

a cura di Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto




Un festival per spettatori dionisiaci. Conversazione con Renzo Boldrini

In vista dell’appuntamento di Castelfiorentino col festival “Teatro fra le generazioni” (dal 21 al 23 marzo) di Giallo Mare Minimal Teatro, abbiamo dialogato con il direttore artistico Renzo Boldrini. Ne è nata una lunga conversazione in cui, oltre a presentare gli spettacoli che andranno in scena, ci siamo soffermati sui nodi concettuali che possono definire il “teatro-ragazzi” oggi, su quali siano le criticità da affrontare con più urgenze e quali le possibile linee d’azione da darsi per il futuro.

Il programma del festival ci sembra molto variegato e polifonico. Ci sono dei criteri che ti hanno guidato nella scelta degli spettacoli?

Personalmente io considero il teatro per ragazzi (usando una vecchia e forse consumata terminologia) una forma artistica. Dico questo perché, in quarant’anni di dibattito culturale, mi è capitato di ascoltare affermazioni che andavano in opposizione a tale elementare principio. È un teatro che evidentemente ha un “per” all’interno della propria vocazione: significa che, in qualche maniera, cerca di essere inclusivo nei confronti di una parte di pubblico spesso dimenticata, come – per fare un esempio classico – uno spettacolo che si rivolge a bambini dai 3 anni. Il festival si chiama Teatro fra le generazioni perché, per una forma artistica che si propone di includere nella propria platea anche uno spettatore così giovane, occorre considerare un lavoro che permetta di non trasformare quel “per” in uno steccato, un recinto, ma piuttosto pensi a un’azione che, pur includendo anche uno spettatore così fragile e debole e che di per sé non pensa minimamente al dibattito artistico-culturale, abbia la capacità di parlare in maniera più larga possibile anche al resto della platea. Parlo di tutto quel teatro che si rivolge ai ragazzi e ai bambini ma che non si svolge in un ambito scolastico, bensì nel weekend e in serale: qui si raccoglie ovviamente una platea veramente intergenerazionale.
Permettetemi una divagazione: Orlando Furioso di Ronconi, Mistero Buffo, lo spettacolo sulla rivoluzione francese della Mnouchkine al Théâtre du Soleil, Le sette meditazioni sul sadomasochismo politico del Living Theater, Scaramouche di Leo, Nemico di classe di Elfo-Salvatores, A. come Agatha  di Thierry Salmon … sono esempi di un teatro fortemente innovativo e identitario. Si tratta di maestri. Eppure per me una caratura simile ce l’avevano anche  Genesi e Il richiamo della foresta delle Briciole, Orlando furioso del Teatro Gioco Vita, La fattoria degli animali del Teatro del Sole di Carlo Formigoni (per citarne alcuni). Si tratta di esperienze fortemente differenziate che sono coscienti della propria forza di dialogo con una fetta di mondo precisa ma che in maniera rivoluzionaria o in maniera, se volete, meno provocatoria, fanno della propria qualità un’azione di allargamento del pubblico.
Essendo i bambini dei soggetti non autonomi socialmente né a livello economico, parliamo pur sempre di uno spettatore mediato. Quindi la programmazione tenta di affermare un’idea di teatro che non solo non sia una forma chiusa artisticamente ma che – proprio per quelle prerogative elencate prima – è necessariamente una forma di sperimentazione teatrale.
Gli artisti che sono chiamati all’interno di questa programmazione non sono frutto di un bando ma di una selezione diretta, per quanto possibile. Non ci dimentichiamo che questo festival si svolge in una periferia provinciale della Toscana, per quanto ospitale e bella; è chiaro dunque che possiamo giocare su alcune disponibilità e non su altre, perché non è certo l’unico festival che si occupa di questa vasta area che, per comodità, chiamiamo teatro per le nuove generazioni. Tutti questi “se” logistici e organizzativi sono dati da un’eccessiva concorrenzialità e derivati dal tentativo di non presentare lavori che hanno già avuto una circolazione importante. Questo non tanto in cerca di qualche “piuma d’oro”, piuttosto per garantirsi il maggior numero di operatori, che giustifica anche l’esistenza stessa di un festival fatto sì per la comunità locale, ma anche e soprattutto per gli osservatori e gli operatori che lavorano in questo segmento di sistema.

