Il viaggio ha nella letteratura di matrice picaresca una forza evocativa determinata dall’articolazione che procede da un punto oscuro, attraverso mille peripezie, verso una chiarificazione risolutiva della vicenda per un miglioramento della condizione del protagonista. Nel teatro che guarda alle nuove generazioni e le coinvolge in una coabitazione con quelle più adulte, questo arco evolutivo si concretizza di fronte al giovane pubblico stimolando soprattutto un canale emotivo di partecipazione, capace di avvolgere di trepidazione l’attesa degli eventi. Daria Paoletta di Compagnia Burambò utilizza un pupazzo che in fretta si fa bambino, si chiama Tzigo e si carica della tradizione orale zigana verso la ricerca della felicità. Il fiore azzurro, spuntato sulla tomba della madre di Tzigo, sarà una sorta di amuleto per un viaggio di formazione, così ricorrente nelle storie per bambini. L’attrice e autrice, che presta la voce a tutti i personaggi compreso il giovane zingaro, della storia si fa carico utilizzando quasi tutti i mezzi a disposizione: il canto e il ballo, la musica dal vivo che dalle note di una chitarra raggiunge il palco a far cantare Tzigo, la partecipazione concreta del pubblico che entra direttamente nella sequenza drammaturgica, la lingua intima e carnale dei dialetti meridionali, l’evocazione sensibile che fa affiorare profumi di vaniglia e colori di bosco, serpenti per capelli di streghe e lacrime di un’origine perduta, cercata, riavuta infine per apparizione e ammissione del proprio destino. È un ottimo lavoro quello di Burambò, meriterebbe per questa una maggiore severità nel tagliare il superfluo e gestire meglio l’ultimo blocco spettacolare che rischia di ribaltare le sensazioni vitalissime che tuttavia, ognuno dei bambini presenti in sala, non avrà di certo dimenticato in fretta.
Cappuccetto Rosso si presenterà solo alla fine, sarà la “zia” ad andarla a cercare fra il pubblico, facendo indossare a un bambino la mantellina di cotone rosso; la storia è già tutta accaduta, le peripezie si sono già compiute; resta solo da salvare la nonna dalla pancia del Lupo, che si è fatta mangiare tendendogli un «trappolone». In questo Cappuccetto e la nonna! della compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, per la regia di Vania Pucci e Lucio Diana, assistiamo alle vicende della fiaba rilette dal punto di vista della nonna e di una zia che la accompagna in scena, entrambe con la voce amplificata da microfoni. La nonna diventa una figura didattica: accoglie in casa una un maiale, una capretta e una papera, pupazzi che si presentano bussando dietro una metonimica porticina sul fondo, visibilmente inadatta a riparare le abitanti dagli attacchi del lupo; fa accomodare i pupazzi su tre sedioline per assistere a una lezione dove si impara a riconoscere i mascheramenti del lupo, mostrati in un videofondale che rimanda le immagini di una lavagna magnetica manovrata su un lato dalla zia. Quello che manca sulla scena (la casa e le sue finestre, ma anche la visione orrorifica del del lupo, il bosco, i sentieri percorsi da Cappuccetto ecc) viene ricreato dunque grazie a un dispositivo artigianale che proietta disegni e altre immagini non digitali, spazio d’invenzione dove resta l’agio per immaginare. E Cappuccetto, dov’è? Era attesa per la lezione della nonna, ma non si vede. La nonna si trasforma in “Super Nonna”, esce per cercare la nipote con una slitta trainata da un gomitolone rosso, e qui la diegesi prende una deriva marcatamente spettacolistica nei suoi elementi di base: le musiche salgono di tono, le immagini del lupo diventano fondali terrifici che occupano tutto lo sfondo, Cappuccetto viene prelevato dalla platea così che l’identificazione si completi con partecipazione. Dopo il lieto fine che sembra celebrare la diversità (degli animali salvati dal lupo, che resta un mostro), resta sospesa una questione fra immersività degli elementi (la sostanza fictional data dalle voci e dagli effetti audio, il ritmo serrato e “pieno” di accadimenti che non prevedono spaesamenti di riflessione ecc) e una possibile “sciancatura” del racconto: i bizzarri animaletti intervenuti alla lezione, i gomitoli necessari per diventare supereroi e qualche tratto recitativo da cartoon slapstick. Tifiamo per i secondi.
Se Daria Paoletta ha infuso di parole e movimento il burattino Tzigo fino farlo diventare quasi umano, GogMagog sembrano procedere per la via opposta. Nella prima scena di Il pifferaio magico (anteprima di uno spettacolo che nella sua versione finale sarà accompagnato dall’orchestra dal vivo) gli attori e registi Rossana Gay e Tommaso Taddei entrano sul palco con due enormi maschere, strascicando il proprio corpo in accenni di danza al ralenti, burattinizzandosi – appunto – in una serie di gesti meccanici seppur fluidi. Tinte rosse avvolgono la scena costituita praticamente da un solo lungo tavolo imbandito, su cui piatti di frutta a mo’ di natura morta ricreano un’atmosfera onirica e inquietante al tempo stesso, come d’altronde è la fiaba della città di Hamelin: sospesa in un tempo magico e irreale ma glaciale e impietosa nello svolgersi della trama verso il finale amaro.
In poco tempo, però, tale “coreografia surreale” si chiude in favore di un approccio più diretto. I protagonisti sono ora due impiegati di una ditta “aggiustafiabe” che, contattati telefonicamente dal sindaco di Hamelin, si impegnano a risolvere il problema dell’invasione dei topi e promettono anche un “lieto fine”. Sono loro infatti a richiedere l’intervento del pifferaio magico il quale, irretito dalla taccagneria e dalla mancanza di riconoscenza del sindaco (ma, in generale, degli adulti), farà sparire oltre ai ratti anche tutti i bambini della città.
I piani della vicenda e quello più meta-narrativo della ditta si alternano in modo molto lineare e senza discostarsi dalla storia di partenza. Così, la recitazione si attesta su toni decisamente “sopra le righe”, che spesso sconfinano nella macchietta. Si profila cioè, sia da parte degli attori sia della macchina scenica tutta, una sorta di “infantilismo” dello stare sul palco che – nel ricercare a tutti i costi la partecipazione del pubblico – finisce con lo scongiurarla completamente. I ragazzi delle prime file sembrano infatti perdere l’attenzione. “Noi”, poco più dietro, non cogliamo l’urgenza di una narrazione che pare già incanalata su binari prestabiliti.
Eppure, un piccolo tentativo c’è. Alla fine la fiaba viene “aggiustata”: i bambini di Hamelin scomparsi sono semplicemente invisibili agli occhi di adulti che “non ascoltano più col cuore”. Come tornare a farlo? Per GogMagog attraverso un surrealismo delle emozioni (cuore, occhi e orecchie vengono “curati” con bislacchi strumenti) che pur offrendo una consolazione, ci lascia anche con un filo di smarrimento. Smarrimento che forse manca al resto dello spettacolo, dove regnano invece una prevedibilità e una monotonia espositive che diventano semplicismo e rischiano così di invalidare tutto il discorso. Com’è infatti possibile ritrovarsi – bambini e adulti, attori e spettatori – se non ci si è mai persi per davvero?
Simone Nebbia, Lorenzo Donati, Francesco Brusa
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