Alan e il mare ha debuttato in prima nazionale al Teatro Verdi di Milano, nel Festival Segnali. Recensione di Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica.
La fotografia del piccolo Alan Kurdi riverso sulla spiaggia turca di Bodrum l’abbiamo vista tutti. Tutti. La reazione di tutti è stata anche la nostra. O almeno questo crediamo.
C’è un fatto, ci sono dei testimoni. Ci sono dei riceventi di quella testimonianza. E poi quella testimonianza scompare. Diventa una nuvola tossica che investe anche coloro che avrebbero preferito non sapere nulla. Persiste una sorta di abuso del reale che ricostruisce la verità dentro un suo riflesso immediatamente inaggirabile, surrogato, sinistro.
Tramutare la cronaca in fabula, depredare i fondamenti della realtà per ricostruire attorno a un fatto reale e puntuale un effetto poetico e universale. Questo sembra essere il progetto di Giuliano Scarpinato, che con Alan e il mare ha debuttato al Teatro Verdi di Milano per la 28° edizione del Festival Segnali. Il progetto di Scarpinato – giunto a compimento per la produzione del CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG e Accademia Perduta Romagna Teatri – è infatti rivolto ai giovani spettatori e arriva mentre è ancora fresco il sofferto successo di Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, che ha infiammato tribune e bacheche e sbattuto nelle prime pagine culturali la questione dell’identità di genere. La sala è piena ma, prima, il foyer è pieno di aspettativa, per questo artista che, dalla vittoria del Premio Scenario Infanzia alle infuocate polemiche per il precedente lavoro, è stato visto come un pericolo per il pubblico degli adulti più conservatori, una novità problematica per i bambini e per il sistema teatro a loro dedicato.
Una nota necessaria a margine di questa visione deve riguardare il contesto. Alla prima nazionale la platea era piena soprattutto di adulti, tra cui un numero nutrito di artisti e operatori. Una insufficiente rappresentanza di bambini e ragazzi non ha forse permesso di osservare l’opera attraverso gli occhi di questo particolarissimo target, spostando l’attenzione su codici di ricezione più adulti.
La scena è sgombra, sul fondale una parete di pannelli translucidi ritagliati come un mosaico scaleno, una sorta di vetro frantumato che si illuminerà di videoproiezioni e animazioni grafiche, facendo da sfondo a un’azione tutta concentrata sui corpi dei due protagonisti, Federico Brugnone e Michele Degirolamo. Uno alto e barbuto, l’altro minuto e glabro, sono un padre e un figlio. Stando alle note di regia, i nomi sono quasi l’unico riferimento puntuale al fatto di cronaca. Perché l’intenzione sembra essere quella di comunicare al pubblico che di storie come quella del “piccolo Alan” ce ne sono state e ce ne saranno centinaia.
Il padre sveglia il figlio e lo affretta a vestirsi, ché «oggi non si va a scuola, oggi c’è la gita». Perché la scuola, l’intera scuola, non c’è più. I due si imbarcano su un gommone che naufraga poco dopo, travolto da un’onda di cui vediamo e udiamo la furia sullo schermo e nelle orecchie. Ci sarà il tempo per contare le stelle e immaginare costellazioni, dopodiché il bambino verrà inghiottito dal mare.
Il resto della vicenda sembra svolgersi nella mente del padre, alla ricerca di una strategia per convivere con un lutto così atroce. La moglie compare, quasi sempre silenziosa, avvolta nel suo velo e con lo sguardo fisso di chi non è più lì, fantasma al quale parlare da sdraiati, con il corpo scosso dalle convulsioni.
Alan, intanto, si è trasformato in pesce. Nei deliri del genitore un incontro è possibile, ma non la parola. Il corpo del bambino è diventato quasi molle e senza scheletro, le articolazioni non legano più, Alan è un essere abituato alla libertà del fluido liquido, sguscia tra le braccia del padre in impossibili valzer, guizza di qua e di là per poi tornare fatalmente nella sua nuova Atlantide. Il fondale si apre e lo ingoia dietro uno schermo che ne offusca la messa a fuoco; uno specchio diafano gli doppia i movimenti. A dispetto dell’enormità del mare, dove si può fare amicizia con alghe e anemoni e immaginare mondi immensi, il suo angolo è stretto e limitato, è una bara di luce che non contiene più di una persona.
In questa favola lirica, incorniciata dai colori sgargianti delle animazioni (fluide e ben curate da Daniele Salaris), i tragitti a piedi diventano grotteschi videogame da abitare con gesti meccanici, il lungo tragitto per lasciare la Siria e raggiungere la Svezia attraversa capitali/cartolina, ma c’è spazio anche per la schiacciante pressione dei media, quando il profugo deve rispondere a mille domande sotto il peso dei microfoni o imparare un arzigogolato e poliglotta decalogo di regole da rispettare.
L’uso del codice della favola sembra avere l’intento di rendere universale un capitolo orribile della storia etica del mondo contemporaneo, astraendosi dalla brutalità del fatto così come è stato diffuso e recuperando una forma di affezione verso immagini vive, firmando un’alleanza rinnovata con la materialità dei corpi, curata infatti nei movimenti scenici fino a un dettaglio quasi coreografico.
Sappiamo che la foto di Alan con il volto affondato nella sabbia – qui mai mostrata, solo evocata nella posa iniziale di Degirolamo e nel rosso/blu dei suoi abiti – ha aperto cuori e coscienze degli utenti dei media di massa e digitali, ha aperto il portafogli degli stati europei al cospetto dell’inferno dei rifugiati. Ma quanto realmente ci riguarda tutto ciò che sta dietro?
Nell’elegante costruzione visiva e nella scansione drammaturgica resiste ancora qualche concessione a una sorta di barocchismo, a un’apparenza plateale: una più massiccia presenza di spettatori bambini, portatori di un immaginario più libero del nostro, garantirebbe forse un terreno di ricezione più neutro. Se Fa’afafine discuteva un’evidenza contemporanea lontana dalla maggioranza delle biografie degli spettatori, Alan e il mare maneggia un tema scottante, ma ancor di più punta a stemperarne quell’oscenità messa a punto dai media, di cui siamo tutti responsabili.
L’operazione corre così sul filo della sollecitazione retorica, eppure mira a sollecitare un’immaginazione attiva (dagli 8 anni in su): per mettere a punto questo scarto poetico il segno registico tenta allora di ricompensare lo spettatore (senza età) con un preciso controllo dei mezzi e dei modi, in equilibrio tra il rituale di espiazione e la denuncia alla superficialità, fotografando il fatto reale sullo sfondo di una disperata battaglia con la nostra relativa percezione.
Ogni riferimento alla cronaca, la quale guadagna una nettezza agghiacciante solo nel finale, subisce in quest’opera una sorta di redenzione del linguaggio. Allora poesia e fiaba sono usate qui non come zucchero per far mandare giù una pillola, ma come grido disperato per mostrare il livello carnale – e, per contrasto, immaginifico – di un’esperienza mediatica che tutto il mondo ha vissuto nella piattezza della bidimensionalità.
Soprattutto le immagini fotografiche, che nella puntualità fondano la propria estetica, si posizionano in un “tempo-senza-tempo”, per dirla con Manuel Castells, in cui non sembra esservi speranza di radicarle nel terreno della coscienza. Navighiamo nella ormai proverbiale atemporalità dell’evento: nella società della condivisione e della trasparenza ogni contenuto si fissa istantaneamente e, in quello stesso istante, il suo impatto smette di progredire, sommerso dall’onda delle “reazioni”. Allora, forse, la risposta sta nell’immaginazione e nel corpo.
Sergio Lo Gatto
[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]
ALAN E IL MARE
testo e regia Giuliano Scarpinato
assistente alla drammaturgia Gioia Salvatori
interpreti Federico Brugnone, Michele Degirolamo
in video Elena Aimone
scene Diana Ciufo
luci Danilo Facco
videoproiezioni Daniele Salaris
movimenti scenici Gaia Clotilde Chernetich
costumi Giuliano Scarpinato
progetto grafico Rooy Charlie Lana
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Accademia Perduta Romagna Teatri
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