Hai parlato dello spettatore bambino come di uno spettatore “fragile”. In cosa consiste tale fragilità?

Spettatore “fragile” o “primitivo” (come dicevo l’anno scorso) non vuol dire in alcun modo “spettatore ridotto”. Piuttosto uno “spettatore dionisiaco”, carico di una propria ebbrezza iper-emozionale, che non ha mediazioni culturali, che non fa sconti e che quindi quasi in maniera automatica avrebbe bisogno di essere sollecitato, intrattenuto (prerogativa che spesso viene utilizzata in maniera equivoca).
Il teatro è un formidabile strumento di educazione, se per educazione si intende la possibilità di frequentare un luogo dove “sperimenti te stesso” in una comunità temporanea che dura 50-60 minuti. Parlo in termini di visione e in termini di attività diretta, che può essere fatta in mille maniere. Per un’ora, cinquanta minuti o settanta minuti bambini o ragazzi, che hanno una curva d’ascolto legata alla velocità di un tweet e che magari non si conoscono fra di loro, stanno (o dovrebbero stare) in una dimensione d’ascolto. Ecco che quell’esperienza, quando non si trasforma in una bolgia (come a volte accade, sia chiaro…), diventa un fatto educativo straordinario che è contemporaneamente educativo e dionisiaco perché questo pubblico è senza pietà nella sua ebbrezza, è iper-emozionale, non ha pazienza. In questo senso è “orgiastico”. Anche per questo credo che sia fondamentale trovare buone pratiche che rimettano in relazione alcuni nodi fondamentali, come il rapporto tra teatro e scuola.

Amletino di Kanterstrasse

Ecco, che tipo di “mediazioni” sono necessarie quando ci si pone come referenti del proprio processo creativo i giovani e i giovanissimi ?

Partiamo da un mediatore importante, che è l’osservatore critico. Ci sono stati, negli ultimi cinque anni, due scandali teatrali: uno legato alla produzione della Socìetas Sul concetto di volto nel figlio di Dio; l’altro a Fa’afafine di Giuliano Scarpinato. Quasi nessuno poi è entrato nel merito del secondo scandalo, segnalato anche con maggiore forza dalla stampa, ma non dalla stampa che si occupa in maniera specifica di teatro. È evidentemente qualcosa di importante, innanzitutto, per il teatro stesso, ancora prima dello spettatore che in quel momento specifico è chiamato in causa. Quindi c’è sempre bisogno di una mediazione specifica. Per fare cosa? E così si ritorna al problema iniziale: che cos’è il teatro ragazzi?
Proviamo da un altro punto di vista. C’è un dato singolare: il teatro ragazzi esiste, non da ultimo anche a livello istituzionale: esistono centri di produzione finanziati, che hanno come attività prioritaria questo tipo di range produttivo; c’è almeno un Tric – penso al Kismet di Bari – che ha nel suo Dna un percorso più o meno preciso rispetto a questo ambito. Esiste poi un hardware istituzionale e finanziario. È tanto tempo che non c’è un “libro bianco”, una ricerca documentata su quanti spettatori coinvolgano davvero tutte le forme riconducibili a quest’area, ma si parla di milioni di spettatori. Tuttavia è un pubblico invisibile, un teatro che ha una visibilità e un “senso culturale” molto bassi. Si delinea dunque una contraddizione: questo “corpo” invisibile – o visibile solo da qualche buco della serratura, da chi sta dentro la stanza – è un primo problema, denota un’assenza di comunicazione. Forse perché manca anche una mediazione di carattere storiografico, universitario, manca una saggistica. Però guardando il lato positivo, significa che c’è una prateria da poter esplorare e riempire.
Dentro questo concetto di invisibilità c’è forse un’altra possibilità, quella della riflessione su che cosa siano alcune forme, legate ai termini di inclusività ed esclusività. Esclusività è un termine di cui io, come operatore, studente e militante del 1977, ho cercato di sviluppare nella mia azione culturale di tutta una vita, pensando che la semina in nuovi campi ristretti e isolati potesse dar vita a una prateria di senso sul fare teatrale e artistico. Penso però che adesso occorrano strategia e tattica diverse. Trovo dunque singolare che un teatro che esiste, per quanto invisibile, che ha nella propria identità proprio un’idea di inclusività nel porre – al di là della qualità – una domanda su quanto sia larga l’azione del teatro pubblico, la funzione delle politiche culturali che riguardano l’uguaglianza, la cittadinanza di tutti dagli 0 ai 90 anni, si trovi poi di fronte una totale invisibilità per quanto riguarda la fascia 0-15.

