Sembra offrire risposte più che stimolare domande Lorella Zanardo, con il suo Schermi. Se li conosci non li eviti. Una conferenza-spettacolo che si inserisce in modo anomalo nella programmazione del festival, proprio per la sua matrice didattica che pare allontanarsi da qualsiasi interrogazione sulle forme della rappresentazione e sul ruolo dell’immaginazione.
Una proposta sui generis quindi per il contesto in cui si colloca, che non pretende probabilmente di essere valutata su un piano propriamente artistico, ma che offre interessanti spunti di riflessione sui linguaggi e sulle forme della comunicazione e dell’informazione tra adulto e adolescente. Dopo Il corpo delle donne, il documentario visto online da 15 milioni di persone e che ha portato la sua autrice nelle scuole di tutta Italia, questo nuovo lavoro porta invece la Zanardo nei teatri, sulla scena. La conferenza spettacolo parte proprio da lì, e del documentario ripropone frammenti e concetti. A essi aggiunge dati e video che spaziano dal cyberbullismo alle fake news, dalle pubblicità “buone” e “cattive” all’hatespeech, dagli stereotipi di genere al diritto di essere informati, dalla gestione dei dati personali che passano attraverso la rete a “termini e condizioni” nell’uso dei social network. Insomma, afferma Lorella Zanardo rivolgendosi ai ragazzi, ma allo stesso tempo a genitori e insegnanti, così come a cinque anni si impara a leggere e scrivere, ora è tempo di alfabetizzarsi ai media: sapere guardare immagini e schermi che ci circondano significa essere cittadini consapevoli. Sembra però dare un assaggio di troppi temi qui Zanardo, che ai pericoli della rete sovrappone la già indagata questione legata all’immagine femminile proposta dai manifesti pubblicitari o dalla televisione che ereditiamo dagli anni Novanta.
Nella sovrabbondanza di temi, la formula comunicativa “vincente” che viene qui sperimentata pare attingere a un linguaggio più televisivo che teatrale (basti pensare ai sottofondi sonori o alle ricostruzioni video) e tramite questo cercare l’empatia del pubblico.
Schermi sembra insomma usare strumenti opposti a quelli del teatro: non propone temi e criticità per astrazione ma li spiega fino all’eccesso, non lascia spazio ai ragazzi per trarre da soli le loro conclusioni ma afferma dati incontestabili. Voi potete cambiare il mondo, noi vi possiamo aiutare, dice. Ambisce a offrire, insomma, gli strumenti per una cittadinanza attiva prima ancora che di una consapevolezza critica che passi per il dubbio, la messa in discussione, la capacità di arrivare autonomamente a porsi delle domande. Una proposta importante per contenuti e mission, che si offre più come strumento didattico che come riflessione sulle forme del teatro: nel rapporto con i ragazzi, qual è la formula più efficace per mettersi in discussione e stimolare una consapevolezza critica?
Schermi
D’altronde, la parte di programmazione del festival dedicata agli adolescenti sembra mettere al centro proprio il rapporto con i ragazzi, nelle forme della comunicazione e nel tentativo di “rendere visibili” determinati temi. Così anche Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst con la brillante e caustica drammaturgia di Donatella Diamanti, che pur si presenta inequivocabilmente come spettacolo e il cui patto finzionale è dunque chiaro e fin da subito determinato, potrebbe in alcune su parti sollevare dubbi sulla natura del dispositivo teatrale propriamente inteso.
