Dieci anni fa nasceva a Siena un progetto che sarebbe diventato un unicum in Italia, grazie alla sua ambiziosa missione: permettere la circuitazione degli spettacoli di compagnie emergenti. Si tratta di In-Box, una vera e propria visione della compagnia Straligut, che consapevole, per esperienza, delle difficoltà legate alla diffusione dei propri spettacoli, ha ideato un progetto a sostegno delle compagnie. Una visione che in poco tempo si è concretizzata in un grande progetto, a metà tra un concorso, una vetrina e un festival, una rete che riunisce oltre 60 sostenitori e che in dieci anni ha premiato ben 47 compagnie emergenti. Fabrizio Trisciani e Francesco Perroni, due tra i fondatori di Straligut, spiegano che per loro parlare di compagnie emergenti non vuol dire identificarle dal punto di vista anagrafico, ma qualitativo. L’obiettivo di In-Box è infatti proprio quello di offrire visibilità a tutte quelle realtà teatrali che pur realizzando spettacoli di qualità non hanno la possibilità di far circuitare e quindi conoscere le proprie produzioni. Da qui l’idea di mettere in palio delle tournée di repliche pagate che, in molti casi, hanno permesso alle compagnie di rimettersi in gioco dopo un momento di impasse.
Un progetto che nasce da un’esigenza e da un desiderio e che trova un sentito sostegno da parte di numerosi soggetti, non può che svilupparsi in un clima familiare e accogliente. È questa, infatti, l’atmosfera che si respirava a Siena nel corso dei tre giorni in cui i 6 finalisti di In-Box Verde, dedicato al teatro per le nuove generazioni, hanno presentato i propri spettacoli in presenza della giuria che ne ha decretato i vincitori, agli operatori e agli alunni delle scuole primarie della provincia di Siena.
Assistere alla messinscena degli spettacoli selezionati per In-Box Verde, significa comprendere da un lato i tipi di linguaggi che le compagnie decidono di utilizzare per rivolgersi al giovane pubblico e dall’altro in che modo queste scelte vengano valutate da soggetti tutti diversi tra loro come festival, compagnie, teatri pubblici e privati e rassegne. Il risultato è una pluralità di punti di vista rispetto alla visione che si ha del giovane pubblico, dei suoi gusti, delle sue necessità.
La fiaba resta ancora uno dei territori più esplorati, un luogo in cui sperimentare differenti modalità di narrazione e dal quale attingere per parlare ai bambini delle tappe fondamentali della crescita.
È infatti proprio una fiaba ad aprire la manifestazione. La compagnia pugliese Kuziba, finalista di In-Box Verde 2018, e che rappresenta un esempio di quelle realtà teatrali che anche grazie a In-Box sono riuscite a rilanciare il proprio lavoro, presentano, fuori concorso, lo spettacolo Nel castello di Barbablu. Una curatissima scenografia accoglie gli elementi principali della fiaba: le porte e le chiavi, vale a dire la soglia da varcare e la possibilità di farlo attraverso la trasgressione. La grande porta del castello si dischiude sinistramente lasciando intravedere l’ambigua figura di Barbablu: un uomo elegante e apparentemente gentile, ma che non mostra il suo sguardo, nascosto dal cilindro che indossa. Barbablu, del quale avvertiamo la presenza prima ancora che si palesi, perché ne udiamo il fischiettare lento e monotono, pare non condividere in maniera sincera la stessa gioia della sua sposa, che già vede solo come un’altra delle sue vittime: danza con lei fin quando ne ha voglia, poi la lascia bruscamente e quando i suoi ordini non sono immediatamente esauditi la voce si fa severa, poi spaventosamente minacciosa. Una dinamica del genere rende immediato il paragone con la donna sottomessa a un uomo violento e, infatti, questa è anche una storia di femminicidio, che, come spesso accade, comincia con un uomo inizialmente affascinante e premuroso (“tu sei la padrona … puoi andare dove vuoi, aprire tutte le porte che vuoi”) ma pronto a incollerirsi alla prima occasione (“ma quello stanzino deve rimanere chiuso. Se dovessi aprirlo, la mia rabbia sarà terribile e non so dirti cosa ti farò”). A muovere il lavoro della compagnia, è l’istinto della curiosità, quello di una giovane sposa, che quando si ritrova tra le mani le decine di chiavi che aprono le decine di stanze del misterioso castello di Barbablu, non riesce a rispettare la promessa di utilizzarle tutte, meno che una. La chiave, come elemento intrigante che stimola la disobbedienza, diventa quasi ossessione, desiderio di sperimentare il proprio limite. D’altra parte l’immagine della soglia è un classico della fiaba. La soglia, metaforicamente, rappresenta la possibilità dell’attraversamento, è l’esperienza iniziatica, che originariamente passava dal confronto diretto con la morte, finalizzata al superamento delle paure e necessaria a misurare il coraggio di spingersi oltre il limite imposto per seguire un istinto, che è quello della crescita. È infatti proprio con la morte che la giovane sposa di Barbablu si confronta una volta varcata la soglia e da quel momento non sarà più possibile tornare indietro. La spensieratezza dell’infanzia è stata, di colpo, lacerata come un velo sottile, dietro il quale si nasconde il buio da attraversare.