Non è che il teatro “per” ragazzi è una forma che ha in sé una caratteristica di esclusività? Proprio perché ha un preciso referente…

Quel “per” riguarda sì il teatro ragazzi in termini meramente anagrafici, ma sostanzialmente riguarda tutto il teatro. Qualunque forma teatrale – dal coturno fino alla sperimentazione più recente– è sempre un teatro “per” qualcuno in termini politici e sociali. Per una comunità, per un potere, per contrastarlo, per blandirlo magari, ma è “per” qualcuno. L’idea di una “opera omnia” non esiste, è una vocazione che magari gli artisti si pongono come orizzonte, ma la storia ci racconta altro. Quindi perché è fragile il teatro ragazzi? Solo perché è “per” qualcuno? Allora si tratta di un problema di tutto il teatro.
Rispetto alla cittadinanza artistica, come si fa a non considerare strategica la zona sociale che guarda il teatro e che riguarda gli 0-15? O forse c’è un pregiudizio culturale e artistico, a volte anche fondato. Io dico questo: mi sforzo di pensare al teatro ragazzi più per la funzione che potrebbe avere che per quella che ha, soprattutto in un momento in cui il teatro annaspa, è sempre più chiuso in trincee confuse, dove il problema “a chi parla?” mi sembra fondamentale ovunque.
Tornando alla domanda precedente, in questo senso la scuola è una mediazione fondamentale. È stata considerata, fino a ieri, un luogo di “deportazione teatrale”, dove si organizzavano masse imbelli di bambini in gita. Spesso può accadere questo, accade anche nelle matinée degli stabili di prosa. Il problema, insisto, è rileggere il problema di inclusività ed esclusività, fare in modo che quel “per” diventi un “per tutti”, in modo che abbia un valore anche politico. Perché se continua a essere per qualcuno di fragile, allora diventa meno interessante, non è un oggetto di analisi e di studio perché è più fragile politicamente, questa è la chiave. All’interno di quel panorama, si mantiene un corpo vivo ma invisibile e non alimentato. Se leggiamo oggi così la scuola, diventa un campo di battaglia necessario, formidabile, perché nella nostra società ormai da anni c’è un problema di dispersione scolastica, c’è un’ignoranza diffusa che non è più solo un problema educativo ma diventa addirittura motivo d’orgoglio. Come si pone il “teatro di senso” rispetto a questo?

