Dal 2 al 4 maggio saremo presenti come osservatorio critico al Festival Segnali di Milano, fra i principali appuntamenti nazionali di teatro ragazzi. Una rassegna giunta alle ventinovesima edizione, che ha spesso saputo coniugare un particolare sguardo sulle compagnie del territorio con una vocazione internazionale. Abbiamo conversato con le direttrici del festival, Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, provando a ragionare sul presente e sul futuro della scena per l’infanzia.
Ci potete presentare l’edizione di quest’anno e le scelte compiute? In generale, quali domande si pone o si dovrebbe porre chi organizza un festival di teatro ragazzi?
Giuditta Mingucci: Il lavoro di direttrici artistiche è sempre interessante: ricevere tante proposte consente di avere il polso di quello che sta succedendo in giro per l’Italia nel settore del teatro per ragazzi e individuare una serie di tendenze. Non abbiamo ovviamente la pretesa di avere il controllo di tutto, molte compagnie hanno presentato i loro lavori in altri festival e altre non sono rientrate nei nostri tempi di programmazione. Una grossa parte delle novità però confluisce certamente sotto il nostro sguardo. Restituire questa complessità è per noi una grossa responsabilità, da una parte verso le compagnie e dall’altra verso gli operatori che frequentano il festival con l’obiettivo di capire dove sta andando il teatro ragazzi e di trovare proposte interessanti da programmare. Tale criterio di responsabilità ci guida sempre nella selezione.
Da questo punto di vista, cerchiamo dunque di includere proposte di nuovi gruppi o nuove formazioni ma anche di osservare come stanno procedendo le compagnie con una storia più lunga alle loro spalle, nel tentativo di mostrare come proposte un tempo dirompenti abbiano poi inaugurato percorsi consolidati, che si evolvono continuamente dalle premesse iniziali. Anche quest’anno c’è inoltre la presenza di due compagnie internazionali: è sempre più frequente infatti la collaborazione tra artisti e/o istituzioni di paesi diversi all’interno dell’Europa. Sono elementi di novità che rispecchiano tra l’altro direzioni secondo noi assolutamente auspicabili per il teatro ragazzi.
Renata Coluccini: Quando ci troviamo davanti alla scelta degli spettacoli per Segnali, un pensiero che ci attraversa sempre e che dà adito a interessanti discussioni è capire quando uno spettacolo è da festival e quando è da programmazione. A volte le cose coincidono e a volte no, ma crediamo che nel festival debbano trovare spazio lavori che, per tema o linguaggio, osano un po’ di più e che proprio per questo possono avere più difficoltà di programmazione. Il festival è il luogo giusto per dargli voce.
Rispetto al programma del 2018 si può sottolineare la presenza di diversi “Pollicini”, fatto che ci ha incuriosito e ci ha spinto a interrogarci sull’importanza del tema del perdersi e del ritrovarsi. Tra le proposte che abbiamo ricevuto ce n’erano appunto tre legate alla fiaba, molto diverse tra loro: ci sembrava interessante allora proporre un Pollicino al giorno, anche come stimolo alla riflessione su come una stessa fiaba possa essere trattata in modi e con linguaggi diversi.
GM: Per quanto riguarda proprio i linguaggi, quest’anno ne toccheremo diversi: avremo un’orchestra, circo, esperimenti ad alto tasso di tecnologia e altri ad alto tasso di tradizione, e anche due spettacoli senza parole.
Avete menzionato il tema della perdita e dell’abbandono come uno dei possibili fil rouge trasversali al festival: come affrontare temi difficili e fino a dove si può spingere il teatro, e l’arte in generale, nell’affrontare temi complessi senza spaventare un pubblico giovane? Quanto e come osare?
RC: Credo che il problema non sia del pubblico giovane. Gli spettacoli rivolti all’infanzia o agli adolescenti possono trattare qualsiasi tematica, se lo fanno con il giusto linguaggio. Il problema spesso nasce da chi decide per i ragazzi se possono vedere o meno uno spettacolo, ovvero dagli insegnanti. La paura è adulta: i temi non sono tabù per il pubblico di riferimento, ma sono gli insegnanti che, a monte, hanno paura di attraversare questi stessi temi con i ragazzi. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso a Segnali con Racconto alla rovescia, che trattava il tema della morte: non c’è stato nessun problema nella ricezione.
