Davide Doro e Manuela Capece (Compagnia Rodisio) pongono grande attenzione al gesto, alla mimica, al movimento in scena nei suoi minimi dettagli. Al Festival Segnali hanno presentato Joy (prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale), uno spettacolo che cerca di raccontare nemmeno una situazione, ma uno stato d’animo, una sensazione impercettibile.
Vi proponiamo un focus su questa proposta, dove a una breve recensione dello spettacolo affianchiamo le parole della compagnia, con cui abbiamo conversato poco dopo la messa in scena.
C’è un uomo che ha una sfera in mano, l’accarezza, la manipola, la dilata, la compatta, ad un certo punto la sfera immaginaria pulsa e diventa un cuore vivo agli occhi dello spettatore bambino che si trova di fronte a Joy di Compagnia Rodisio. L’uomo danza nello spazio con armonia e precisione adamantina e, nonostante la sua età, non ci racconta delle sue primavere, ma dell’essenza del viaggio che lo ha condotto davanti a noi, sul palco del Teatro Fontana per il Festival Segnali. Esplode il suo corpo, si divora lo spazio, lo abbraccia con una vertigine di ampi movimenti di braccia veloci, poi trattiene in sé quell’universo fagocitato cercando di far risuonare quel carnevale, dentro. L’uomo poi torna bambino e si confronta con l’assenza del corpo a scuola, in un sistema che il corpo lo annulla, lo mette a tacere, lo giudica come fastidioso quando indomabile ed esuberante, elogia l’immobilità non come conquista consapevole ma come possibile spegnimento di una accensione e di un desiderio al fare, all’andare. La sfera, che prima era gioiosa, si trasforma in un’esplosione di rabbia come se i due sentimenti si definissero solo se accostati, in un orizzonte dialogico dove lo scontro è finalizzato alla definizione del sé. E da questo universo mondo che è la costruzione dell’io, si arriva a spostare lo sguardo al di fuori, alla natura, al mondo animale, alle piante e ai fiori, in un esercizio di sguardo che si allontana e amplia, arrivando a puntare il naso all’insù fino alle stelle e all’universo al quale rivolgiamo preghiere, pensieri e interrogazioni capaci di riguardarci. Uno spettacolo dedicato al pubblico di bambini a partire dai 3 anni che ha la virtù di scegliere il linguaggio coreutico, senza paura di sbagliare o essere frainteso, andando dritti al corpo dello spettatore ed elargendo solo un piccolo frammento di racconto tattile ed emotivo: “Faceva freddo. Ero molto piccolo. E avevo paura. Mia mamma, senza mai lasciarmi la mano, si abbassò e raccolse una castagna da terra. Poi mi disse: “Vedi, questa castagna è magica. Tienila in tasca, e quando hai paura e ti senti solo, infila la mano in tasca e stringila forte. Vedrai, andrà tutto bene”. Ovviamente noi sappiamo che quella castagna non è magica, ma per una frazione di secondo, ci crediamo e usciamo dalla sala sereni, dopo aver attraversato svariate tempeste nel mezzo.
Agnese Doria
Lo spettacolo Caino e Abele di Compagnia Rodisio (ph:M.Zanghellin)
Cosa significa utilizzare il movimento nel teatro-ragazzi? C’è un “principio di semplicità” che anima il gesto?
Più che un principio di semplicità, credo che per noi prevalga un principio di onestà, di necessità, di modo che il gesto e il movimento non siano qualcosa di puramente estetico. È quasi una questione di verità. Esattamente come la parola: se nel tuo discorso ci sono parole in più, risultano in eccesso proprio perché non sono necessarie, vere e oneste.
È indubbio che partire da una storia, che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, possa sembrare meno difficoltoso per certi aspetti. Perlomeno come punto di partenza, dopodiché sorge tutta una serie di complessità sul come far arrivare questa narrazione al pubblico. Credo che appunto il “modo” sia la cosa centrale. Quindi non so se l’assenza di una narrazione complichi o meno le cose.