Fiabe Giapponesi di Chiara Guidi (ph:N.Gialain)

Provando sempre a ragionare sulla dialettica fra inclusività ed esclusività, da una parte c’è la divisione degli spettacoli in fasce d’età, dall’altra la questione del “tout public”…

Il teatro ragazzi abbraccia un’estensione anagrafica che va dagli 0 ai 18 anni. Credo che in questa fascia ci siano un’infinità di mondi, quindi l’idea di lavorare su immaginari e competenze che partano in maniera inclusiva da un’età specifica continua a non essere sbagliata. Quello che secondo me è meno utile è immaginare questa operazione come un “taglia e cuci” preventivo (una sorta di “mettere le mani avanti” da parte dell’artista). Anche perché questo ha permesso, in quel contesto di invisibilità di cui parlavo prima, che si creassero processi artistici degenerativi e di scarso interesse, che usano la “specializzazione anagrafica” come un modo per darsi artisticamente alla macchia.
Mi viene in mente il libretto di Eugenio Barba, La corsa dei contrari, perché credo di innestarmi, con il festival Teatro fra le generazioni, in un processo apparentemente dicotomico. Quel “fra” indica evidentemente la volontà di avere sì un’idea di dedica particolare, che garantisca anche una certa “fragilità” dello spettatore bambino (che è indifeso ma proprio per questo meravigliosamente dionisiaco, come dicevo), ma allo stesso tempo tentare di avere una forza artistica che riesce a parlare con un pubblico di “ragazzi da 0 a 120 anni di età”. Credo che stia qui lo sforzo e l’orizzonte della parte migliore di tale area creativa, ma di tutto il teatro in generale, pur mantenendo uno sguardo chiaro e forte, quasi politico, sui propri referenti (quando scegli un autore e una strategia semantica sulla scena in termini compositivi, è inevitabile che tu stia pensando a qualcuno in particolare). Ecco quindi che l’orizzonte del tout poublic diviene cruciale.
È però vero che in Francia un percorso di questo tipo si riesce a praticare in maniera meno contraddittoria. Esistono centri drammaturgici per l’infanzia di primissima importanza, anche se negli ultimi anni si sono un po’ “appannati”: penso a cosa ha rappresentato negli anni ’80 e ’90 e 2000 la Biennale du Théâtre Jeunes Publics  a Lione, che peraltro è stato per anni diretta da un italiano. Si tratta di un contesto che consente anche dei modelli produttivi e distributivi che permettono di perseguire la scommessa del tout public con maggiore chiarezza. Quindi, io sono chiaramente per un teatro che provi a giocare una partita che sia più larga possibile. Questo però sta soprattutto nella forza artistica, da una parte, e nel modello che sostiene tale forza, dall’altra.
La questione è soprattutto italiana. Siamo un paese che investe moltissimo in politiche culturali e sociali di recupero del disagio e pochissimo nella costruzione (investimento) del futuro. In Francia, o Germania, Nord-Europa, nella cultura anglosassone c’è un’attenzione diversa, pensiamo solo ai musei ma c’è anche una diversa considerazione sociale del soggetto “infanzia” e del soggetto “adolescenza”. È una questione soprattutto politica. Cosa che – sia chiaro – non esime in alcun modo gli artisti dal fare bene il proprio mestiere.

Come si può concepire un ruolo di “guida” da parte degli adulti che stia davvero fra le generazioni e non semplicemente “sopra” la generazione precedente? Lo chiediamo pensando al tuo compito da direttore artistico…

