di Michele Bandini
L’incubo appartiene a quella sfera privata e solitaria della notte in cui si proiettano paure e inquietudini… è un agguato silenzioso del pensiero che ci sorprende nella notte… è la traduzione mostruosa di ciò che ci spaventa alla luce del sole… è una dimensione solitaria, arcaica ed immaginifica… è il risultato di un turbamento della nostra coscienza, un sguardo furtivo e confuso dal buco della serratura nella nostra stanza nascosta… la stanza del simbolico e del sommerso… l’incubo è quel passaggio incerto sull’abisso dentro ognuno di noi… una mostruosità fraterna… è un rifiuto inconsapevole della mente… è quella risposta muta alla nostra domanda sospesa… e come ogni intima manifestazione del caos interiore è vissuta ed esperita in solitudine.
Il teatro e l’arte dovrebbero agire su tutti quei livelli che caratterizzano l’incubo, che lo stratificano come esperienza verticale, ma tenendosi ben lontano da ogni possibile interpretazione psicologica o sociologica, ambito che non ci interessa né riguarda in nessun modo, bensì ripensando l’esperienza e reinventandola come azione pubblica e corale.
Il teatro e l’arte possono e dovrebbero confrontarsi con il nascosto e lo spaventoso, ma attraversandolo in modo corale e collettivo. Il teatro e l’arte hanno bisogno di confrontarsi con la parte oscura e terminale per risolvere simbolicamente e socialmente la questione… il teatro può, come un richiamo collettivo, far condividere le segrete del proprio io, trasformandolo in un grido dalla finestra, una chiamata in strada. Le nuove generazioni come le vecchie hanno bisogno di un teatro e di un’arte che collettivamente si confronti con il dubbio, l’incertezza, la morte, la perdita attraverso il simbolo, l’astrazione, la scrittura, esprimendosi attraverso il gesto corpo/voce, l’azione individuale e corale.
I giovani possono più di chiunque altro lavorare su questi elementi, in un’alternanza dinamica che può oscillare tra energia e dolcezza, tra forza e leggerezza, seguendo assi verticali e orizzontali, fatti di profondità ed energia, di libertà e rigore, di paura e meraviglia. Dall’infanzia fino all’adolescenza fare teatro significa divertimento corale, significa perdersi alla scoperta di sé stessi, ma con il sostegno e la guida degli altri, significa mostrarsi, inteso come necessità espressiva, come attestazione di presenza nel mondo, senza i rischi dell’autocompiacimento o gli egocentrismi degli adulti, significa confrontarsi con l’errore e l’incertezza, ma anche con la libertà e la grazia. I giovani di oggi hanno il bisogno di viversi collettivamente, di unire la propria voce a quella degli altri, di più ora forse rispetto che in passato, ora che il virtuale diventa luogo sociale e doposcuola digitale. Ora che la comunicazione si sviluppa prevalentemente su supporti digitali e che il linguaggio scritto si articola a partire da emoticon e abbreviazioni in cui il linguaggio si fa strumentale all’intrattenimento di una relazione e non più a un reale rapporto relazionale, diventa fondamentale quel teatro che si propone di essere luogo di condivisione, in cui si condivide uno sguardo, una voce. Condivisione intesa come un vedere insieme, condividere uno sguardo vuol dire guardare la stessa cosa dallo stesso punto, con la stessa prospettiva, ma con la variabile del sentimento personale, lavorare insieme vuol dire metterci del proprio e cooperare al raggiungimento di un obiettivo comune, che però non ha niente a che fare con un obiettivo tangibile e quantificabile.
Fare Teatro e assistere al Teatro (parola con la maiuscola e in grassetto per evitare di generalizzare pensando che basti recarsi a teatro), vuol dire riconoscere valore a una inutilità che è fondamentale e fondante per la nascita di quella comunità che si origina a partire dal sentire insieme, e dal condividere una pratica, un agire collettivo che proponga un’interpretazione del mondo e delle cose, dei particolari e degli universali, e che in questa creazione si senta come voce e corpo, presenza ed essenza, di un’azione che amplifica e celebra la vita e tutte le sue sfumature, siano esse limpide e manifeste, siano esse oscure e notturne. Il fare insieme diventa l’antidoto alla solitudine dell’esperienza incubotica, diventa una una pratica collettiva di esplorazione delle oscurità e delle inquietudini, ed è in questa ottica corale che si rende possibile quella trasformazione. La paura di sentirsi inadeguati, il terrore che si cela dietro l’umiliazione che potrebbe seguire l’errore, la ricerca difficile di quell’equilibrio tra la voglia di abbandonare per la paura di esporsi e la forza di mostrarsi nonostante il rischio del fallimento, sono questioni che collettivamente vengono risolte attraverso quel rituale potente e catartico che il teatro celebra.
Michele Bandini è attore e regista, co-fondatore della compagnia Zoeteatro. Esperto di pedagogia teatrale, ha realizzato numerosi progetti rivolti a giovanissimi e adolescenti, tra i quali Salti Immortali che si è svolto nel contesto di Scampia. È direttore artistico, assieme a Emiliano Pergolari, dello SpazioZut a Foligno nonché guida della non-scuola fondata dal Teatro delle Albe.
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