Abbiamo dialogato con Giuliano Scarpinato qualche tempo dopo il debutto della sua nuova produzione per ragazzi – Alan e il mare – nell’edizione 2017 del Festival Segnali di Milano. A partire dai nodi della nostra inchiesta sulle arti e l’infanzia è nata una più ampia conversazione che affronta diversi aspetti del percorso di quest’artista nel suo rivolgersi al giovane pubblico.
Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?
L’incontro con il teatro ragazzi è stato per me abbastanza fortuito… Sono sempre stato un grande amante e collezionista degli albi illustrati, questa sorta di haiku straordinari che nel giro di poche pagine, pochissime frasi e alcune immagini fortemente iconiche riescono a rendere il cuore delle cose. Il desiderio di avventurarmi nel campo del teatro ragazzi è nato proprio da uno di questi libri: La grande fabbrica delle parole (A. de Lestrade, V. Docampo, Terre di mezzo, 2010) a cui si è ispirato La fortuna di Philéas, progetto con il quale nel 2012 ho partecipato per la prima volta al Premio Scenario infanzia. Fu l’inizio di un’esplorazione: cominciai a tastare il terreno, ad accorgermi delle esigenze del pubblico e del modo in cui avevo mancato degli obiettivi, ne avevo centrati altri. Due anni dopo è scattata la scintilla di Fa’fafine, è stato un incontro simile. Mi capitò di leggere un articolo a proposito dei bambini gender fluid, gender creative su “Internazionale” e mi innamorai della questione. Trovai estremamente interessante l’idea che esistessero questi piccoli guerrieri della libertà identitaria e, in modo piuttosto lineare, pensai che sarebbe stata una bella storia da raccontare a un pubblico di giovanissimi. Ecco, con Fa’afafine mi sono realmente addentrato in questo mondo. All’atto pratico, insieme alle polemiche ingenerate e al riconoscimento della critica, lo spettacolo ha avuto una risposta magnifica da parte dei ragazzi; ho potuto verificarlo con loro replica dopo replica anche perché è stato costantemente accompagnato dal confronto con il pubblico. E così, dopo i desideri e le intuizioni, a partire da questi momenti di scambio, ho raggiunto via via una sempre maggiore consapevolezza e mi sono reso conto di quanto fosse privilegiato il terreno di confronto con le nuove generazioni, di quanto fosse emozionante e restituisse la necessità del teatro. Quella offerta dai ragazzi – capaci, con occhio dotato d’incanto, di cogliere aspetti che spesso ci sfuggono – è una possibilità di condivisione reale tra artisti e pubblico che dovrebbe essere estesa a tutto il teatro.
Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?
Il mio approccio, l’ho scoperto in modo del tutto empirico, equivale a fare il giro. Fino ad ora ho trattato argomenti molto delicati, scivolosi – l’identità di genere, le sue varianti; la perdita di un figlio e il lutto all’interno della cornice più ampia della fuga da un paese in guerra e dell’emigrazione –, queste tematiche, però, non ho voluto e non amo affrontarle di petto, né in modo cronachistico. Riguardo la storia di Alan Kurdi, per esempio, credo che sul piano del racconto giornalistico sia stato detto e visto veramente di tutto. Ogni giorno inoltre veniamo a sapere delle vicende di un nuovo barcone e di alti numeri di vittime; le informazioni arrivano in dosi così massicce che ciò non può che provocare in noi una certa assuefazione, al di là delle inclinazioni umanitarie e della sensibilità di ciascuno. Di conseguenza con lo strumento teatro io scelgo di fare il giro, decido cioè di trasformare e avvalermi – come nel caso di Alan e il mare – di un dispositivo magico, fiabesco. Nello spettacolo questo coincide con la trasformazione della morte in una metamorfosi: Alan diventa un bambino-pesce che dal momento del naufragio appartiene per sempre al mare, da dove può fuoriuscire, essere ripartorito, a volte, per stare accanto al padre pochi minuti e poi tornare – come una Cenerentola “al suo rintocco” – dentro una dimensione che ormai lo imprigiona… Quando ho visto la foto del bambino sulla costa di Bodrum una delle primissime cose a cui ho pensato e che annovero tra le ragioni del suo grande impatto mediatico è stata la forte ambiguità dell’immagine: la posa del suo corpo non lasciava capire se fosse morto o dormiente. Quest’aspetto durante il processo creativo ha contribuito a dar vita al dispositivo fiabesco, che è stato per me il nucleo generatore dello spettacolo; la cronaca e i fatti realmente accaduti ne hanno costituito la cornice. Ma, perché fare il giro? Perché ciò che penso e noto rispetto all’approccio con i ragazzi è che sia più efficace parlare loro attraverso il sogno, la favola tornando però circolarmente alla realtà, cercando di rendere quanto più universale e condivisibile la vicenda. Così, secondo me, c’è una possibilità in più per scavalcare meccanismi di assuefazione e tornare alla realtà delle cose con un sentimento diverso, più “compromettente”.
Cosa ti ha spinto a condividere queste particolari tematiche proprio con lo sguardo, l’ascolto dei più piccoli?
Mi è davvero difficile pensare a una cesura tra il pubblico bambino e quello adulto. A prescindere dall’età anagrafica, credo che il punto siano l’occhio e l’orecchio bambino come entità. Né Fa’afafine né Alan e il mare sono spettacoli pensati esclusivamente per i bambini, certo, loro sono privilegiati perché hanno un accesso più rapido a determinati tipi di salti: dal sogno alla realtà, e viceversa. Allo stesso tempo però, come i bambini, sono privilegiati quegli spettatori di tutte le età in grado di conservare uno sguardo infantile. Ecco, più che il pubblico dei bambini io scelgo un pubblico di bambini. Ma probabilmente questo ha a che fare anche con qualcosa che mi riguarda in prima persona: se io non portassi sulle spalle, come uno zainetto, il bambino che sono stato, con le sue mancanze, i suoi bisogni, i suoi desideri, probabilmente non avrei iniziato a fare teatro. Quindi ciò che trovo importante è andare a incontrare degli spettatori che siano rimasti, anche loro, “bambini nel tempo” e viaggino senza aver paura della propria bambinità.
(Alan e il mare)
Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come può il teatro relazionarsi con questi nuovi ritmi del contemporaneo? E, ancora, in cosa consiste la “differenza teatrale”?
Quando diventa luogo primario del sogno, dello squarcio onirico, il teatro trova uno dei suoi tratti distintivi. È quest’aspetto secondo me, insieme al dato caratterizzante e imprescindibile della compresenza di attori e spettatori, a costituirne l’unicità, e a permettere di non condividere esclusivamente la nuda, cruda o banale realtà. Ma entrambi gli ingredienti, dal mio punto di vista, possono essere presenti: si parte dal dato reale e si attraversa un canyon di sogno (o di incubo) per poi risalirlo e arrivare di nuovo alla realtà. E questo il teatro può farlo in modo del tutto privilegiato proprio perché il suo tempo è più dilatato rispetto a quello dei diversi media. Mi stupisco sempre di quanto lavoro ci voglia per creare un’ora di spettacolo, di quanto tutto sia, fondamentalmente, un lavoro sulla sintesi; sintesi che, però, nel momento dell’incontro con il pubblico può corrispondere a una dilatazione temporale molto più ampia… Piccolo miracolo distintivo legato anche alle circostanze: allo star chiusi, insieme, in quest’antro buio, questa placenta, che permette di vivere una ritualità ormai molto più difficile da condividere al cinema, per esempio, dato che il nostro modo di fruirne si è imbarbarito, proprio per la sua “somiglianza” con la televisione o le serie tv viste sul pc nella propria stanzetta. Quanto meno la presenza dell’attore in teatro dà allo spettatore una responsabilità.
Che tipo di rapporto si instaura, invece, tra la scena e il video nei tuoi lavori?
Nel rivolgersi al pubblico dei più giovani non si può ignorare il fatto che le nuove generazioni abbiano come canale privilegiato un certo tipo di comunicazione – veloce, rapida, basata fondamentalmente sull’immagine – si può però declinarla sul versante del sogno, appunto. Quindi, in Alan e il mare l’uso del video non è di tipo giornalistico, non ci sono filmati relativi alla situazione siriana; lo spettacolo inizia con un’immagine molto rapida – è una bomba che scoppia – ma subito entra in un’altra dimensione e si dà accesso all’immaginazione. Allo stesso modo, grazie a un connubio tra il video e la scena, e alle bellissime proiezioni di Daniele Salaris, abbiamo potuto portare sul palco il mare di Alan, che è anche quello dei suoi ricordi, dove poi sarà accolto il padre e vedrà il loro cane, Abibi, diventato un cane-paguro, e l’albero di gelso del loro cortile, riempitosi di corallo. Il video allora mi permette di saltare i confini spazio-temporali o di convocare altri personaggi – i genitori di Alex in Fa’afafine; la madre di Alan che torna, come una sorta di muta fata turchina, nei sogni del padre. Amo molto questo mix tra linguaggi, lo trovo rispondente al tipo di percezione che abbiamo oggi delle cose.
Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Com’è possibile evitare il didattismo?
Non ho alcuna pretesa di insegnare né di essere un pedagogo, si tratta più di un dialogo, una condivisione. Cerco davvero di mettermi sullo stesso piano dei ragazzi e non su quello superiore di chi dice cosa fare, pensare o provare. Chiaramente è lo strumento teatro in sé a poter contenere una funzione pedagogica e, forse, ciò che posso immaginare per il teatro in generale è che contribuisca a una pedagogia delle emozioni. Trovo importante – e qui torno al tipo di teatro che amo anche vedere e alla realtà che ci circonda, con le sue efferatezze più o meno mediaticamente esposte – che si dia luogo a una rialfabetizzazione emotiva, perché mi sembra che oggi sia in atto il processo contrario e che le emozioni, positive e negative, e il loro attraversamento costituiscano un problema. I diversi filtri della comunicazione di cui disponiamo (Whatsapp, i vari social) rendono possibile arroccarsi in posizioni di difesa e distacco che fanno perdere il contatto con le emozioni primarie, con le lacrime, le urla. Credo che questo sia molto pericoloso, nell’ambito relazionale privato come in quello pubblico. In tal senso ciò che mi piacerebbe fare con il mio lavoro è contribuire a ricreare un alfabeto, partecipare a questa pedagogia delle emozioni.
Francesca Bini
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