Essere se stessi, o la rivincita della ferinità

Cosa si cerca in uno spettacolo teatrale rivolto alle nuove generazioni? Quando un adulto porta un bambino a teatro (perché il bambino è portato e non può scegliere di recarvisi da solo come lo psicologo e studioso Giorgio Testa specifica) in base a cosa sceglie quale rappresentazione vedere? Deve essere un titolo classico (una fiaba appartenente al repertorio per l’infanzia…), affrontare un tema caldo per la società odierna (il bullismo o l’utilizzo delle nuove tecnologie…), trattare concetti utili alla crescita personale del bambino (altruismo, comprensione, rispetto…), fargli capire quale sia il suo ruolo nel mondo? Spesso gli adulti chiedono allo spettacolo teatrale una predisposizione alla pedagogia, dove per quest’ultima si intende “la disciplina che studia i problemi relativi all’educazione e alla formazione dell’uomo, avvalendosi dell’apporto di numerose altre scienze allo scopo di indicare i principi, i metodi, i sistemi su cui modellare la concreta prassi educativa” (fonte Treccani). Il teatro diventa quindi un viatico attraverso cui fornire al bambino alcuni strumenti utili che come una bussola possano guidarlo a districarsi nel mondo, lo rendano capace di relazionarsi con le altre persone, di sviluppare un comportamento di rispetto verso se stesso e verso gli altri. Ma non è solo questo – che potrebbe far apparire il teatro come una sorta di semplice stampella in soccorso all’educazione (e forse sembrare didascalico – e in proposito rimandiamo a una piccola inchiesta. Il teatro tocca la sfera emotiva, offrendo allo spettatore (bambino, ma anche adulto) molto di più che questioni su cui apprendere lezioni e interrogarsi, perché lo si vive sulla propria pelle e diventa un dispositivo potente, diretto: passa attraverso un linguaggio prorompente, è un corpo a corpo che arriva prima della stessa parola, si serve di immagini evocative che aprono a un’alterità o ad altri mondi possibili, forse più gentili, in cui la bellezza è un valore aggiunto da rispettare, da invocare.

Al festival Maggio all’Infanzia abbiamo assistito a diversi spettacoli che suggerivano ai più piccoli con quale spirito affacciarsi alla vita. Se da una parte il tema del coraggio e della paura sono stati ampiamente indagati dall’altra parte abbiamo notato come molte compagnie abbiano esplorato il bisogno di spingere i bambini a essere se stessi. Ne Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo, spettacolo indicato dai 4 agli 8 anni, i simpatici pupazzi creati da Lucrezia Tritone, animati da Anna Chiara Castellano Visaggi e Giacomo Dimase, diretti a loro volta da Marianna Di Muro – affrontano in maniera semplice ed efficace, il tema dell’amore. Come tutti i bambini che si rispettino anche il piccolo Bruno pone infinite domande a tutti quelli che lo circondano, i genitori, gli amici e i maialini suoi compagni, per capire come poter essere accettato dagli altri. Utilizza una narrazione lineare – senza troppe sorprese – facendo leva su personaggi leggeri e divertenti che catturano i bambini in sala che ridono, partecipano a accettano alla fine Bruno – come i suoi amici  e soprattutto la sua nuova fidanzatina – nonostante la sua avversione all’acqua e al sapone. Non c’è dentifricio, capelli in ordine né vestiti puliti che tengano se questi piegano e trasformano la personalità: in fondo, sembra suggerirci lo spettacolo, chi ti ama lo fa per ciò che sei e non per ciò che vorresti sembrare. Insomma il messaggio finale di essere se stessi fino in fondo paga sempre, ci dice Bruno che Zozzo era e Zozzo rimane tra i gridolini entusiasti dei bambini che comprendono come l’essere amati vada al di là di ogni apparenza possibile, (nella speranza che non boicottino l’uso della saponetta per emulare il loro nuovo amico pupazzo).

