di Mirto Baliani
Amo pensare che alla parola suono debba necessariamente essere associata la parola ascolto. Non può esistere un suono senza ascolto, più precisamente senza un attento ascoltatore che permette al suono ascoltato di divenire suono sentito. Un suono che nel giungere all’orecchio è in grado di modificare il nostro essere, di emozionare questo nostro corpo quando accetta di entrare in vibrazione con il mondo che lo circonda.
Il nostro apparato uditivo è di per sé un risonatore, risponde ad una sollecitazione esterna data dalla pressione che le onde sonore applicano all’aria. All’interno dell’orecchio si attiva una serie di micro movimenti fisico/meccanici che poi vengono tradotti in impulsi elettrici interpretabili dal cervello. Quando diciamo “ascolto” il nostro corpo è già entrato in sintonia o meglio sta simpatizzando con l’esterno. L’orecchio lo fa automaticamente mentre il cervello arriva in un secondo momento, in ritardo di millesimi di secondo. L’era che abitiamo, densa di iperstimolazioni sensoriali, ha dilatato questo tempo di reazione fino all’estremo punto di non reazione, in una sorta di autodifesa messa in atto dal nostro cervello eccessivamente stimolato. Si resta sempre più indifferenti a certi stimoli sonori, come si attivasse uno spietato censore che, filtrando il magma sonoro in arrivo, ritrova interesse soprattutto e purtroppo in elementi già conosciuti e decodificati in precedenza. Il suono nuovo, diverso o strano, viene sempre più spesso archiviato come disturbo, mentre quello delicato, fatto di piccole melodie nascoste nella natura, viene identificato come “rumore di fondo”, fruscio. Eppure la natura suonava prima di noi, il suono è sempre esistito a prescindere dall’uomo e sempre lo ha affascinato e interessato (oggetto anche ora di questo mio scrivere e di questo vostro leggere). A sua volta, l’uomo grazie alla conoscenza sonora che andava acquistando, ha imparato nei millenni a destreggiarsi nella natura, a orientarsi, a difendersi. Un bambino nato in una giungla sarà istintivamente allenato all’ascolto: quell’ascolto che potrà determinare la sua vita, allertandolo ad esempio rispetto a un pericolo.
Oggi accade l’esatto opposto: le nostre orecchie sono oramai atrofizzate dall’eccesso di rumori. Il cervello fa il possibile per censurare quelli più costanti: non percepiamo più il rumore delle auto che passano nella strada sotto casa come pure il suono strisciante degli elettrodomestici che aspirano, lavano e cucinano al posto nostro, ma ciò nonostante, ci ritroviamo un apparato che pur perfettamente funzionante non riveste più il ruolo di un tempo, ovvero quello di farci scoprire il mondo, di aiutarci a codificarlo.
Quando nei laboratori mi capita di lavorare con i ragazzi, li spingo da subito a esercitare un “altro udito” con una serie di esercizi in grado di stimolare (e riscoprire) questo tipo di percezione. Spesso inizio gli incontri chiedendo ai partecipanti di chiudere gli occhi e scandagliare il silenzio che li circonda. È un silenzio contaminato, dove suoni di diversa natura, intensità e distanza si incrociano e si sovrappongono. Chiedo loro di isolare mentalmente tutti i singoli suoni che sentono in quel “silenzio”, poi di sceglierne tre e in seguito di trovare le parole per descriverli agli altri. Nulla a che vedere con quello che si può sentire o meglio provare nel silenzio assoluto e destabilizzante di una camera anecoica, dove si può raggiungere il punto massimo di ascolto del proprio corpo. In quel luogo totalmente privo di interferenze esterne, possiamo renderci conto di quanto noi stessi siamo produttori di suono: il cuore che pompa, il sangue che scorre, le membrane che si dilatano, la saliva che scende nell’esofago, e così via. Si tratta ovviamente di un esempio estremo, ma anche solo l’esercizio quotidiano all’ascolto, come dicevo prima, di un più reperibile “silenzio”, porta da subito all’interno del gruppo di lavoro un aumento della concentrazione, una maggior centratura della persona e, per conseguenza, un più attento ascolto dell’altro.
Ho sempre pensato che in un ensemble sia preferibile avere un buon grado di ascolto e sinergia tra gli elementi, piuttosto che eccellenze in grado di mirabili virtuosismi ma scollegate l’una dall’altra da uno scarso ascolto. Sono certo che quanto detto sia applicabile a qualsiasi gruppo di persone anche al di fuori delle discipline artistiche, in un ufficio come in una squadra di calcio ma forse ancor più calzante se pensiamo ad una classe di bambini o ragazzi, ancora in grado di trasformare questa esperienza in “materiale vivo”, per la vita a venire.
Mirto Baliani esplora il mistero del suono attraverso numerose attività: è musicista, compositore, sound designer, illustratore e dj. Ha composto per numerose produzioni di teatro, danza, video-documentario, programmi radiofonici, mostre e performance. Nei suoi progetti Fuocofatuo (2012) e China vs Tibet (2014) ha esplorato il rapporto tra suono e immagine, tra udibile e visibile.
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