Nel corso della IX edizione del festival “Teatro fra le Generazioni”, tenutosi tra Castelfiorentino ed Empoli dal 19 al 22 marzo, ci siamo posti diversi interrogativi. Abbiamo coinvolto nelle nostre riflessioni anche gli artisti e le compagnie presenti al festival (QUI): esiste un’istanza pedagogica nel teatro rivolto alle giovani generazioni? Che tipo di linguaggi esso utilizza e in che modo si relaziona con le nuove forme di comunicazione?
Intendiamo affrontare questi argomenti analizzando alcuni degli spettacoli presentati al festival. Tra i più interessanti emergono quelli che non hanno cercato facili scorciatoie, ma si sono rivolti al proprio destinatario con onestà, indagando la complessità dei contenuti proposti.
Si tratta di un teatro che non riduce e non soffoca i propri mezzi espressivi, ma anzi sfrutta strumenti diversificati, dalla figura alle ombre, dalla danza alle proiezioni. La scelta di utilizzare linguaggi evocativi e carichi di suggestioni nasce dal desiderio di lasciare uno spazio vuoto che l’immaginazione dei bambini potesse riempire: i bambini in questo modo si assumono la propria responsabilità di spettatori e prendono parte al gioco teatrale. La scelta di tempi distesi, di lunghe pause tra momenti narrativi e momenti dedicati allo scorrere delle immagini ha dimostrato la necessità, da parte di diverse compagnie, di restituire al pubblico di spettatori bambini quella lentezza e quell’attenzione minate dall’utilizzo delle nuove tecnologie.
La questione dei linguaggi trova certamente grande spazio di riflessione nel teatro di figura, dove l’utilizzo di ombre, maschere, burattini, marionette, pupazzi e oggetti crea una frattura con la realtà, ma nello stesso tempo riesce a raccontarla evocando mondi e atmosfere. Un esempio di teatro di figura è “La gazza ladra”, spettacolo ideato da Paolo Valli e Katarina Janoskova, anche attori in scena, e pensato per bambini dai 3 anni in su. Il testo, scritto da Francesco Niccolini, che intreccia l’omonima opera di Rossini, della quale Mario Autore ha elaborato le musiche, con la storia del diluvio universale – la gazza fu l’unico animale a non ripararsi sull’Arca, ma a volarci sopra – viene raccontata attraverso immagini ispirate alle opere dell’illustratore genovese Emanuele Luzzati. Gli attori giocano sul palco, inventano ruoli, spazi e azioni sempre nuovi, invitando il pubblico a uno sforzo immaginativo e creativo. Gli spettatori sono immersi in un mondo che si arricchisce progressivamente di luci, sagome di cartone, ombre e musica in un crescendo di entusiasmo fino alla salvezza dal diluvio, che tutto lava riportando il colore.
Si rivolge a una fascia d’età più alta, dai 6 anni, “Non ho l’età”, una produzione di Riserva Canini e Campsirago Residenza, per la regia di Marco Ferro e Valeria Sacco. Lo spettacolo prende vita dalle riflessioni sul tema del tempo, condivise, durante un percorso laboratoriale, con bambini dai 6 ai 10 anni. Attraverso l’utilizzo di una corda, che assume le più svariate forme, e due pupazzi, gli attori Manuela De Meo e Pietro Traldi costruiscono una partitura fisica che ripercorre le varie fasi della vita: il rapporto dell’uomo con la memoria, la nascita e la morte, l’amore. I rari momenti narrativi sono affidati a una voce fuori campo. I gesti sono concreti, funzionali, privi di qualsiasi stilizzazione e mantengono in questo modo tutta la loro emotività, caricandosi di attesa. Tra l’attesa e la realizzazione della forma c’è un tempo sospeso in cui tutto può essere o non essere, c’è il tempo dell’immaginazione e dell’intuizione. A differenza della colorata esuberanza de “La gazza ladra”, lo spettacolo di Riserva Canini lascia che la semplicità della messinscena tenga aperti tutti gli interrogativi sulla questione del tempo, “in modo che la fantasia possa collegare i puntini e costruire un disegno che sarà diverso per ognuno”, come ricorda l’attrice Manuela De Meo. Il bambino, in questo caso, non solo non viene messo al riparo dalla complessità del mondo, come spesso accade, ma, anzi, le sue stesse riflessioni diventano materia dalla quale attingere per la costruzione dello spettacolo.
Un altro interessante lavoro è La meccanica del cuore, una coproduzione del Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita, tratto dall’omonimo romanzo di Mathias Malzieu e diretto da marco Maccieri e Angela Ruozzi. Si tratta di uno spettacolo in cui sia la parola che l’impianto scenografico occupano un grande spazio. La storia, dai tratti fiabeschi, racconta di Jack, un giovane dall’oscuro passato, che può sopravvivere solo grazie a una magia della sua levatrice, Madeleine. La donna ha applicato al suo cuore un orologio, raccomandando al ragazzo di non innamorarsi mai perché questo sentimento potrebbe distruggere quel marchingegno al quale la sua vita è legata. Una storia che parla di crescita, di identità, del rapporto con la realtà. Scopriremo che l’orologio di Jack non è altro che il tentativo, da parte della sua levatrice, di proteggere il ragazzo dalle emozioni e dal dolore che possono procurare. Il ragazzo per anni vive con il peso della sua fragilità, della sua malattia, della sua infelicità. Jack si fida di Madeleine e solo quando si strappa l’orologio dal petto, preso dalla disperazione per un amore finito, si accorge dell’inganno. La realtà non è sempre come sembra e spesso le nostre convinzioni riescono a stravolgerla. Si tratta di tematiche molto vicine al pubblico preadolescente al quale lo spettacolo si rivolge. La messinscena guadagna grande fascino grazie all’utilizzo di sagome e ombre, opera di Garioni e Montecchi. L’ombra diviene lo strumento per trattare gli elementi centrali e più sensibili dello spettacolo, come il ricordo, la scoperta dell’amore e della sessualità, il confine tra realtà e finzione. La scelta di questo linguaggio permette di ricreare l’atmosfera onirica del romanzo che si riempie di senso proprio grazie a tutti quegli elementi che lo allontanano dalla nostra realtà quotidiana, ma lo avvicinano alle nostre esperienze emotive. Come descrivere l’amore, la gelosia, la rabbia? “Mi sono sentito come se…” diciamo spesso. A volte abbiamo bisogno di una metafora per farci chiari. In questo spettacolo il linguaggio del teatro di figura diventa metafora di un mondo apparentemente sconosciuto.
L’utilizzo delle immagini diventa centrale nello spettacolo di Vania Pucci, “Di segno in segno”, una produzione di Giallo Mare Minimal Teatro che quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di repliche. Adriana Zamboni interagisce con l’attrice in scena realizzando delle immagini che per mezzo di una lavagna luminosa vengono proiettate su un fondale bianco, unico elemento scenografico, dando corpo al racconto. Vania Pucci attraverso una finestra guarda il mondo e lo descrive, passando dai pianeti agli oceani. Quando lo spettacolo nacque l’utilizzo della lavagna luminosa era una novità assoluta in teatro e permetteva di comporre in modo immediato le immagini sul fondale. Oggi i linguaggi utilizzati per questo lavoro diventano ancora più interessanti rispetto al discorso sulle nuove tecnologie, che sempre di più mettono i bambini di fronte a immagini preconfezionate. Vedere un’artista che con la sola abilità manuale aggiunge pellicole e colori mettendo insieme una forma dopo l’altra provoca una forte curiosità nello spettatore. “Di segno in segno”, un titolo che non a caso contiene anche il gioco di parole Disegno-Insegno, si colloca tra gli spettacoli che puntano sulla stimolazione sensoriale per raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità immaginative. Uno spettacolo che non rinuncia, dopo vent’anni, a portare in teatro una forma narrativa da fruire pazientemente, immagine dopo immagine, parola dopo parola, gesto dopo gesto.
L’utilizzo di linguaggi diversificati è stato dunque utile alle compagnie per rendere leggibile lo spettacolo a più livelli, per ampliare le possibilità di comprensione, per lasciarsi guidare dall’intuito. Il valore pedagogico di uno spettacolo, in fondo, non è rintracciabile anche a partire dalla scelta, di cui si accennava all’inizio, di lasciare degli spazi vuoti da riempire, di non imbrigliare l’immaginazione, ma di lasciarla correre libera?
Nella Califano, Michele Spinicci
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