I temi cosiddetti tabù (la morte, l’abbandono, la sessualità…) d’altra parte sono temi importantissimi per tutti noi, al di là dell’età, e credo che ogni artista sviluppi urgenze espressive legate a essi. È allora giusto che li attraversi: quando il teatro (in special modo quello rivolto all’infanzia) parte da urgenze sincere, e autentiche, funziona.
GM: Toccare temi tabù è molto importante, ma non deve rimanere un pensiero astratto, didattico nel senso deteriore del termine. La sorgente artistica è quella che ti consente di trovare la strada giusta per parlare di qualunque cosa. Senza dubbio è necessario un ulteriore lavoro da parte di chi produce per veicolare questo messaggio e perché gli spettacoli arrivino dove devono arrivare. Abbiamo a che fare con un pubblico che è inevitabilmente mediato e un lavoro di mediazione è quindi necessario. Capita spesso che spettacoli importanti non richiamino pubblico a causa del titolo o del tema, nel confronto con determinate fasce di età, ma tutto dipende da come questi contenuti vengono trattati.
Giuditta Mingucci
Segnali compie ventinove anni e con il Festival è cambiato anche il pubblico: cosa chiedono oggi come spettatori giovani e adolescenti che vengono a teatro?
GM: Mi viene in mente un’esperienza che abbiamo vissuto come compagnia insieme ad altre realtà europee di produzione per questa fascia d’età: dalla Finlandia la richiesta dei giovani che partecipavano al progetto era rivolta a un teatro che non parlasse più di bullismo o anoressia. Questo è un indicatore importante di come ci poniamo nei confronti del teatro ragazzi in quanto adulti. Spesso, infatti, ci concentriamo su problematiche che gli adolescenti vivono diversamente rispetto a noi. È per questo che è fondamentale mantenere un dialogo aperto e, come molte compagnie fanno, lavorare partendo da laboratori in cui i ragazzi partecipino, dunque da un confronto molto diretto con loro ancora prima di andare in scena.
RC: Il cuore della questione credo stia nel non fare degli spettacoli solo “per” adolescenti, ma “con” loro. Lavorare con i ragazzi mi mette in crisi ogni volta, in una crisi positiva che si trasforma in crescita e in mutamento di prospettiva.
Da anni come compagnia di produzione stiamo portando avanti un progetto con adolescenti e preadolescenti che ci permette di avere un contatto diretto con loro. Se noi leghiamo il loro essere adolescenti al fatto di avere dei problemi giusto perché sono in una fascia d’età complessa la loro reazione sarà sempre: “perché devo sopportare questo carico?” È perciò necessario costruire dei percorsi insieme a loro prima di andare in scena. Il modo di “rappresentarli” e di parlare di loro poi può variare: dalla provocazione, perché no, alla radiografia.
A tal proposito, quali aspetti della “vita adulta” vengono messi in crisi dallo sguardo adolescente e bambino?
GM: I ragazzi vanno all’origine delle cose, sono capaci attraverso domande semplici di trovare il cuore dei problemi. Chiedono le ragioni di ciò che vedono e di ciò che accade facendo domande importanti e puntuali senza giocare, come magari capita a noi, con la superficie. Il rischio per noi adulti è infatti dare troppe cose per scontate perché pensiamo di averle ormai metabolizzate. Invece la comprensione che abbiamo acquisito necessita di essere interrogata: si scade nella banalità se si cessa di porre e porsi domande. Diviene così fondamentale essere riportati all’origine delle cose con quella purezza, quella percezione della novità e anche dell’eccezionalità dell’ordinario che è cifra distintiva di un pubblico di ragazzi. Anche al livello della teatralità, le reazioni che ha il pubblico più giovane rivelano una curiosità e una passione nei confronti del teatro in sé, anche nei suoi aspetti tecnici, che per noi sono ovvie o poco interessanti. È uno sguardo altro, che stimola in quanto diverso. Per ricollegarsi alla XXIX edizione di Segnali, per noi è importante che ci siano due proposte internazionali, che danno un’altra prospettiva sulla realtà che ci circonda. Avere la possibilità di spostare lo sguardo è sempre un grande vantaggio, non tanto per cambiare ciò che siamo, ma per approfondire la coscienza e la percezione della propria identità in relazione con ciò che è altro da noi. Questo confronto non deve trasformarsi necessariamente in condivisione di punti di vista o visioni sul e del mondo, ma è assolutamente necessario per spingersi più lontano.
RC: Quando incontri i ragazzi accade davvero che il tuo sguardo si sposti in un duplice movimento: verso l’interno e verso l’esterno. Inizi a guardare la società e il te stesso più profondo da un’angolazione leggermente diversa riscoprendo aspetti che davi per scontati o per acquisiti. Questo confronto penso ti mantenga vivo, attento, critico. Credo che sia nostro dovere di adulti stimolare negli adolescenti un spirito critico che è parte di ognuno di noi, che deve solo essere “risvegliato”. Nel momento in cui i ragazzi riescono a tirare fuori questo sguardo critico sulla realtà modificano anche il nostro di adulti.
Negli ultimi tempi assistiamo a molte compagnie di ricerca che si misurano con spettacoli per ragazzi…
RC: Quando ho iniziato a occuparmi di teatro ragazzi, le compagnie di teatro ragazzi si mescolavano molto con quelle di ricerca. I due ambienti erano molto prossimi, ci si incontrava, si parlava, si discuteva. Dopodiché c’è stata una separazione. Il fatto che qualcuno che fa teatro di ricerca per adulti abbia voglia di misurarsi con i più giovani per me è qualcosa di molto “organico”, di molto coerente. Di fatto i ragazzi ti spingono a non stare fermo, non puoi dire “ho trovato il linguaggio della mia vita e farò sempre questa cosa”. Loro cambiano e tu devi cambiare di conseguenza, anche andandogli contro. Come per noi che facciamo teatro ragazzi è sano misurarci con altri pubblici di riferimento, così mi sembra altrettanto sano e necessario il percorso inverso. I ragazzi rappresentano uno stimolo eccezionale per mettere in gioco ciò che ritieni già acquisito e provare a misurarti con percorsi, linguaggi e tematiche nuove.
GM: Peter Brook stesso, in particolari fasi della preparazione dei suoi spettacoli, portava i propri attori nelle scuole per mettere, diciamo, “sotto stress” il lavoro fin lì compiuto attraverso la relazione con i ragazzi. Non mi stupisce questa esigenza delle compagnie di ricerca.
Renata Coluccini
Provando a fare uno sforzo di immaginazione, cosa chiedereste al teatro ragazzi del futuro?
RC: Penso che il teatro ragazzi in questo momento per svilupparsi abbia bisogno di essere sostenuto in maniera seria, anche economicamente. Non può vivere solo dello sbigliettamento, perché una politica che voglia intercettare esigenze e desideri dei ragazzi è costretta a mantenere bassi i prezzi dei biglietti. Riempire le sale non è qualcosa di positivo a priori, il teatro ragazzi dovrebbe a volte sperimentare misure e dimensioni diverse, anche piccole… Mi piacerebbe che si potessero creare davvero delle reti fra le realtà che già stanno operando sul territorio: un aspetto fondamentale, su cui stiamo lavorando già in vari modi. Infine vorrei che ci si potesse concedere dei margini di errore, perché penso che la ricerca passi anche da questo. A volte il rischio è ritrovarsi presi da doveri produttivi di tempi, di ritmi, di dati ministeriali e non, che impediscono di concederti quella che è una ricerca che sbaglia per trovare la strada… come Pollicino, appunto. Questa è la mia utopia. La mia utopia sarebbe un festival dell’errore, dove portare tutti i propri percorsi sbagliati ma da cui trovare, poi, delle strade.
GM: Aggiungerei anche che il teatro-ragazzi è un ambito che merita un ulteriore approfondimento critico, ed è per questo che ci sforziamo di unire la qualità artistica in quanto tale con approcci e stimoli che definiscano un riferimento per il pubblico giovane. Rispetto al teatro “per adulti”, il teatro ragazzi è forse un po’ meno studiato e approfondito dall’esterno. Sarebbe molto importante riuscire a sviluppare nei prossimi anni uno sguardo di questo tipo.
RC: L’altro tentativo che stiamo facendo adesso, anche con il festival di Castelfiorentino, è quello di circondarci o trovare dei “complici”. Il contatto con l’università ad esempio, con figure che si occupano di aspetti educativi, creativi e pedagogici legati ai giovani (come accadrà nel convegno organizzato il 2 maggio), ha l’obiettivo di creare un movimento di pensiero che non sia limitato solo al teatro, ma con cui provare ad affrontare insieme il futuro. Si tratta proprio di ritrovare un movimento culturale in senso lato, di cui una componente importantissima deve essere il teatro.
Francesco Brusa, Camilla Fava, Francesca Serrazanetti