Al festival di Maggio all’Infanzia Flavio Albanese era in scena con Canto la storia dell’astuto Ulisse (una produzione Piccolo Teatro, Teatro Gioco-Vita e Compagnia del Sole). Il viaggio e le gesta dell’eroe greco vengono presentati ai bambini con un approccio che è allo stesso tempo dialogico, teso a coinvolgere il pubblico con una serie di domande, e immersivo, grazie anche alle ombre del maestro Lele Luzzati.
Abbiamo chiacchierato con l’attore, provando a capire da quali domande e da quali percorsi arriva la sua peculiare presenza scenica e chiedendoci in che modo teatro, mito e conoscenza vadano a formare un tutt’uno inscindibile
Cosa ti spinge a occuparti di teatro ragazzi e qual è il tuo punto di partenza per orientarti nella relazione con questo tipo di pubblico?
Sono arrivato al teatro ragazzi per caso. Porto avanti ricerche legate ai temi che mi affascinano e incuriosiscono fin da ragazzo, fin da bambino addirittura, e verso i quali sento l’esigenza di approfondire. Questo è il punto di partenza. Ho sempre condiviso il mio percorso artistico con Marinella Anaclerio, e lei ha fatto altrettanto con me, forse è anche la mia compagna di vita da così tanto tempo proprio perché con lei metto in comune dubbi, domande, incertezze che alimentano le nostre ricerche generando i nostri spettacoli e animando ogni nostro progetto, senza trovare mai una parola definitiva, perché l’unica cosa che ci sembra chiara è che nulla di quello che fai può essere completamente certo e risolto.
Quando ho affrontato per la prima volta i dialoghi platonici studiando con un maestro russo molto vicino al lavoro di Vasil’ev, sono rimasto colpito da come l’immortalità dell’anima venisse dimostrata attraverso un processo geometrico-matematico assolutamente razionale e potesse essere compresa da chiunque, anche da una bambino. Ho sentito che avrei potuto proporre questi stessi dialoghi filosofici proprio a quei ragazzi che normalmente non amano la filosofia e la matematica, suscitando in loro un certo divertimento e dimostrando attraverso il teatro quanta meraviglia possa esserci nella ricerca di “come ottenere il doppio di una superficie di un quadrato con il lato di due piedi”. Ho capito che da questo punto di vista, il cosiddetto “teatro ragazzi” possiede straordinarie potenzialità.
Cosa ha guidato la tua scelta di mettere in scena la storia di Ulisse?
Il mito mi affascina molto, lo considero “l’hard-disk” della conoscenza più profonda che l’uomo aveva accumulato prima dell’invenzione della scrittura. Era una conoscenza fatta di cose visibili e invisibili che convivono senza pregiudizio e solo nel mito; l’uomo ha trovato uno spazio possibile per far convivere come in una formula magica il visibile e l’invisibile. Infatti l’essere umano è composto da una parte visibile e una invisibile.
I bambini capiscono e accettano più facilmente degli adulti i miti perché assomigliano formalmente alle fiabe e alle favole (anche se le favole sono essenzialmente diverse). La psicanalisi si è soffermata a lungo sul mito perché ha intuito che lì c’è qualcosa che si ancora fortemente nel profondo dell’essere umano, e ci sono tantissimi legami anche con la scienza: infatti la prima cosa che spiego ai ragazzi alla fine di ogni spettacolo, quando ci fermiamo a parlare e riflettere, è che i miti aiutano gli scienziati a realizzare nuove scoperte così come le favole aiutano i bambini a scoprire il mondo.
Ci sono intuizioni straordinarie, per esempio: all’inizio c’era il caos, poi Gea e Urano che generano l’infinito (tutte le cose visibili e invisibili) ma tutte queste cose non hanno spazio per venire fuori; si manifestano solo quando Gea e Urano si dividono nel momento in cui Crono, col falcetto, li separa; infatti in quel momento inizia il regno del Tempo e nasce lo spazio… È qualcosa di vicinissimo alla descrizione del Big Bang che tratteggia Hawking nel suo Dal Big Bang ai buchi neri, in cui parla di «lampadine che iniziano ad accendersi nell’universo» (un’immagine teatrale straordinaria!).
Ci sono fortissime connessioni fra il mito, la scienza e la spiritualità, soprattutto nel momento in cui la scienza inizia ad “annusare” la fisica quantistica e quando dall’idea di atomo si passa al concetto di “vibrazione”. Penso fortemente al Vangelo di Giovanni «in principio era il Verbo» dove
“Verbo” vuol dire proprio vibrazione, che in principio era presso Dio… che fossero i quanti?! Eh Eh Eh (rido perché non bisogna prendersi troppo sul serio).
Insomma voglio dire che quello che presento ai ragazzi è sempre associato a un percorso profondo di studio e di ricerca personale.
Lo spettacolo realizzato con Francesco Niccolini L’universo è un materasso, per esempio, è nato lavorando a stretto contatto con un docente universitario, Marco Giliberti, che verificava di volta in volta i contenuti scientifici del testo. Lo stesso titolo deriva da una sua spiegazione.
Dunque per me è molto importante trasmettere queste modalità di conoscenza alle nuove generazioni, soprattutto per stimolarli ad accendere processi di ricerca piuttosto che cercare risposte.
Infatti i tuoi spettacoli non sono divulgativi…
Il mio intento non è quello di divulgare – non sono un divulgatore – ma di trasmettere un processo di pensiero, che poi è lo stesso che utilizzo, per esempio, all’inizio dello spettacolo sull’Odissea. Voglio che i ragazzi comprendano che la difficoltà di tradurre un testo non è la ricerca delle parole esatte ma nella capacità di intercettare quella mentalità che ha dato origine a quelle parole.
Tornare a quella mentalità apre tantissimi “buchi”… neri … Significa cambiare il modo di pensare il mondo, prima di viverci. È lo stesso concetto per cui è importante pensare il teatro, prima di farlo.
Ho bisogno di tutto questo per “sentire” Ulisse dentro di me, per sentire appunto il desiderio di ricerca. Lavorare in questo modo mi sintonizza con la parte sconosciuta di ciò che mi circonda.
Che ruolo ha lo spazio scenico nella costruzione drammaturgica dei tuoi spettacoli?
In questo momento del mio percorso lo spazio scenico è uno spazio che comprende anche il pubblico. Una volta rimasi fulminato dalle parole di Paolo Rossi che mi disse: «Ricordati che gli attori non fanno teatro per il pubblico, ma con il pubblico». Ecco, il mio istinto teatrale va in questa direzione. La mia formazione è strehleriana con una forte influenza russa, per me esiste uno spazio unico in cui il pubblico è parte dello spettacolo. Si tratta, in fondo, di qualcosa di vicino anche alla commedia dell’arte.
Nel caso dello spettacolo su Ulisse ero coadiuvato in scena da un mezzo molto potente ed espressivo: le ombre di Luzzati. Le sue immagini sono molto più potenti della mia recitazione perché contengono quell’elemento irrazionale che inevitabilmente suscita grande fascinazione nel pubblico: “le cose invisibili sono molto più potenti di quelle visibili”. È dunque inevitabile che a un certo punto le ombre prendano il sopravvento. Allora piano piano mi sono fatto da parte, mostrando solo in qualche accenno la mia presenza e lasciando “libere” le ombre in scena.
Il tuo spettacolo è ricco di momenti esilaranti, ma è possibile utilizzare la comicità e il divertimento senza cadere nella trappola della risata facile?
Questa è la trappolona in cui rischia di cadere qualsiasi attore, perché si cerca sempre di ottenere il consenso del pubblico. Prima di mettere in scena uno spettacolo, come dicevo, mi preparo, studio tantissimo e tutto ciò che dico è frutto di ricerche, che spesso durano dei mesi, sostenute dal costante confronto con Marinella, prima di tutto, e poi amici e docenti universitari, filosofi e studiosi che si appassionano con me, mi accompagnano nel processo creativo. Quando maneggi molto bene una materia o un argomento, proprio come quando ti presenti ben preparato a un’interrogazione, diventi leggero, perché sei libero di parlare senza pensare e questa leggerezza a volte diventa commedia. Cerco di non pensare, penso tutto prima… ogni volta che penso di voler far ridere divento più pesante… ecco, forse il significato della parola “battuta”…va in battere… quella è farsa; la commedia va in “levare”… devo lavorarci, tento ancora…
È un po’ come il rischio di suonare Chopin, esibendo un atteggiamento romantico. No! È già Chopin stesso a essere romantico. Tu suona semplicemente le note così come sono! Similmente per Shakespeare: funziona se resti aderente al testo, sovrapporre il tuo pensiero spesso lo volgarizza, lo rende pesante e, a meno che tu non sia Carmelo Bene, quando reciti dei grandi autori, se cerchi di sovrapporti con il tuo pensiero, li banalizzi.
Penso che di fronte a dei “capolavori” sia necessario mettersi al loro servizio e “giocarci”.
Il “play”, il “jouer” nel senso di recitare indica proprio la distanza che l’attore frappone fra sé e il personaggio, e che gli consente, appunto, di giocare come un bambino e non scherzare come un adulto. Ed ecco che ci troviamo a fare i conti con la cosiddetta “misura”: sapere quando stai facendo “troppo” ed è una fortuna incontrare nel tuo percorso artistico qualcuno di cui ti fidi e che ti possa fare da specchio; ho infatti sempre bisogno di una figura che mi osservi dall’esterno. Francesco Niccolini, Marinella Anaclerio, Giovanni Soresi, mia madre a volte e qualche critico leale, sono le persone a cui mi affido e che mi ricordano quando il mio “ego attoriale” sta prevaricando gli obiettivi dello spettacolo. La misura a volte va ricordata con severità ma sempre con un amore per il teatro che va avanti… sempre…
In che modo si può affrontare il tema dell’amore, anche fisico, con il pubblico bambino?
Quando Penelope e Ulisse si rincontrano dopo vent’anni, gli dei con un incantesimo ridonano loro la giovinezza, lo stesso aspetto che avevano nel momento in cui si erano conosciuti per la prima volta. È un po’ questa l’essenza dell’amore, no? Dell’amore, non dell’innamoramento, che necessita della materia. L’amore è talmente immenso da farti ringiovanire. Non dimentichiamoci che il rincontrarsi di Ulisse e Penelope è preceduto anche da un riconoscersi. Nel momento in cui ci si riconosce, ecco che il tempo non esiste più, diventa circolare e ci si ritrova immersi in quella sorgente da cui nasce tutto, dal pianto al riso… Due anziani innamorati, che si prendono per mano, per strada, sono molto simili a due ragazzi.
Nel tuo spettacolo, insomma, emerge l’amore come forza che muove tutte le cose piuttosto che l’elemento erotico…
Amor che muove il sole e l’altre stelle!
Esistono due tipi di eros. Dopo Caos si manifestano Gea, Urano e Eros il primo Eros, ed è ciò che tiene unite le cose.
Quando ti innamori cerchi il contatto con l’altro, hai bisogno di stabilire una connessione profonda con le cose, vuoi unirti a tutto… e se questo aspetto tende a venir meno col tempo, la conseguenza è che si diventa più soli, tutto perde significato.
Platone nel Simposio dice che all’inizio si ricerca un altro corpo; poi cerchi tutti i corpi che ti piacciono, dopodiché ti accorgi che quello che stai cercando è in realtà la bellezza di quei corpi,
e col tempo ti rendi conto che la Bellezza è unica, per cui non cerchi più i corpi ma la Bellezza in sé e a poco a poco la tua ricerca della bellezza diventa ricerca dell’immortalità.
Prendi l’esempio di Sarah Kane, che in Italia ottenne il successo soprattutto per la scabrosità della sua scrittura, ma non sta lì il genio della Kane… Eros incarna l’entusiasmo, lo stupore, la curiosità per lo sconosciuto e quando scopri nuovi territori diventi più vasto perché devi comprenderli, ed essendo più vasto desideri ancora più cose… L’amore per le cose nasce dalla conoscenza che hai di esse… (Leonardo). Quando amore e conoscenza viaggiano insieme nasce il bello: questa è l’essenza dell’incontro fra Ulisse e Penelope. Perciò a quel punto compaiono gli Dei, rendendo la loro notte la “notte più bella che potesse essere mai sognata”. Per questo da una storia d’amore, che ti abbia ferito o meno, si esce sempre un po’ più “grandi”. E se hai il coraggio di andare fino in fondo, diventi più vasto. Anche quando per esempio ti ritrovi perso e disperato nella vita, devi adottare una prospettiva mitologica, altrimenti ti sembra tutto piccolo e senza senso.
Ecco, questo mi sembra il processo che sta alla base dei miei ultimi spettacoli. Si tratta sempre di vedere il macrocontesto in cui le storie sono comprese. Cerco l’archetipo che sta dietro le vicende e anche io come attore non cerco più solo un personaggio, ma la funzione di un tutto.
Capisci quindi perché Jung è andato a cercare nelle profondità dell’uomo servendosi del mito. Il mito spinge oltre il limite, aiuta a comprendere ciò che non si potrà mai conoscere con esattezza.
La scienza è un continuo progredire. Così la filosofia non è solo “sofia”, ma ricerca della conoscenza. Ecco se si prova a trattare questi processi senza utilizzare un codice mitologico ci si ritrova a parlare solo di sesso e non di Eros. Amor che muove il sole e l’altre stelle! La nostra compagnia si chiama Compagnia del Sole, capite? Anche se parlo greco?
Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali