La parola ai protagonisti: teatro ragazzi e pedagogia – Parte prima

Interrogarsi sul teatro ragazzi significa innanzitutto considerarne il destinatario, lo spettatore bambino, che si trova nel pieno della sua fase di formazione.

Abbiamo approfittato della presenza al festival “Teatro fra le generazioni” di Castelfiorentino di attori, registi e drammaturghi che hanno visto nascere l’esperienza del teatro ragazzi o che a esso si sono avvicinati di recente, per domandarci, insieme a loro, in che termini si pone la relazione tra arte e pedagogia in questo contesto spettacolare e se questa relazione sia necessaria. A partire da questa domanda, la discussione si è allargata ai contenuti degli spettacoli e ai linguaggi utilizzati per renderli fruibili allo spettatore. L’utilizzo delle fiabe è una scelta adoperata in moltissime occasioni, ma le modalità di messinscena variano a seconda del valore che le compagnie riconoscono a questi grandi contenitori di archetipi. Lo stesso discorso vale per la scelta dei linguaggi. Abbiamo assistito a spettacoli in cui particolare rilievo era affidato alla parola, ad altri in cui si preferiva evocare la storia o parte della storia, attraverso immagini, ombre, suoni, luci.

La possibilità di confrontarci da una parte con delle
compagnie storiche e dall’altra con artisti approdati al teatro ragazzi in un
contesto storico diverso da quello in cui esso si è sviluppato, ci ha permesso
di riflettere, ascoltando diversi punti vista, sulle eventuali mancanze di cui
oggi il teatro ragazzi soffre e sul cambiamento che esso ha subito rispetto ai
suoi esordi.

In attesa di un racconto più approfondito di alcuni degli spettacoli presenti alla nona edizione del festival e di un ragionamento sui temi emersi nel corso delle nostre visioni, riportiamo la prima parte delle numerose e intense conversazioni raccolte nel corso di queste quattro ricche giornate a Castelfiorentino.

Renata ColucciniAmici per la pelle (titolo provvisorio), Teatro del Buratto e Atir Teatro Ringhiera (qui l’intervista integrale)

Mila Boeri e David Remondini durante una scena di Amici per la pelle

L’educazione comincia quando entri semplicemente a teatro e sei messo davanti a un atto d’arte; per poter parlare di pedagogia è fondamentale fare un passo ulteriore e chiedersi anche perché si stanno veicolando certi contenuti, che domande e che curiosità si vogliono muovere attraverso di essi. Altrettanto fondamentale è che questi contenuti rappresentino un’urgenza anche per chi cura la messa in scena.

Nel caso del nostro spettacolo l’urgenza dei drammaturghi era la questione del rispetto dell’ambiente, che già ha un alto valore educativo e pedagogico di per sé. Lavorando abbiamo capito però che si poteva spostare il focus sul rispetto di se stessi e dell’altro, mostrando poi come il rispetto per l’ambiente venga di conseguenza. Dico questo perché spesso si parte con l’idea di veicolare dei contenuti e delle riflessioni, ma molto spesso si finisce per spostare il centro della ricerca a partire anche dalla propria urgenza.

Giusi Merli Pinocchi,Progetti Carpe Diem/La casa delle storie e Il Lavoratorio

Spesso chi realizza spettacoli di teatro ragazzi crede di rivolgersi a un pubblico che capisce poco o niente, per cui produce rappresentazioni che sono solamente divertenti. Questo però non è teatro, è un affronto ai bambini. Il vero teatro invece, come tutta la vera arte, è già di per sé pedagogico perché sa insegnare l’apertura e la ricettività verso i sentimenti e le emozioni. Sono proprio i bambini quelli più pronti a schiudere la mente, il cervello, l’anima davanti all’energia umana che il teatro porta con sé.

Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di mettere in scena soltanto i primi quindici capitoli di “Pinocchio”, nato come un romanzo a puntate che si concludeva con la morte per impiccagione del protagonista. Non ci interessava molto il fatto che Pinocchio imparasse a comportarsi bene e diventasse un bambino vero, preferivamo far emergere l’umanità e la forza dirompente di questo personaggio, che è ciò che può comunicare di più ai bambini e a tutti gli spettatori.

Compagnia Zaches TeatroCappuccetto Rosso (qui l’intervista integrale)

Amalia Ruocco in una scena di Cappuccetto rosso

Ci chiediamo continuamente se l’arte debba essere “schiava” della pedagogia e il più delle volte ci troviamo in disaccordo su questo tema. Quando è nata la nostra compagnia non era orientata al teatro ragazzi, anzi avevamo intenzione di tenerci lontani da ogni categoria e da ogni schema prefissato.

Noi facciamo teatro, il nostro interesse è abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile. Se abbiamo deciso di rivolgerci ai giovanissimi è perché pensiamo che in questa fase dovrebbero essere accompagnati a una visione più consapevole e per questo servono degli strumenti. Per noi è importante offrire degli stimoli, delle sollecitazioni capaci di far scaturire riflessioni che poi i bambini potranno approfondire insieme ai loro genitori e agli insegnanti.

Francesco Niccolini – Il grande gioco, Associazione Teatro Giovane Teatro Pirata e La gazza ladra, Compagnia l’asina sull’isola (qui l’intervista integrale)

Francesco Niccolini (dal sito: rai.it)

Più che il problema della pedagogia in senso stretto, della formazione del pubblico, ciò che ricerco è un effetto di meraviglia e la condivisione di essa. Scrivendo, il mio scopo è quello di creare un ponte tra il palco e la platea e fare sì che sia chi sta in scena che lo spettatore percorrano un tratto di quel ponte, non è pensabile che si avanzi solo da una parte. Per dare luogo a questo incontro è necessario un linguaggio comune, intriso di curiosità e meraviglia.  

Ritengo che una storia valga la pena di essere raccontata solo se sta a cuore a chi la racconta. In questo modo sarà in grado di evocare allo spettatore qualcosa della sua vita o, per un bambino, qualcosa che sia alla base degli archetipi che lo accompagneranno. Questo è ciò che ricerco nel mio teatro: aumentare almeno di un battito la frequenza del cuore, che sia quello di un bambino di quattro anni o di un adulto di novanta.

Vania PucciDi segno in segno, Giallo Mare Minimal Teatro

Vania Pucci in una scena di Di segno in segno (dal sito: giallomare.it)

Tra chi pensa che il teatro ragazzi non debba avere nessun fine didattico ed educativo e chi considera queste componenti essenziali, io mi colloco nel mezzo. Il teatro ragazzi deve esprimere un contenuto artistico, ma non può ignorare che i suoi destinatari si trovino nel bel mezzo del loro processo di formazione.

Io ho studiato pedagogia e ho lavorato nella scuola dell’infanzia per molti anni prima di arrivare al teatro per bambini, che per me è stato un modo diverso e nuovo di relazionarmi con la scuola e i ragazzi; per questo nei miei spettacoli non posso trascurare l’aspetto formativo. La difficoltà è quella di comprendere i confini tra arte e pedagogia e in che modo coniugare questi due aspetti.

Nello spettacolo di oggi, nato venti anni fa, queste due componenti, quella pedagogica e quella artistica, coesistono ed è evidente già nel titolo: “Di segno in segno”, che si può leggere anche come “Disegno insegno”. L’utilizzo della lavagna luminosa nello spettacolo (che fu una novità all’epoca) ha un valore poetico, offre un momento di visione artistica, ma cerca anche di lavorare sulla creatività, facendo accostare i bambini a uno strumento che non conoscono.

Compagnia MaMiMòLa meccanica del cuore, Centro TeatraleMaMiMò e Teatro Gioco Vita (qui l’intervista integrale)

Una scena de La meccanica del cuore (dal sito: canalearte.tv; ph: Nicolò Degl’Incerti Tocci)

Lo spettacolo nasce da una collaborazione tra Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Gioco Vita –  entrambe compagnie che lavorano nell’ambito del teatro ragazzi –  quindi in noi è vivissima l’idea di utilizzare l’arte come strumento pedagogico. Nel caso specifico di questo spettacolo, pensato come tout public, ci siamo focalizzati su alcuni temi principali, come l’evoluzione emotiva del protagonista o il bisogno a noi comune di riconoscere la nostra identità al di là delle maschere che gli altri ci impongono.

Bisogna rivelarsi a se stessi e al mondo per quello che si è, conoscersi e accettarsi. Secondo noi l’arte ha questa funzione, assume questo tipo di valore. Attraverso l’arte i protagonisti dello spettacolo cercano di conoscere se stessi, e l’unico modo per farlo è rischiare e farsi male. I bambini di oggi sono da un certo punto di vista fin troppo protetti; se leggiamo le fiabe classiche ci rendiamo conto di quanto siano piene di orrore, smarrimento, meraviglia, stupore, anche disagio. Capiamo che per diventare grandi soffrire è inevitabile. Ecco! La nostra storia parla proprio di un giovane che da bambino è stato forse fin troppo “protetto”, troppo condizionato dagli altri, e adesso non ha più fiducia in se stesso e nella vita.

Nella Califano, Michele Spinicci