Il palco è un ring, rosa e morbido come una moquette ma pur sempre un campo di battaglia. È in questo spazio, aperto ma sottilmente angusto e dai tratti domestici, che viene ritratta una famiglia composta da madre (Letizia Pardi) padre (Francesco Franzosi) e figlia adolescente (Greta Cassanelli). Con pennellate acute a tratti graffianti, l’autrice fotografa con ironia adulti e millenials alle prese con l’adolescenza. Partendo da alcune suggestioni presenti nel libro di Paul Buhre, che a soli 16 anni ha scritto Noi (e voi), un testo che è una lettera ai genitori sull’adolescenza, si cerca di indagare nell’abisso di una persona adulta messa di fronte a qualcosa che non capisce, qualcosa che non riconosce, linguisticamente e cognitivamente. Frastornati, o meglio smarriti, gli adulti che prima capivano i figli, adesso sono messi a dura prova, vacillano e annaspano alla ricerca di punti di riferimento, persi tra manuali che possano aiutare la loro genitorialità messa in crisi e il dialogo con esperti di ogni sorta, senza che gli venga in mente di rivolgersi ai diretti interessati, i figli o gli amici dei figli. In questo caso corre in aiuto Agata, un’adolescente che sul modello di SOS Tata si reca in famiglia per osservare modalità, argomentazioni e reazioni dei due genitori, facendo subito affiorare criticità e etichettandoli biecamente (con la giustificazione che “fa parte del programma”) esattamente come gli adulti etichettano i giovani figli (sdraiati, svogliati, sempre con le cuffie nelle orecchie, capaci solo di dire “un attimo”). E tra spettri di una “medicalizzazione” che è lì come orizzonte possibile se non concreto, risate, cartelloni che definiscono i comportamenti e freeze, Agata racconta di una generazione che si confronta con adulti in perenne attesa dei figli (che escano dal bagno, che tornino a casa da scuola, che escano da musica…) e, come si sa, dall’attesa alla pretesa il passo è breve e allora gli assi del controllo e della conseguente delusione paiono l’unico orizzonte di dialogo (o non dialogo) possibile. Nonostante la leggerezza e i sorrisi la domanda arriva puntuale e a fuoco: quali sono gli strumenti in mano agli adulti per incontrare questa alterità?
Lezioni di Famiglia di Donatella Diamanti fotografa bene una generazione, quella dei millennials, e i rapporti con i genitori stretti tra vulnerabilità e autorità, smarrimento e disperazione, il tutto condito e attanagliato nelle maglie dei gruppi WhatsApp parentali dai quali pare impossibile sottrarsi. L’intento è chiaro e viene portato al pubblico con leggerezza, ironia e freschezza, che non guastano soprattutto quando invece i toni per parlare di adolescenza sono spesso sensazionalistici, allarmisti ai confini con il morboso-scandalistico. Tuttavia lo spettacolo, eccetto qualche passo, rimane piuttosto bidimensionale, quasi appiattito su una visione a 32 pollici, movimentato “solo” dalla bravura degli attori (in particolare la madre, interpretata da Letizia Pardi, è credibile ed efficace senza scadere del macchiettistico). Manca quasi del tutto l’impianto della scena, il corpo e i movimenti degli attori, le atmosfere cangianti delle luci, ovvero quella capacità trasformativa che conduce lo spettatore in un altrove, capace di convocarlo al di fuori delle proprie aspettative, abitudini, schemi mentali. Qualcosa cioè che possa spostarci, disorientarci da noi stessi, in una parola che ci arricchisca, che ci possa porre domande fino a snervarci, un qualcosa cioè che renda l’esperienza del teatro unica e diversa da tutte le altre. Qualcosa che non avremmo potuto leggere così sul giornale, che non avremmo potuto vedere al cinema, che non avremmo potuto apprendere leggendo un libro.
Insomma, sia Schermi di Lorella Zanardo che Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst sembrano rinchiudersi nelle strettoie di una comunicazione a senso unico, abdicando a utilizzare pienamente le potenzialità della scena in favore della volontà di far “passare un messaggio” o fotografare la criticità di dialogo intergenerazionale. Ma dove, esattamente, gli spettacoli avrebbero potuto spingersi, determinando caratteristiche di alterità rispetto all’esperienza quotidiana o rispetto ai format da fiction televisiva? Si ha come l’impressione di qualcosa che resta in ombra, che non viene affrontato del tutto. Ai “personaggi” – siano il padre e la madre di Lezioni di famiglia o la miriade di dati e problematiche sciorinata in Schermi – manca un po’ di spessore chiaroscurale, ci vengono presentati in maniera in fin dei conti pacificata. Eppure, è evidente che fra i due genitori scorrano non-detti, incomprensioni, reciproche estraneità. Così come è evidente che social e televisione, con cui si veicolano spesso concetti violenti o sessisti, non siano dei mezzi neutri. Ci si aspetterebbe dunque che i discorsi si allarghino anche ai contorni e ai contesti delle “tematiche” da cui prendono abbrivio, che il palco diventi un luogo in cui articolare anche una riflessione politica sulla famiglia come istituzione o per mettere in crisi le stesse logiche della comunicazione e della pubblicità.
Vero, sembra compito forse troppo arduo e radicale da chiedere a delle proposte sceniche per l’infanzia. Ma dove portarlo avanti, se non a teatro? e con chi, se non con una comunità di spettatori attenti e di generazioni diverse?
Agnese Doria, Francesca Serrazanetti
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