Il tema della disobbedienza è quello che ispira anche la Compagnia Zaches Teatro, che con il suo Cappuccetto Rosso si aggiudica il secondo posto a In-Box Verde. In questo caso la trasgressione avviene da parte di Cappuccetto Rosso, che attraversa il bosco da sola per raggiungere la casa della nonna. Si tratta di uno spettacolo ricchissimo di simboli, in cui gli Zaches hanno saputo sapientemente utilizzare le moltissime versioni della fiaba esplorandone e sviluppandone gli elementi più inquietanti, concentrandosi in particolare sul rapporto tra il lupo e la bambina, un vera e propria relazione amorosa che culmina nella scelta di Cappuccetto Rosso di infilarsi sotto le coperte insieme al lupo, che ha appena divorato la nonna. Si tratta di un momento molto delicato della storia, che si sviluppa sempre su due livelli, uno segue le vicende della fiaba che tutti conosciamo, l’altro si costruisce a partire da elementi simbolici. Questo doppia lettura si fa molto chiara quando la bambina, sola in un bosco buio, invaso da ombre e suoni sinistri, viene consolata dalla presenza di un cerbiatto, con il quale fa amicizia. Subito dopo dei suoni confusi. La bambina esce di scena di corsa e ritorna con un fazzoletto sporco di sangue: il cerbiatto non è stato risparmiato dal bosco, perché la Natura non è sempre gentile, come non lo è la vita, e non a caso, proprio quando la bambina prende coscienza di questo, diventa chiaro che quel sangue simboleggia anche il passaggio dall’infanzia alla pubertà. Il finale, che può sembrare irrisolto, perché si sospende nel momento clou della storia, chiude invece coerentemente il cerchio del racconto. All’inizio dello spettacolo, infatti, una bambina ascolta la fiaba di Cappuccetto Rosso fino al momento in cui il lupo divora la protagonista, per poi addormentarsi e sognarne, immedesimandosi nel personaggio stesso della fiaba e risvegliandosi, alla fine, cresciuta, nel suo letto. Questa trasformazione è stata possibile proprio grazie al superamento della prova iniziatica che passa attraverso la morte, la pancia del lupo, così come la sposa di Barbablu, scoprendo la morte oltre la porta proibita, non può essere più la stessa: si spezza l’incantesimo perfetto dell’infanzia.
A proposito delle tematiche e dei linguaggi, che variano a seconda del proprio destinatario, quando spettatori non sono più bambini, ma adolescenti, diventa molto sentito il tema della diversità, della percezione di sé in mezzo agli altri, del timore di non essere compresi. È il caso di Storto, della compagnia toscana InQuanto Teatro, che ha ricevuto la menzione speciale della giuria del Premio Scenario 2011 e che si è classificato terzo a In-Box Verde. Lo spettacolo, tratto da Mongoloide, un testo autobiografico di Matilde Piran, vede due adolescenti che, accomunati dal sentimento di sentirsi diversi, storti, appunto, decidono di scappare. Lui è un amante dei fumetti e pensa che questa sua passione lo allontani dagli altri, che hanno interessi molto diversi dai suoi; lei ha un fratello disabile e teme di essere giudicata non per quello che davvero è, ma solo in quanto sorella di un bambino affetto da sindrome di Down. La fuga che mettono a punto è piuttosto una sfida con se stessi: “ce la faremo?” sembrano chiedersi. Non importa davvero dove andare e se ci arriveranno mai. Nessuno dei due, forse, parte davvero con l’idea di non tornare più e neppure di andare troppo lontano. Ciò che conta è dimostrare a se stessi di essere riusciti a partire, mettendo in moto una vecchia auto sgangherata, costruendo alla meglio una capanna per ripararsi dalla pioggia, per poi cedere alla prima telefonata di un adulto che va in loro soccorso. Non un adulto qualsiasi, ma una “prof”, che nasconde una vita molto più trasgressiva di quello che pensano e anche questo dimostra loro che le apparenze, spesso, non corrispondo alla verità e che bisogna sempre grattare sotto la superficie. Questa piccola avventura permette ai due protagonisti di uscire allo scoperto e di affermare la propria identità, il diritto di sbagliare, di essere storti. È interessante la scelta di utilizzare delle proiezioni sullo sfondo che seguono le vicende della storia reinterpretandole graficamente nello stile del fumetto. La storia si svolge dunque da un lato a partire dal corpo e dalle intenzioni degli attori e dall’altro attraverso il susseguirsi di immagini riconoscibili agli spettatori, che possono sovrapporle ironicamente alla propria biografia. D’altra parte è questa l’età delle caricature, dei soprannomi, della necessità, insomma, di identificarsi o di identificare l’altro in maniera marcata, per dimostrare disprezzo o profondissimo affetto. È il periodo degli eccessi, in cui spesso risulta difficile comunicare, esprimersi, ma è comunque necessario; e allora a volte si sceglie di farlo utilizzando altri linguaggi, come i protagonisti di Storto: l’uno si rifugia nell’attività del disegno, l’altra nell’ostentare un atteggiamento ruvido che sembra fatto apposta per scoraggiare chiunque voglia avvicinarsi. Scopriremo che questa apparente chiusura nasconde la necessità di sentirsi accettati per quello che si è, e a volte, quello che si è, è molto meno terrificante di quello che, per provocazione, ci si impegna a dimostrare.
Una parola che accomuna lo spettacolo precedente con A naso in aria di Schedìa Teatro, è evasione. In questo caso l’evasione è quella dalla vita quotidiana e in particolare dalla città, che con le sue luci al neon non ci permette più di distinguere le stelle, a meno che, non ci spingiamo in un parco, di notte, per metterci “a naso in aria”, come il Marcovaldo di Italo Calvino. Lo spettacolo si ispira proprio a questo poetico romanzo e infatti la scenografia è costruita con l’utilizzo di lettere che formano la parola degli oggetti rappresentati, come se gli attori si trovassero tra le pagine di un libro. Il protagonista di Marcovaldo si trova a vivere incredibili avventure perché si concede alla poesia delle cose che lo circondano ed è ciò che accade ai due protagonisti dello spettacolo: ogni volta che si incontrano al parco, assistono a eventi meravigliosi, come l’alternarsi delle stagioni, la trasformazione di un bruco in una farfalla, la vita di animali di ogni sorta. Queste piccole scoperte sono possibili solo grazie all’osservazione paziente, alla contemplazione del mondo che intorno a loro si anima e che spesso risulta invisibile agli occhi di chi non sa soffermarsi. Si tratta di un lavoro molto delicato in cui proiezioni e ombre si alternano per restituire l’immagine di un mondo nascosto, da guardare al microscopio, perché occorre attenzione e dedizione per individuarne le molteplici forme. È una storia d’amore, tra un uomo e una donna, forse, ma anche e soprattutto per la vita. A naso in aria non intende esprimere un giudizio negativo sulla città, ma sottolinea la necessità di conservare uno sguardo aperto, per poter immaginare spazi nuovi che ci corrispondano e ritagliarci un luogo segreto per il nostro mondo interiore, pur accettando che le luci al neon si confondano con quelle delle stelle, purché ne impariamo a riconoscere la differenza.
La proiezione di immagini è uno dei linguaggi adoperati dalla compagnia Il teatro nel baule per Storia di uno Schiaccianoci, uno spettacolo in cui si alternano teatro d’attore, narrazione, fumetto e teatro di figura. Lo spettacolo è tratto dal racconto di Hoffman “Lo schiaccianoci e il re dei topi”, che ispirò Tchajkovskij per il suo celebre balletto “Lo Schiaccianoci” e si sviluppa attraverso una sequenza di immagini che non intendono illustrare, come dichiara la stessa compagnia, ma accennare, proprio come avviene nei fumetti. Si vuole raccontare con l’aiuto del disegno, della luce e del colore per ricreare un’atmosfera surreale e onirica, nella quale si intrecciano due storie: quella dello zio Drosselmayer, in carne e ossa davanti a noi spettatori e quella di Marie, la nipotina, intrappolata nel regno delle bambole, che vediamo proiettato sullo sfondo, con il suo Schiaccianoci, un giocattolo trovato sotto l’albero di Natale. I due si sono avventurati in quel luogo per combattere il re dei topi e sciogliere l’incantesimo della signora Toponia, che ha reso orrende le sembianze dello Schiaccianoci. Marie non si cura dell’aspetto del suo amico e lo accetta per quello che è: sarà proprio questo amore incondizionato a salvarlo. La storia si svolge a partire dal susseguirsi delle immagini di Marie e dello Schiaccianoci alle prese con la loro avventura in una sorta di dimensione parallela con la quale zio Dosselmayer comunica attraverso una grande macchina zeppa di ingranaggi da azionare. Lo zio fa di tutto per riportare a casa Marie, e intanto si rivolge al pubblico e a un topolino suo aiutante utilizzando dei neologismi. Questa scelta linguistica se da una parte contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più surreale, dall’altra intende stabilire un contatto immediato con il mondo dell’infanzia. Alla fine Marie, che per noi spettatori era stata fino a quel momento solo un’immagine, liberata dal regno delle bambole, raggiunge lo zio. In questo caso vediamo come l’utilizzo delle proiezioni sia servito a raddoppiare i piani della storia, per cui lo spettatore assiste contemporaneamente al racconto del narratore, lo zio, e alla storia che si svolge nel regno delle bambole, una dimensione altra alla quale abbiamo accesso grazie alle immagini che si alternano sullo sfondo descrivendo la storia. Una storia nella storia, dunque, alla fine della quale, la sorpresa più grande è quella di vedere Marie che finalmente è riuscita a raggiungere lo zio, proprio come se fosse saltata fuori dalle pagine di un libro.
Ancora ombre e pupazzi per Il mulo, uno spettacolo dell’Associazione 4gatti, in cui si intende raccontare uno dei tanti momenti drammatici della prima guerra mondiale attraverso gli occhi di un mulo, protagonista della storia insieme a un alpino. Il mulo, Biagio, non capisce davvero cosa stia accadendo intorno a lui, ma sente che qualcosa sta cambiando. Dove sono finiti i campi d’erba grassa? Perché gli controllano i denti e le zampe e lo portano via? L’alpino, Chicco, sa benissimo che tornare vivi a casa è l’unico grande obiettivo da perseguire. E a casa sua vuole portare anche Biagio, così scrive in una lettera alla madre. I due, però, a casa non torneranno mai. Una storia triste come la guerra, ma che riesce a strappare qualche sorriso, grazie alle colorite espressioni del dialetto lombardo, all’ingenuità di Biagio e alla dolcezza di Chicco, che non perde mai la sua umanità e cerca la bellezza nell’unico grande gesto che riesce a riempire ancora l’anima quando tutto intorno crolla: l’affetto verso un altro essere vivente.
La necessità della compagnia è quella di mantenere viva la memoria e per farlo si servono dell’omonimo libro di Francesca Sangalli, che racconta la storia dell’amicizia tra un asino e l’ufficiale Federico Bertolini ispirandosi alle memorie del bisnonno. Una storia narrata con semplicità, in cui si cerca di coinvolgere il giovane pubblico nell’esercizio della memoria.
Ed è proprio di memoria, quella dell’uomo, che passa attraverso le storie, fondatrici di civiltà, che parla lo spettacolo vincitore di In Box Verde, Kanu, della compagnia Piccoli Idilli. Si tratta della narrazione di Bintou Ouattara che avvolta in una lunga veste bianca racconta una storia africana (malinkè) utilizzando in alcuni passaggi la lingua bambarà, mentre Daouda Diabate e Kadi Coulibaly, griot del Burkina Faso, cantano e suonano strumenti tradizionali, come kora, gangan, bara e calebasse, luminosissimi nei loro costumi azzurri. Azzurro perché questa è anche un racconto di acqua, come sugerisce un bambino del pubblico. È la triste storia della nascita del fiume Niger, che si genera dopo la morte della prediletta tra le mogli di un re. Il re per il dolore raggiunge l’amata, che ormai è una cosa sola con l’acqua sparente del fiume, e per stare sempre con lei si trasforma in un ippopotamo. Questa è la storia di un amore che non ha lieto fine, anzi, di due amori, perché il re, a sua volta, è amato di un amore profondissimo e non corrisposto da un’altra delle sue mogli, che lo segue fino al fiume e si trasforma in un coccodrillo per non lasciarlo mai. Kanu in lingua bambarà significa proprio amore. Bintou è seduta in mezzo al pubblico, i musicisti cominciano a suonare, la festa inizia, perché questo spettacolo è una festa, ha la semplicità e la genuinità della festa collettiva che si celebra con gioioso coinvolgimento. Infine, anche la narratrice raggiunge il palco e prende parte alla festa ringraziando per tutte le cose belle che le sono capitate durante la giornata, come una sorta di preghiera che invoca gratitudine e non chiede, ma ringrazia per quello che c’è. La storia ha inizio ed è scandita da canti e danze alle quali il pubblico è invitato a partecipare. La narrazione diventa il pretesto per la condivisione, che passa attraverso la parola, la voce, il suono, il movimento. Una grande energia invade il teatro. Una storia triste che non genera tristezza, ma che invita a rispettare il ciclo della vita, ricordando che l’amore è la forza dal quale si genera la vita come la morte e che tutto questo ci appartiene profondamente e ci lega l’uno all’altro.
Passando in rassegna gli spettacoli presenti a In box Verde risulta evidentissimo l’utilizzo delle nuove tecnologie per parlare al giovane pubblico, certo perché si tratta di un linguaggio più immediato per i cosiddetti “nativi digitali”, ma anche perché le compagnie stesse, spesso, sentono la necessità di sperimentare nuovi linguaggi, com’è giusto che sia, perché tutto cambia e si rinnova. L’importante è che il teatro possa restare il luogo in cui il tempo si sospende per la durata di una storia, il luogo in cui si racconta. E che lo si faccia con ombre, pupazzi, proiezioni, fumetti, forse poco importa se lo spettacolo proposto riesce ad accompagnare lo spettatore in un viaggio privato, pur se vissuto insieme agli altri, in cui si possano innescare domande, pensieri nuovi, confronti con qualcosa che si sente diverso o simile a noi. In fondo il bisogno di ascoltare e di raccontare nasce con l’uomo e non si perde, ma si trasforma. Sicuramente il compito del teatro è quello di aprire delle possibilità, di portare gli spettatori lontano dalla realtà quotidiana affinché ci ritornino in qualche modo cambiati. I modi per farlo sono molteplici, i linguaggi svariati. Probabilmente, al di là dei mezzi, l’unica strada auspicabile per un teatro che si rivolga alle nuove generazioni resta quello di partire dai suoi destinatari e di rivolgersi a loro con rispetto e onestà.
Nella Califano
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