Le nuove avventure di Bruno Lo Zozzo

Si confronta invece con una drammaturgia grottesca Emanuele Aldrovandi che compone Scarpette rosse per BIBOTeatro, con la rigorosa e pulita regia di Andrea Chiodi e le due brave ed esplosive attrici Alessia Candido e Miriam Costamagna. Le due scarpette rievocano la storia che le ha portate a far liberare, in una ragazzina che le aveva indossate, una energia irrefrenabile e incontrollabile senza però considerare le conseguenze negative che questa avrebbe portato alla bambina stessa (costretta a perdere i suoi piedi) e alla persona a lei più vicina (che dopo averla accudita si ritrova a morire in solitudine). E allora qui, in uno spettacolo proposto dai 9 anni, Aldrovandi spinge verso risultati estremi l’essere se stessi a tutti i costi, senza reprimere in alcuna misura le proprie pulsioni. La scrittura del drammaturgo emiliano è, come ci ha abituato anche nei suoi lavori “per adulti”, una scrittura insistente e insistita, qua e là scattante e nervosa, che cade “a goccia” sul palco scavando lo spazio e assumendo come motore interno le contraddizioni della volontà. Repressione contro pulsione, responsabilità contro libertà, riverenza contro autodeterminazione. La bambina, che a livello logico-narrativo è la protagonista della storia, viene ridotta a un pupazzo gigante inanimato mentre le scarpette rosse, i due oggetti, sono impersonate da attrici in carne e ossa. È una sorta di “feticismo scenico”, che giustamente simboleggia un certo incancrenirsi della capacità di giudizio e scelta, la cristallizzazione del percorso di crescita su un solo e unico atto, la danza sfrenata, che piano piano diventa esasperazione, rito macabro, destino tragico.

Perché – sembrano dirci alcuni degli spettacoli di Maggio all’Infanzia – la “scoperta di se stessi” non è certo un pranzo di gala. Si tratta di un processo che libera energie dionisiache, potenzialmente pericolose e disgreganti. Occorre andare sempre contro qualcuno o qualcosa, siano le norme dell’apparenza (Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo) o le rigidità della morale comune (Scarpette rosse). Essere se stessi significa lottare?
I musicanti di Brema del Teatro delle Apparizioni dà a queste suggestioni precisi connotati politici. La storia della sgangherata “combriccola animale”, protagonista della fiaba dei fratelli Andersen, è affidata in scena al duo Bartolini/Baronio, che si incarica di arricchire la narrazione di voci, rumori, versi e loop chitarristici. C’è infatti la sovrapposizione fra racconto orale recitato e forma-concerto, per cui le vicenda e le gesta dei “musicanti” si intrecciano con canzoni live ed effetti sonori. In generale, perlomeno nei momenti più riusciti dello spettacolo, sono proprio due diverse sintassi a fondersi insieme: nel momento in cui gli animali fanno irruzione nella casa dei briganti, una delle scene-madre della fiaba, ecco che viene rotta anche la scenografia in un tripudio di luci e fumo sparato sul palco, come nel più classico “culmine” da concerto-rock. E a partire è la più classica delle canzoni di dissacrazione e ribellione nichiliste: Anarchy in the UK dei Sex Pistols. I padroni della fiaba, dai quali le bestie scappano, diventano allora i “padroni” contro cui si dirige la lotta di classe (verso la fine dello spettacolo vengono proiettate immagini che rimandano alle fabbriche e al mondo del lavoro odierno). Così il viaggio dei musicanti di Brema diventa un gesto politico, un romanzo on the road di stampo se non sessantottino perlomeno che affonda le radici nell’atmosfera beat (Che colpa abbiamo noi?, La mia banda suona il rock sono alcuni dei titoli suonati durante la messa in scena). Qualcosa che, per l’animalizzazione allegorica di vicende Politiche (con la P maiuscola), a tratti potrebbe ricordare due illustri precedenti: il classico La fattoria degli animali di Orwell e l’oramai altrettanto celebre Maus di Art Spiegelman.

Scarpette rosse

Essere se stessi non significa dunque guardarsi dentro, ma costruire delle alterità, proiettarsi verso un altrove utopico ma possibile. Anche se sembra paradossale, la “solitudine” (leggi: individualismo) è d’ostacolo, non d’aiuto, all’introspezione e alla scoperta di sé. Il filo concettuale di questi tre spettacoli pare dirci infatti che solo nell’incontro con l’altro, o meglio nella radicale spinta a volerlo “abbracciare” e comprendere, risiede il principio dell’essere se stessi.
Eppure, di quale Altro stiamo parlando? E in che modo esso viene evocato sul palco? Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo, Scarpette rosse e I musicanti di Brema sono proposte per certi versi antitetiche. La prima concepisce il diverso da sé come semplice relazione affettiva e interpersonale, facendo leva su una totale trasparenza e perfetta intelligibilità dell’approccio drammaturgico; le altre due rimandano invece a una dimensione oscura e inafferrabile dell’animo umano, che per Aldrovandi diventa un’energia irrefrenabile e scomposta con cui far “esplodere” gli elementi scenici in un processo parossistico, mentre per il Teatro delle Apparizioni è quasi la negazione dell’umano, nemmeno l’animalità ma una ferinità caotica e istintuale, che trova il proprio corrispettivo formale nella confusione di livelli e piani narrativo-scenografici (concerto rock, racconto, recitazione onomatopeica, etc.).
In generale, si intravede il rischio che procedimenti siffatti non riescano a reggersi da soli. Se, come accennavamo all’inizio, per pedagogia si intende appunto “bussola”, capacità di fornire al bambino strumenti per orientarsi, sembrerebbe che nel caso degli spettacoli di Marianna Di Muro, ma soprattutto di BIBOteatro e Fabrizio Pallara una tale istanza “educativa” non sia presente in scena ma venga rimandata a un momento del tutto “extra-teatrale”. Si evoca la sporcizia e il caos, si fanno riferimenti a immaginari politici abbastanza precisi e precisamente “schierati” che difficilmente risuoneranno nella mente di un bambino, lasciando però che tali elementi diventino preponderanti e non si risolvano nell’andamento generale del racconto. O, se lo fanno (come magari nel caso de Le nuove avventure di Bruno lo Zozzo), restano comunque parzialmente ambigui rispetto al “valore” che noi spettatori dovremmo attribuirgli. Dicevamo che lo spettacolo mostra come l’amore vada al di là di ogni apparenza. Vero, ma ciò non toglie che Bruno sia rispetto alle convenzioni sociali un “diverso”, volendo anche un filo emarginato per via di questa sua diversità (che è, nella levità del racconto, la semplice abitudine di non lavarsi). Che farsene di questa abitudine, una volta che si è riscattati dall’amore e si viene accettati? Ribadire la propria diversità con orgoglio in quanto scelta oppure proclamarne l’insignificanza rispetto ad altre caratteristiche che ci accomunano? Similmente, pensando a Scarpette rosse, come consideriamo il coraggio della ribellione nel momento in cui ci viene mostrato che questo coraggio viene punito dall’autorità o dal “destino”?
Ma, d’altronde, dicevamo anche che un bambino viene portato a teatro, ed è forse giusto che uno spettacolo si assuma il rischio di rimanere aperto, di sottrarsi a una comprensione immediata demandando appunto ai vari “attori della mediazione” (scuola, genitori, operatori…) il compito di riempire dubbi e vuoti con ulteriori domande. Ricordandoci che non sempre trionfa il bene e che esistono situazioni in cui l’umano ha bisogno di soccombere alla “rivincita della ferinità” per rigenerarsi (e, pensando allo strano connubio di fiaba, animali e musica a tutto volume che è I musicanti di Brema, non è appunto il rock una delle massime e più scandalose rivincite della ferinità della storia?).
Ricordandoci che, infine, dobbiamo a volte guardare con sospetto al sentirci troppo “soddisfatti” e rasserenati a teatro. Per citare Walter Siti (e rimandando a un concetto di cui abbiamo parlato estesamente), «se perfino i clown rientrano nei ranghi, chi difenderà le ascensione dell’eros contro il grigio della rinuncia?»

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Erotismo e infanzia: l’educazione oltre i tabù

La ricca e variegata vetrina di Bari di quest’anno ha suscitato diverse riflessioni, tra le quali una riferita al corpo come possibilità drammaturgica, come linguaggio in grado di parlare all’infanzia per la propria potenza simbolica. Il corpo nella sua espressione energica e vitale contiene una forte componente erotica intesa come desiderio, istinto, movimento verso.
Una delle domande che ci siamo posti a partire dall’analisi del corpo in scena ha a che fare con la possibilità di presentare al pubblico bambino uno spettacolo di cui il contenuto erotico possa risultare evidente e diventare, così, opportunità di confronto (più o meno consapevole) con i moti interiori e le sensazioni fisiche dello spettatore. Nella breve inchiesta che abbiamo condotto al festival si faceva riferimento a un’infanzia verso la quale, spesso, nutriamo pregiudizi che ci portano a preservarla da temi considerati tabù e, a questo proposito, sono state illuminanti le parole di Luigi D’Elia, secondo il quale ci troviamo in un’epoca in cui viene negato il corpo al bambino. E di conseguenza tutto ciò che da esso deriva e che a esso è collegato. È possibile che questa negazione del corpo sia ancora una volta determinata dalla paura dell’adulto? Da un’ipocrita repressione degli istinti alla quale consegue una tendenza a lasciar confluire nel (forse, per molti, poco chiaro) concetto di eros unicamente gli aspetti legati alla violenza e al male?
Luigi D’Elia per raccontare il suo lavoro di narratore in Zanna Bianca non può fare a meno di parlare di eccitazione, che corrisponde a un risvegliarsi dell’energia vitale. Le stesse parole pronunciate da D’Elia, magistralmente tessute dalla sensibilità di Francesco Niccolini, che nello smontare e rimontare un classico della letteratura, instaurando un dialogo intenso e rispettoso con l’autore, riesce a cogliere il senso profondo di una storia selvaggia eppure tutta umana, si generano a partire dal corpo stesso del narratore. Il corpo, racconta D’Elia, non si muove sulla scena assecondando una partitura gestuale prefissata e immutabile, ma ogni volta nuova e guidata dall’energia del momento, da un istinto animale, una pulsione di vita che è anche pulsione sessuale, perché corrisponde all’energia della creazione. Se non si libera questa eccitazione come si può raccontare di un lupo visceralmente legato alla sua foresta e, benché allevato come un cane, incapace di dimenticare il proprio istinto selvaggio? Come diventare lupi noi stessi e sentire il richiamo della luna senza lasciarsi invadere dall’energia vitale che si libera insieme a un ululato di gioia e gratitudine per la ritrovata Madre-foresta? Questa pulsione di vita prende un carattere ancora più marcatamente erotico quando Zanna Bianca incontra nella foresta una lupa, con la quale completerà il suo percorso di ritorno alla Natura accoppiandosi. Sullo sfondo lupi costruiti dallo stesso D’Elia con la garza, il ferro e la pietra, materia viva, immobili prima di un salto, prima di serrare le mascelle sulla carne calda e sussultante di una preda troppo lenta. E intanto le parole vibranti di un narratore che ci mostra paesaggi e stagioni e umori accompagnandoci, lupo tra i lupi, in una storia che è di tutti, che tocca antiche comuni corde nascoste e profonde: un richiamo, dalla foresta. Tutto questo inizia e finisce con il sentimento dell’eccitazione, che è istinto ma anche amore per la vita, perché nulla esiste senza amore. Eros e amore. Eros è amore. E non se ne dovrebbe aver paura, piuttosto lasciarlo scorrere come naturale moto vitale dal quale tutto si origina e al quale tutto ritorna.

In Sogno di Fontemaggiore Teatro tratto da Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, l’erotismo è ancora una volta nei corpi guizzanti degli attori che, ispirandosi alla commedia dell’arte, si esibiscono in vere e proprie danze amorose: corpi che si protendono e si ritraggono sotto il potere di un fiore che, all’improvviso, esplode e invade la scena con il suo polline magico. Una metafora, ancora una volta, dell’erotismo che prende il sopravvento, sconvolge, muove, eccita. E in questo turbinio di emozioni Puck e Fiordipisello scoprono l’amore; non sono in grado di riconoscerlo subito, ma basta uno sguardo o il suono della voce dell’altro perché i loro corpi inizino ad agitarsi, le sensazioni ad amplificarsi, l’energia vitale a scorrere… a questo punto non resta più nulla da capire, ma solo da sentire e lasciarsi prendere da questa energia, cedere al desiderio dell’amore.
Amore ed erotismo li ritroviamo ancora in Canto la storia dell’astuto Ulisse, uno spettacolo irresistibile, scritto e diretto da Flavio Albanese, in cui con leggerezza, profondità e con la poesia delle ombre di Emanuele Luzzati, capaci di sospendere il tempo della storia, il mito diventa fiaba per arrivare dritto al cuore delle esperienze di ogni spettatore. Ulisse e Penelope, alla fine del lungo e avventuroso viaggio del sovrano greco più famoso di tutti i tempi, si riconoscono e si abbracciano; a questo punto gli dei intervengono per rendere la loro notte “la più bella che potesse essere mai sognata”. Le parole sono esplicite, si allude a una notte d’amore e ci sembra quasi di vedere le luci che si abbassano e i due innamorati sparire tra coltri di lana ruvida e pesante. Albanese, però, sottolinea che a emergere non è l’atto sessuale in sé, che non riveste un particolare interesse, ma piuttosto la bellezza del ritrovarsi e del riconoscersi di due innamorati. Penelope e Ulisse, infatti, ottengono in dono dagli dei la giovinezza e la freschezza dei loro corpi, la stessa della prima volta che si erano conosciuti e dunque, viene restituita loro quella spinta vitale, erotica, di un corpo verso un altro corpo, quella curiosità, quel desiderio inscindibili dall’amore o dall’innamoramento, da quel bisogno, insomma, di entrare in relazione con ciò che ci attrae. Ancora una volta amore e eros, indivisibili facce di una stessa medaglia.
In Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale, un fiore, una rosa che passa dalle mani della bambina a quelle del lupo, anche qui, come in Sogno, diventa metafora del desiderio, rafforzata da una danza ambigua come la storia stessa di Charles Perrault. Il regista esplicita il doppio senso presente nel racconto originale e non edulcorato dell’autore francese in cui, nella morale, si mettono in guardia “i bambini e specialmente le bambine” dai lupi che “hanno faccia di persone garbate e piene di complimenti e belle maniere”, proprio come il lupo di Campanale, un uomo elegante e aggraziato ballerino. Sebbene, probabilmente, i bambini non colgano la sottigliezza di questo passaggio, restano comunque certamente colpiti dall’immagine di un tipo di persone da evitare. E infatti il lupo che divora a tradimento una bambina indifesa si definisce come un personaggio cattivo e meritevole di morte. Il problema, però, non è quello di essere un lupo con i propri istinti. Zanna Bianca è un lupo, ma ha tutta la comprensione e l’affetto degli spettatori e segue l’istinto della sopravvivenza, che comprende anche la necessità di procacciarsi del cibo uccidendo una preda indifesa. Ma lo fa lottando, con quella ”ostinazione” della foresta di cui parlano Niccolini e D’Elia. Il lupo di Cappuccetto Rosso, invece, è prima di tutto un ingannatore, non si mostra per ciò che è. Non ha istinti sinceri e naturali, non lotta alla pari, non ha rispetto. Così come, dunque, il problema non è essere un lupo, allo stesso modo, forse, il problema non è parlare di eros, ma pensare che a questo concetto corrisponda solo un’idea distorta dell’amore.
È possibile che ci sia bisogno di restituire importanza al corpo e agli istinti parlando con naturalezza di erotismo, inteso come energia vitale e creativa, piuttosto che nascondersi ancora dietro a un’idea edulcorata, romanzata e idealizzata dell’amore, dimenticando quell’aspetto legato all’eccitazione che è spinta alla vita?
La risposta non sta nell’occultare l’elemento erotico e neppure nell’affrontarlo in maniera banale e superficiale. In un’epoca in cui la sessualità è diventata oggetto di consumo e l’erotismo strumento privilegiato del marketing, sembra determinante affrontare questo argomento. In questo senso l’arte, come gli spettacoli analizzati hanno in parte dimostrato, può avere un ruolo pedagogico essenziale, per i bambini come per gli adulti.

Nella Califano

(fotografie di Massimo Bertoni)




«Mi capite anche se parlo greco?» Una conversazione con Flavio Albanese

Al festival di Maggio all’Infanzia Flavio Albanese era in scena con Canto la storia dell’astuto Ulisse (una produzione Piccolo Teatro, Teatro Gioco-Vita e Compagnia del Sole). Il viaggio e le gesta dell’eroe greco vengono presentati ai bambini con un approccio che è allo stesso tempo dialogico, teso a coinvolgere il pubblico con una serie di domande, e immersivo, grazie anche alle ombre del maestro Lele Luzzati.
Abbiamo chiacchierato con l’attore, provando a capire da quali domande e da quali percorsi arriva la sua peculiare presenza scenica e chiedendoci in che modo teatro, mito e conoscenza vadano a formare un tutt’uno inscindibile

Cosa ti spinge a occuparti di teatro ragazzi e qual è il tuo punto di partenza per orientarti nella relazione con questo tipo di pubblico?

Sono arrivato al teatro ragazzi per caso. Porto avanti ricerche legate ai temi che mi affascinano e incuriosiscono fin da ragazzo, fin da bambino addirittura, e verso i quali sento l’esigenza di approfondire. Questo è il punto di partenza. Ho sempre condiviso il mio percorso artistico con Marinella Anaclerio, e lei ha fatto altrettanto con me, forse è anche la mia compagna di vita da così tanto tempo proprio perché con lei metto in comune dubbi, domande, incertezze che alimentano le nostre ricerche generando i nostri spettacoli e animando ogni nostro progetto, senza trovare mai una parola definitiva, perché l’unica cosa che ci sembra chiara è che nulla di quello che fai può essere completamente certo e risolto.
Quando ho affrontato per la prima volta i dialoghi platonici studiando con un maestro russo molto vicino al lavoro di Vasil’ev, sono rimasto colpito da come l’immortalità dell’anima venisse dimostrata attraverso un processo geometrico-matematico assolutamente razionale e potesse essere compresa da chiunque, anche da una bambino. Ho sentito che avrei potuto proporre questi stessi dialoghi filosofici proprio a quei ragazzi che normalmente non amano la filosofia e la matematica, suscitando in loro un certo divertimento e dimostrando attraverso il teatro quanta meraviglia possa esserci nella ricerca di “come ottenere il doppio di una superficie di un quadrato con il lato di due piedi”. Ho capito che da questo punto di vista, il cosiddetto “teatro ragazzi” possiede straordinarie potenzialità.

Cosa ha guidato la tua scelta di mettere in scena la storia di Ulisse?

Il mito mi affascina molto, lo considero “l’hard-disk” della conoscenza più profonda che l’uomo aveva accumulato prima dell’invenzione della scrittura. Era una conoscenza fatta di cose visibili e invisibili che convivono senza pregiudizio e solo nel mito; l’uomo ha trovato uno spazio possibile per far convivere come in una formula magica il visibile e l’invisibile. Infatti l’essere umano è composto da una parte visibile e una invisibile.
I bambini capiscono e accettano più facilmente degli adulti i miti perché assomigliano formalmente alle fiabe e alle favole (anche se le favole sono essenzialmente diverse). La psicanalisi si è soffermata a lungo sul mito perché ha intuito che lì c’è qualcosa che si ancora fortemente nel profondo dell’essere umano, e ci sono tantissimi legami anche con la scienza: infatti la prima cosa che spiego ai ragazzi alla fine di ogni spettacolo, quando ci fermiamo a parlare e riflettere, è che i miti aiutano gli scienziati a realizzare nuove scoperte così come le favole aiutano i bambini a scoprire il mondo.
Ci sono intuizioni straordinarie, per esempio: all’inizio c’era il caos, poi Gea e Urano che generano l’infinito (tutte le cose visibili e invisibili) ma tutte queste cose non hanno spazio per venire fuori; si manifestano solo quando Gea e Urano si dividono nel momento in cui Crono, col falcetto, li separa; infatti in quel momento inizia il regno del Tempo e nasce lo spazio… È qualcosa di vicinissimo alla descrizione del Big Bang che tratteggia Hawking nel suo Dal Big Bang ai buchi neri, in cui parla di «lampadine che iniziano ad accendersi nell’universo» (un’immagine teatrale straordinaria!).
Ci sono fortissime connessioni fra il mito, la scienza e la spiritualità, soprattutto nel momento in cui la scienza inizia ad “annusare” la fisica quantistica e quando dall’idea di atomo si passa al concetto di “vibrazione”. Penso fortemente al Vangelo di Giovanni «in principio era il Verbo» dove
“Verbo” vuol dire proprio vibrazione, che in principio era presso Dio… che fossero i quanti?! Eh Eh Eh (rido perché non bisogna prendersi troppo sul serio).
Insomma voglio dire che quello che presento ai ragazzi è sempre associato a un percorso profondo di studio e di ricerca personale.
Lo spettacolo realizzato con Francesco Niccolini L’universo è un materasso, per esempio, è nato lavorando a stretto contatto con un docente universitario, Marco Giliberti, che verificava di volta in volta i contenuti scientifici del testo. Lo stesso titolo deriva da una sua spiegazione.
Dunque per me è molto importante trasmettere queste modalità di conoscenza alle nuove generazioni, soprattutto per stimolarli ad accendere processi di ricerca piuttosto che cercare risposte.

Infatti i tuoi spettacoli non sono divulgativi…

Il mio intento non è quello di divulgare – non sono un divulgatore – ma di trasmettere un processo di pensiero, che poi è lo stesso che utilizzo, per esempio, all’inizio dello spettacolo sull’Odissea. Voglio che i ragazzi comprendano che la difficoltà di tradurre un testo non è la ricerca delle parole esatte ma nella capacità di intercettare quella mentalità che ha dato origine a quelle parole.
Tornare a quella mentalità apre tantissimi “buchi”… neri … Significa cambiare il modo di pensare il mondo, prima di viverci. È lo stesso concetto per cui è importante pensare il teatro, prima di farlo.
Ho bisogno di tutto questo per “sentire” Ulisse dentro di me, per sentire appunto il desiderio di ricerca. Lavorare in questo modo mi sintonizza con la parte sconosciuta di ciò che mi circonda.


Che ruolo ha lo spazio scenico nella costruzione drammaturgica dei tuoi spettacoli?

In questo momento del mio percorso lo spazio scenico è uno spazio che comprende anche il pubblico. Una volta rimasi fulminato dalle parole di Paolo Rossi che mi disse: «Ricordati che gli attori non fanno teatro per il pubblico, ma con il pubblico». Ecco, il mio istinto teatrale va in questa direzione. La mia formazione è strehleriana con una forte influenza russa, per me esiste uno spazio unico in cui il pubblico è parte dello spettacolo. Si tratta, in fondo, di qualcosa di vicino anche alla commedia dell’arte.
Nel caso dello spettacolo su Ulisse ero coadiuvato in scena da un mezzo molto potente ed espressivo: le ombre di Luzzati. Le sue immagini sono molto più potenti della mia recitazione perché contengono quell’elemento irrazionale che inevitabilmente suscita grande fascinazione nel pubblico: “le cose invisibili sono molto più potenti di quelle visibili”. È dunque inevitabile che a un certo punto le ombre prendano il sopravvento. Allora piano piano mi sono fatto da parte, mostrando solo in qualche accenno la mia presenza e lasciando “libere” le ombre in scena.

Il tuo spettacolo è ricco di momenti esilaranti, ma è possibile utilizzare la comicità e il divertimento senza cadere nella trappola della risata facile?

Questa è la trappolona in cui rischia di cadere qualsiasi attore, perché si cerca sempre di ottenere il consenso del pubblico. Prima di mettere in scena uno spettacolo, come dicevo, mi preparo, studio tantissimo e tutto ciò che dico è frutto di ricerche, che spesso durano dei mesi, sostenute dal costante confronto con Marinella, prima di tutto, e poi amici e docenti universitari, filosofi e studiosi che si appassionano con me, mi accompagnano nel processo creativo. Quando maneggi molto bene una materia o un argomento, proprio come quando ti presenti ben preparato a un’interrogazione, diventi leggero, perché sei libero di parlare senza pensare e questa leggerezza a volte diventa commedia. Cerco di non pensare, penso tutto prima… ogni volta che penso di voler far ridere divento più pesante… ecco, forse il significato della parola “battuta”…va in battere… quella è farsa; la commedia va in “levare”… devo lavorarci, tento ancora…
È un po’ come il rischio di suonare Chopin, esibendo un atteggiamento romantico. No! È già Chopin stesso a essere romantico. Tu suona semplicemente le note così come sono! Similmente per Shakespeare: funziona se resti aderente al testo, sovrapporre il tuo pensiero spesso lo volgarizza, lo rende pesante e, a meno che tu non sia Carmelo Bene, quando reciti dei grandi autori, se cerchi di sovrapporti con il tuo pensiero, li banalizzi.
Penso che di fronte a dei “capolavori” sia necessario mettersi al loro servizio e “giocarci”.
Il “play”, il “jouer” nel senso di recitare indica proprio la distanza che l’attore frappone fra sé e il personaggio, e che gli consente, appunto, di giocare come un bambino e non scherzare come un adulto. Ed ecco che ci troviamo a fare i conti con la cosiddetta “misura”: sapere quando stai facendo “troppo” ed è una fortuna incontrare nel tuo percorso artistico qualcuno di cui ti fidi e che ti possa fare da specchio; ho infatti sempre bisogno di una figura che mi osservi dall’esterno. Francesco Niccolini, Marinella Anaclerio, Giovanni Soresi, mia madre a volte e qualche critico leale, sono le persone a cui mi affido e che mi ricordano quando il mio “ego attoriale” sta prevaricando gli obiettivi dello spettacolo. La misura a volte va ricordata con severità ma sempre con un amore per il teatro che va avanti… sempre…

In che modo si può affrontare il tema dell’amore, anche fisico, con il pubblico bambino?

Quando Penelope e Ulisse si rincontrano dopo vent’anni, gli dei con un incantesimo ridonano loro la giovinezza, lo stesso aspetto che avevano nel momento in cui si erano conosciuti per la prima volta. È un po’ questa l’essenza dell’amore, no? Dell’amore, non dell’innamoramento, che necessita della materia. L’amore è talmente immenso da farti ringiovanire. Non dimentichiamoci che il rincontrarsi di Ulisse e Penelope è preceduto anche da un riconoscersi. Nel momento in cui ci si riconosce, ecco che il tempo non esiste più, diventa circolare e ci si ritrova immersi in quella sorgente da cui nasce tutto, dal pianto al riso… Due anziani innamorati, che si prendono per mano, per strada, sono molto simili a due ragazzi.

Nel tuo spettacolo, insomma, emerge l’amore come forza che muove tutte le cose piuttosto che l’elemento erotico…

Amor che muove il sole e l’altre stelle!
Esistono due tipi di eros. Dopo Caos si manifestano Gea, Urano e Eros il primo Eros, ed è ciò che tiene unite le cose.
Quando ti innamori cerchi il contatto con l’altro, hai bisogno di stabilire una connessione profonda con le cose, vuoi unirti a tutto… e se questo aspetto tende a venir meno col tempo, la conseguenza è che si diventa più soli, tutto perde significato.
Platone nel Simposio dice che all’inizio si ricerca un altro corpo; poi cerchi tutti i corpi che ti piacciono, dopodiché ti accorgi che quello che stai cercando è in realtà la bellezza di quei corpi,
e col tempo ti rendi conto che la Bellezza è unica, per cui non cerchi più i corpi ma la Bellezza in sé e a poco a poco la tua ricerca della bellezza diventa ricerca dell’immortalità.
Prendi l’esempio di Sarah Kane, che in Italia ottenne il successo soprattutto per la scabrosità della sua scrittura, ma non sta lì il genio della Kane… Eros incarna l’entusiasmo, lo stupore, la curiosità per lo sconosciuto e quando scopri nuovi territori diventi più vasto perché devi comprenderli, ed essendo più vasto desideri ancora più cose… L’amore per le cose nasce dalla conoscenza che hai di esse… (Leonardo). Quando amore e conoscenza viaggiano insieme nasce il bello: questa è l’essenza dell’incontro fra Ulisse e Penelope. Perciò a quel punto compaiono gli Dei, rendendo la loro notte la “notte più bella che potesse essere mai sognata”. Per questo da una storia d’amore, che ti abbia ferito o meno, si esce sempre un po’ più “grandi”. E se hai il coraggio di andare fino in fondo, diventi più vasto. Anche quando per esempio ti ritrovi perso e disperato nella vita, devi adottare una prospettiva mitologica, altrimenti ti sembra tutto piccolo e senza senso.
Ecco, questo mi sembra il processo che sta alla base dei miei ultimi spettacoli. Si tratta sempre di vedere il macrocontesto in cui le storie sono comprese. Cerco l’archetipo che sta dietro le vicende e anche io come attore non cerco più solo un personaggio, ma la funzione di un tutto.
Capisci quindi perché Jung è andato a cercare nelle profondità dell’uomo servendosi del mito. Il mito spinge oltre il limite, aiuta a comprendere ciò che non si potrà mai conoscere con esattezza.
La scienza è un continuo progredire. Così la filosofia non è solo “sofia”, ma ricerca della conoscenza. Ecco se si prova a trattare questi processi senza utilizzare un codice mitologico ci si ritrova a parlare solo di sesso e non di Eros. Amor che muove il sole e l’altre stelle! La nostra compagnia si chiama Compagnia del Sole, capite? Anche se parlo greco?

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali