Cosa può un burattino? “Macbeth all’improvviso” di Gigio Brunello
È proprio di un certo tipo di teatro mostrare i confini della scena, dichiarare esplicitamente la finzione per saggiarne poi le capacità di tenuta, l’abilità nel “trasmutarsi” di livello in livello rappresentativo. Così fa, praticamente sin dall’istante in cui si accendono le luci e si apre la baracca, Macbeth all’improvviso di Gigio Brunello, un piccolo classico della ricerca per burattini. È infatti lo stesso burattinaio a porsi giusto un passo “al di qua” del patto narrativo, allentandolo, anzi, proprio nel momento in cui sembrerebbe doverlo stringere nella maniera più solenne: «Buonasera a tutti. Sono il burattinaio che questa sera farà lo spettacolo. Purtroppo devo iniziare con un piccolo cambiamento di programma. La tragedia Macbeth all’improvviso prevista per oggi non si fa». Un faro da 500 watt illumina con toni caldi Gigio Brunello, in piedi davanti alla baracca. È fuori dalla scena propriamente detta (almeno per ciò che concerne la grammatica del teatro di figura), ma allo stesso tempo e senza alcun dubbio è in scena, cioè calato dentro una parte che è già teatro, che costituisce al di là di ogni ragionevole dubbio un racconto. Il Macbeth non si farà: mancano i costumi e gli oggetti rifiniti per bene, e pare poi che l’artista – per sua stessa ammissione – non si sia preparato a sufficienza. Perciò, una volta entrato finalmente in baracca, Gigio Brunello dà vita, o perlomeno ci tenta, a tutto un altro genere di spettacolo restando, però, pienamente nell’ambito della meta-narrazione, del meta-teatro: il primo personaggio a presentarsi sul palco, dopo un “consueto” Arlecchino che interloquisce col pubblico “facendo gli onori di casa” («Mi scuso col pubblico ma prima di cominciare vorrei dissociarmi con una mia dichiarazione. Anche per il rispetto che il pubblico si merita») e mettendosi in giocoso contrasto con il burattinaio («Tutte scuse. La verità è che gli manca il coraggio di rappresentare il Macbeth»), è infatti un cosiddetto “generico”, un burattino cioè che costituisce usualmente la “struttura base” sulla quale vengono elaborati tutti gli altri burattini. Un semplice “scheletro” grezzo di legno, capo e volto intercambiabili a piacimento proprio come intercambiabili sembrano i piani e i livelli della narrazione, che passa dal Macbeth abortito dell’inizio a intermezzi di sospensione della storia fino a un fantomatico L’emigrante geloso di Goldoni che incomincia a tutti gli effetti da lì a qualche momento. I protagonisti sono le classiche maschere della commedia dell’arte, da Arlecchino a Brighella, a Pantalone e Balanzone, che in una altrettanto classica ambientazione veneziana si barcamenano fra intrighi amorosi, scambi di persona ed equivoci discorsivi in un affastellamento di vicende che pare ricalcare un andamento edipico (se non fosse che per i toni scherzosi e che al poto del rapporto incestuoso assistiamo infine a un parricidio inconsapevole). Alle spalle dei burattini, il fondo della parte alta della baracca è spoglio e parzialmente illuminato, in assenza dunque di scenografia ma anzi lasciando l’edificazione simbolica di una qualche quarta parete del tutto incompiuta. Gli stessi burattini-personaggi si mostrano consapevoli del contesto circostante: stanno “dentro” la storia e ne ricalcano con la recitazione gli andamenti emotivi, ma allo stesso tempo non mancano di ribadire il carattere artificioso del loro essere in scena (finite le loro battute si “auto-appendono”, visibilmente, ai ganci posizionati alle pareti interne del proscenio).
È come un mantice di fisarmonica che si apre e si chiude: talvolta l’immersione nella storia e nel lirismo arriva al massimo grado di pathos – noi tutti spettatori a seguire il dramma come incollati – mentre in altre occasioni la tensione narrativa si affievolisce lasciando emergere il sottotesto finzionale, la triangolazione incessante che si svolge tra burattini, baracca e burattinaio. Eppure, non si ha mai l’impressione di uno “stacco”, di scene differenti e disomogenee fra loro. Al contrario: è come se i vari piani e livelli fossero avviluppati ai personaggi stessi in un’unica e singolare “multidimensionalità”, che può espandersi o contarsi a piacimento. Proprio come – e appunto – il canale di trasmissione del suono di uno strumento musicale, la cui forma cambia e si modifica per trasmettere le vibrazioni, lasciando però intatta la coerenza melodica della melodia di superficie.
Fino a una scena che è, tuttavia, netta e dirimente. Dopo essersi mostrato al di fuori della baracca (“in carne e ossa”, per così dire) e dopo aver interagito con i burattini sia da demiurgo onnisciente che da “personaggio fra personaggi”, Gigio Brunello cede infine e definitivamente il passo alle “entità” che occupano il palco: «Ho detto che si fa il Macbeth. Ce l’hai il fegato?», afferma in maniera perentoria il “solito” Arlecchino che, a un certo punto dello spettacolo e in un momento di “stanca” della rappresentazione, decide in combutta con gli altri burattini di lasciar da parte la messa in scena dell’inedito goldoniano e riprendere il programma originario. «Indietro non si torna», risponde Birghella, dando appuntamento “a mezzanotte” sul palco per intraprendere ufficialmente l’allestimento shakespeariano.
Da qui, Macbeth all’improvviso prende sostanzialmente un’altra piega, dando dunque un senso compiuto al titolo e aggiungendo un ulteriore livello alla narrazione. I burattini – chi con maggiore convinzione, chi con meno, chi dovendo cambiare radicalmente il proprio tono recitativo e chi invece chiamato a operare delle semplici “rimodulazioni” per adattarsi al nuovo personaggio – iniziano la messa in scena della tragedia, provando a “sfidare” i propri limiti espressivi e presentando agli spettatori questa svolta del racconto come qualcosa di nascosto e segreto, di cui saremmo complici: «Sior capocomico, noi abbiamo deciso di tornare al Macbeth», dice Arlecchino rivolgendosi a Pantalone e indirettamente al pubblico. «Anche perché alla gente piace il sangue». E, d’altronde, che cos’è questa ricercata conflittualità (fittizia) fra burattinaio e burattini, per cui questi ultimi sembrano sfuggire alla più completa volontà del primo, se non un tentativo di avvicinare spettacolo e spettatori, sguardo della (dalla) platea e meccanismo scenico? Arlecchino e compagnia ci convincono non solo che Gigio Brunello non li sta manovrando – dopo che il momento iniziale ci aveva invece mostrato l’evidenza del contrario – ma anzi che il burattinaio sia all’oscuro di quanto sta accadendo sul palco. È questo – a richiamare le vicende della prima “tranche” di storia – un vero e proprio “parricidio teatrale” che trova infatti una sorta di concretizzazione scenica: a un certo punto il braccio di Brunello verrà tagliato da Arlecchino-Macbeth a segnare in maniera truculenta, sebbene a suo modo anche comica, il desiderio di emancipazione dei burattini. È come se si volesse condurre la “sospensione di incredulità” da parte del pubblico a un livello di complessità sempre più alto, dove però allora la coerenza dei vari piani di finzione comincia a sfaldarsi e le narrazioni si mescolano («Torniamo a fare L’emigrante geloso», piagnucola sempre Arlecchino in uno dei momenti di maggiore tensione degli sviluppi shakespeariani).
Quale domanda sorregge tutta l’operazione? Si tratta, evidentemente, di un corpo a corpo dell’autore con la sua materia, di un esplorazione ambigua e incessante di quella linea che divide l’alterità propria di ciascun burattino dalla volontà di chi lo manovra. In altre parole, Gigio Brunello si “sacrifica” per far sì che le sue “creature” assumano una maggiore autonomia, guadagna la capacità di diventare – in un modo bizzarro e che forse non può che essere sanguinolento e traumatico – co-autrici della narrazione. Eppure, sembra dirci lo spettacolo, una tale dinamica non può che avvenire nel solco di uno iato inatteso, grazie a una scelta intrapresa – appunto – all’improvviso, sebbene poi la struttura dello spettacolo sia qualcosa di evidentemente previsto e ben strutturato fin dall’inizio. Il divenire-personaggio dei burattini – e in questo senso il richiamo al “burattino generico” acquisisce un valore fondamentale – non è, cioè, qualcosa che si verifica nel momento in cui i vari e differenti “pezzi di legno” assumono una loro compiutezza e specificità, indossano magari i “giusti” costumi e impostano la voce nel modo in cui meglio si confà alla maschera che andranno a interpretare, bensì il segno – tangibile e tangibilmente ambivalente – di un’indecisione, di un conclamato tentativo di posizionarsi nel frammezzo dei fatti e delle possibilità sceniche. Di posizionarsi, esattamente come faceva Brunello, all’inizio dello spettacolo, un passo “al di qua” del patto narrativo, in quel punto in cui la concreta fattualità di quest’ultimo viene consegnata in tutto e per tutto nelle mani dell’attore, di chi da quel momento in poi dovrà – letteralmente – farsi carico dell’andamento della rappresentazione, sia che si tratti di un “finto Goldoni” o del Macbeth di Shakespeare. Trovandosi a spiegare che cosa è un attore all’interno dell’ingranaggio teatrale, diceva Eduardo De Filippo nel suo Lezioni di teatro: «[…] il regista non ha il diritto di cambiare l’animo del personaggio come lui pensa, perché il vero confessore del personaggio è l’attore. È lui che lo porta in scena». Ecco – ci fa capire Brunello – un burattino non è certo da meno.
Francesco Brusa