La domanda che ponete è, permettetemi, “drammatica” perché mette in luce che qualcosa non va, non funziona, il segno di un dialogo che si è interrotto.
Dal punto di vista della direzione artistica, per quel piccolo festival che è Teatro fra le generazioni, la risposta sta nel tentativo di guardare a percorsi teatrali squisitamente “apocalittici”, come può essere quello di Chiara Guidi la cui pratica artistica ha una forza che riesce a spingere teorie e ragionamenti più in là, garantendo però una pluralità. Ci sono proposte anche “fragili” che però sono fatte da realtà molto giovani, cui va dato lo spazio rischiando e mettendo in moto meccanismi di relazione che possano garantire una crescita. Nei prossimi mesi lavorerò con i Sacchi di Sabbia per una produzione che vedrà la luce fra un anno: è un tentativo di mettere in moto chi ha avuto una vocazione con chi magari frequenta questo terreno in maniera più occasionale, per mettere in moto un confronto almeno fra generazioni di artisti.
Ritorno al concetto di inclusività ed esclusività. Sono molto critico sul concetto di esclusività, almeno in senso tattico e in questo periodo storico: “fare fronte” nei monasteri serve se c’è la peste, ma direi che ora molto si può fare fuori dai monasteri. Un altro esempio in tale direzione: la Piccionaia, centro di produzione teatrale che storicamente ha una vocazione prioritaria di teatro per ragazzi, in questi giorni ha annunciato che allargherà la propria direzione artistica ai Babilonia. I Babilonia hanno inoltre firmato insieme a Presotto la produzione Un lupo nella pancia, si sono occupati dal loro punto di vista di cosa possa essere un pensiero legato all’infanzia e ora sono associati alla direzione artistica del centro. Lo trovo un fatto positivo, intanto è un fra generazioni teatrali e fra generazioni di immaginario e visionarietà molto diverse. Al contrario sento tutta la sconfitta del fatto che le generazioni molto spesso non si domandano neanche “cos’è il teatro?” Su questo vorrei anche dire che il teatro delle nuove generazioni lavora sul presente, non è un investimento sul futuro. Se fai un lavoro serio che appartiene all’emotività e alle domande che ragazzi e bambini hanno rispetto a uno spazio teatrale, il teatro lo colpirà ancor prima che come linguaggio proprio come luogo. A che serve quell’oggetto, costruito in quel modo? Ricordo trent’anni fa un bambino di tre anni al teatro all’italiana di Santa Croce, mentre tra l’altro Thierry Salmon presentava A come Agatha che fu prodotto e realizzato lì. Il bambino alzò gli occhi e vedendo tutti i palchetti, mi domandò: “Ma chi ci sta lì dentro?”. Pensava fossero appartamenti e terrazzi. Lo dico non per suscitare simpatia o naivetè ma per chiedermi: quando ci si deve accorgere che nella polis esiste un luogo teatrale? E che funzione svolge rispetto alla comunità? Dunque, c’è un problema da questo punto di vista e io credo che possiamo provare a ovviarvi con le parole d’ordine che menzionavamo in precedenza: attivare mediazioni, lavorare sull’educazione alla visione. Andrebbe portato avanti tutto un lavoro di indagine sugli immaginari: è chiaro che un bambino che aveva otto anni nel 1988 ha poco a che vedere, in termini di immaginario più urgente, con un bambino del 2018. Sono tempi, curve, pensieri diversi. Nella storia stessa della letteratura, dell’arte, le fiabe non nascono mica per i bambini. Le fiabe sono un prodotto nato per la giovane aristocrazia, per la borghesia nascente, per le fanciulle… poi quel materiale slitta e viene – ahimè – reinterpretato diventando materiale per bambini. Ma si tratta di un pregiudizio, così come è un pregiudizio – tutto italiano – per cui chi usa le figure in scena sta facendo arte per bambini. Solamente un osservatore attento sa che, per esempio, il lavoro di Mimmo Cuticchio va in altra direzione.
Quindi sì, c’è una grande sconfitta ma che possiamo fare se non aggiustare briciole di senso e provare a ridare un’organicità al discorso e ai pensieri, cosa possibile però solo nella misura in cui c’è la volontà di riconoscere un senso e una funzione del teatro ragazzi. Io, nel mio piccolo anzi piccolissimo, mi sforzo appunto di ribadire che il teatro non è la caverna platonica in cui sta rinchiuso un prigioniero ma al contrario, per la sua fisicità e anche per le sue caratteristiche materiali, il teatro può essere il luogo per la ricomposizione di fratture, non da ultimo generazionali.

a cura di Francesco Brusa, Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto