I gesti cadono come fiocchi di neve. Non fanno rumore sul palco, se non appunto il lieve crepitio di passi su un manto soffice, l’eco di uno spostamento d’aria che è accenno, semplicità, rifinitura costante. Manuela Capece e Davide Doro “calzano la scena” come fossero sotto una teca, tanto viva e a tratti sanguigna è l’intensità della loro presenza quanto sottile, sul filo della trasparenza, è l’esilità dei loro movimenti. Al Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio hanno presentato in prima nazionale Cari Cuccioli, spettacolo messo a punto in residenza presso l’Espace600 di Grenoble. Nella sala al piano superiore della struttura teatrale, un reticolo di carta argentata, ideogrammi e piccoli oggetti appesi a ricreare un tanabata (tradizione giapponese per cui le proprie aspirazioni e i propri desideri vengono affidati all’imprevedibilità del vento), esito di due giorni di laboratorio tenuto dalla compagnia con il giovanissimo pubblico (la produzione è a partire dai due anni) e genitori. Esito in perfetta sintonia con quelli che sembrano essere i presupposti dello spettacolo: dare forma all’invisibile, chiedersi di che pasta siano fatti i sogni e adagiarli in un alveo narrativo che ce ne mostri l’ordito.
Sforzo antropologico di uscita dalle tenebre, con ritorno all’ignoto. La scena si apre infatti su una piccola catasta di legno adagiata al limite del palco. Le braci la illuminano di una fioca luce, poi uno scoppio, una vampata e nel buio si leva un potente arzigogolo di fumo. Gli attori “accorrono” a tenere vive le fiammelle, approntando una danza soffusa fatta di soffi, ondeggiamenti di palmi della mano e respiri che si incrociano. Manuela Capece e Davide Doro sono una coppia, “cuccioli d’umano” spaesati di fronte all’oscurità ma consapevoli che la loro unione è già una forza sufficiente. Il resto sono solo strumenti: il fuoco per riscaldare la notte, tavoli, sedie e porte di un’abitazione che i due non cessano di comporre e organizzare per quasi tutta la durata dello spettacolo. Fuori c’è pericolo, c’è il lupo, c’è quel male fiabesco ma concreto evocato dall’unico momento testuale: una voce fuori campo che attacca appunto con «c’era una volta». Ma fuori è anche il non-luogo dove alla fine si recheranno i protagonisti, uscendo dalla porta mentre le luci si abbassano.
Come giustamente dice la compagnia, Cari Cuccioli è un haiku visuale. Brevi e concisi elementi che formano neanche una narrazione, quanto un’ipotesi di racconto che si avviluppa su se stesso, poiché ipotesi e progetto è innanzitutto è la scelta del vivere assieme rappresentata sul palco. Allo stesso modo dei poemi giapponesi, i gesti e gli oggetti che scorrono sulla scena (dei “versi motori” appunto) traggono sostegno da un’energia oggettiva, da un principio di composizione interno al “comporsi di ciò che ci ritroviamo di fronte” cosicché anche gli attori vengono “sbalzati all’indietro”, incarnano non già dei personaggi ma appunto delle situazioni, abbozzi di parola poetica e noi li vediamo lontani come su di un leggio o dentro di una bolla natalizia. Quasi che alla classica quarta parete se ne aggiungesse una quinta, una sorta di filtro che rende le immagini dal palco dei “riflessi”, evocazioni dall’origine. Come tutte le evocazioni, vive se siamo noi a chiamarla e a infonderla di senso. Non importa in che modo: lo sguardo attento degli adulti dalla platea, gli schiamazzi spontanei dei bambini che crepitano in sintonia con i “gesti sulla neve”, pioggia primaverile ad abbattersi fuori sul teatro di Casalecchio e a rinforzare dentro l’idea di “focolare” che viene presentata sul palco. Ogni cosa è illuminata.
Francesco Brusa
Lascia un commento