Nel caso di Joy, il pensiero che sta alla base della costruzione dello spettacolo ha seguito una mia esigenza molto personale, intima, per cui non sentivo la necessità di raccontare una storia con uno svolgimento chiaro ma piuttosto di condividere degli stati d’animo. Quindi, il principio che ho seguito è stato più quello di dover creare dell’armonia, laddove la gioia è appunto quella sensazione di essere in armonia con il resto, con l’oltre da sé.
Nel caso di Joy ci si rivolge a una fascia d’età di piccolissimi, dai 3 anni…
Crediamo che più si abbassi l’età, più ci voglia cura. Qualsiasi scelta in scena dev’essere supportata da una forte responsabilità, dal colore alle luci, etc. Questo però non vuol dire che si debba guardare al bambino piccolo intimoriti dal fatto che possa capire o non possa capire, che si debba divertire o non si debba divertire… Noi tentiamo di allargare quanto più riusciamo la “forbice delle loro possibilità di visione”: personalmente penso che un bambino anche molto piccolo possa seguire senza problemi l’opera o una storia drammatica, perché hanno strumenti di rielaborazione molto particolari.
Soprattutto gli spettatori che vanno dai 3 ai 5 anni si muovono nello spazio fra verità e finzione in maniera molto più agile dei grandi. Hanno molta più familiarità con l’elemento magico della scena e quindi puoi prenderti il lusso di proporre delle visioni anche fortemente complesse e ambigue, risulta paradossalmente più facile “osare”. Già con le elementari invece si perde quella capacità di stare fra il vero e il finto, gli strumenti di fruizione si avvicinano sempre di più a quelli degli adulti e subentra la necessità di avere una struttura, che può essere molto banalmente una storia o la riconoscibilità dei personaggi (buono/cattivo, etc.).
Quindi indubbiamente è delicato produrre spettacoli per questa fascia d’età, ma ci si può prendere un ampio spettro di libertà di composizione. Joy in tal senso è una proposta inusuale: ci sono parti che certamente richiamano il divertimento o la risata, ma di fondo è uno spettacolo contemplativo.
Voi lavorate molto anche in Francia. Che differenze ravvisate, soprattutto rispetto alle proposte di danza per i ragazzi?
In Italia è da qualche tempo che si è iniziato a proporre la danza ai bambini, mentre in Francia si tratta di un processo avviato da molti anni. Quindi hai un pubblico che, dai bambini ai genitori, è già abituato al movimento in scena, e questo succede dalla grande città al piccolo villaggio di provincia. Ovviamente la Francia e il Belgio sono un po’ delle eccezioni nel panorama internazionale, dove il sistema è talmente forte e avanzato che rende gli spettatori “pronti” e reattivi, perché è un pubblico fortemente stimolato da una grande varietà di proposte.
Nello spettacolo ci sono gesti molto vicini alla pantomima, al mimo, qualcosa che nel panorama attuale è sempre più raro vedere. Come mai?
Crediamo che sia molto legato al sistema di formazione e accademia. Non c’è più una formazione d’attore completa, che contempli anche queste forme di recitazione. Sempre tornando alla Francia, gli attori sono spesso anche danzatori e musicisti. Le nostre accademie sono invece rimaste a un sistema molto più classico, per cui ci si specializza rispetto a una o massimo due competenze. C’è un livello di formazione magari molto alto che però risulta diviso in settori. Invece in Francia, Belgio o anche Danimarca ci è capitato di vedere spettacoli dove gli interpreti, spesso anche molto giovani, possedevano uno spettro di linguaggi e abilità pressoché totale.
Noi ci siamo formati come autoditatti, affiancando durante gli anni ’90 dei maestri come Letizia Quintavalla, Bruno Stori o Maurizio Bercini, ma non abbiamo mai frequentato l’accademia. Però ci sarebbe piaciuto avere una formazione accademica ma completa, che stimolasse anche uno sviluppo di curiosità il più possibile vario ed eterogeneo. Al contrario, questo tipo di completezza la si deve cercare autonomamente, frequentando seminari, workshop, etc. che sono il più delle volte a pagamento per cui per un attore giovane diventa anche difficoltoso inventarsi il proprio percorso di “educazione teatrale”.
Francesco Brusa, Rodolfo Sacchettini
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