La drammaturgia del corpo Un’inchiesta da Maggio all’infanzia

La corporeità è oggi uno dei temi più discussi nel dibattito pubblico e, allo stesso tempo, uno dei grandi rimossi della contemporaneità. Di certo, pare che il teatro non possa non affrontare la questione, costruendosi da sempre sul gesto e sul movimento, sulla mimica facciale e sulla presenza ed espressività dell’attore.

Molti degli spettacoli che abbiamo osservato alla ventunesima edizione di Maggio all’Infanzia ponevano proprio questo elemento al centro della loro pratica scenica, andando a comporre quella che per noi era una vera e propria “drammaturgia del corpo” dell’attore nello spazio. Abbiamo allora realizzato una breve inchiesta, chiedendo ad alcuni degli artisti presenti quali messaggi e quali intenzioni vengono veicolate dalla corporeità, in che modo la narrazione procede anche attraverso la “carne”, la voce e i gesti di chi è sul palco. Ne è uscita una mini-serie di videointerviste in cui troverete, oltre alle risposte degli intervistati, anche stralci degli spettacoli e riprese dai momenti del festival:

#1 – Luigi D’Elia, a partire dallo spettacolo Zanna Bianca

#2 – Alessia Candido e Miriam Costamagna (BIBOteatro), a partire dallo spettacolo Scarpette rosse di Emanuele Aldrovandi

#3 – Beatrice Ripoli ed Enrico De Meo, a partire dallo spettacolo Sogno di Fontemaggiore Teatro

#4 – Vito Cassano (Eleina D), a partire dallo spettacolo Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale

interviste a cura di Francesco Brusa, Nella Califano e Carlotta Tringali

riprese: Francesco Brusa, montaggio: Carlotta Tringali

 




Epica Etica Etnica Pathos. Un racconto da Bari

Epica [La riscoperta del tu]. È Odissea il vero titolo sotto cui si raccontano le gesta dell’eroe greco Ulisse? In realtà, l’Odissea è una catalogazione postuma, un “nome di comodo” che sorge quando gli infiniti rivoli delle infinite storie si cristallizzano e si tramandano in un’opera, che arriva nel tempo fino a noi. Ma Flavio Albanese ci ricorda subito che Omero forse non esiste, o meglio, ora (che ce lo siamo inventato) sì che esiste, ma magari non è mai esistito. Così, il titolo dello spettacolo, che significativamente non è “Odissea” ma Canto la storia dell’astuto Ulisse (una “super-produzione” Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Gioco Vita, Compagnia del Sole), ci suggerisce di buttar via il libro e provare a recuperare il carattere orale della storia, la sua natura di “mormorio collettivo” che va di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, che si perde nella notte della civiltà ma da quella notte trae linfa, poiché i personaggi che la popolano sono oscuri a se stessi e si scoprono narrandosi, sono l’uomo che per la prima volta contempla la propria ombra, e le proprie ombre. Ma per farlo ha bisogno delle muse. E, visto che siamo a teatro, con i ragazzi, ecco che le muse diventano i bambini.
L’attore si rivolge infatti a loro direttamente, come a chiedere “cantami, cantatemi voi delle gesta di Ulisse, ditemi cosa sapete di lui”. Il recupero dell’oralità nella narrazione è appunto la “riscoperta del tu”, di come le storie nascano dall’ascolto di chi le fruisce ancor più che dalle parole di chi le racconta. «Ma dai, sì che lo sappiamo cos’è la guerra di Troia», dice un bambino dalla fila destra, «gli eroi? Gli eroi sono forti» urla un altro dal centro, «coraggiosi» si sente dalla sinistra. Albanese li incalza e li imbecca, modellando lo sviluppo dello spettacolo e la propria recitazione sulle loro risposte. Così, può capitare che si saltino interi passaggi, o che si rida dell’apparente incoerenza di alcune vicende, perché ciò che si rincorre in scena non è l’esattezza della trama o la fedeltà a un testo ma la convergenza di attore e pubblico verso il medesimo approccio partecipativo. Verso un medesimo impeto di ricerca («Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» è la prima frase che rintocca sul palco).
Allora il viaggio diventa un viaggio attorno alla parola e alle sue sfumature («metis» è un concetto un po’ intraducibile, forse potrebbe essere la cazzimma), un’esplorazione dei confini del pensiero e delle possibilità di conoscenza. Epiche non sono le gesta, epica è l’altezza delle domande che di volta in volta ci si pone, e che, in qualche modo, ci conducono ai limiti dell’epica stessa. Ulisse è infatti l’eroe che fonda la modernità, rinunciando a essere immortale e accettando pienamente la propria finitudine. Spezza il tempo circolare, e ne fa una linea di cui vivere l’esaurirsi e la decadenza. È da qui che nasce l’etica, “la scoperta del tu”. Forse è da qui anche che il mito smette di bastare, e arriva il teatro.

Tomcat

Etica [Nelle sfumature della libertà]. Quando il cielo di carta del teatrino – di pirandelliana memoria – si strappa e compare un buco, gli dei che fino ad allora avevano guidato e sostenuto le azioni degli uomini vengono meno; l’uomo è perso, senza punti di riferimento a cui guardare o dare colpe; proprio perché diventa libero di scegliere cosa fare, come agire, quale strada percorrere nel buio dell’incertezza, nel futuro che avanza tra dubbi e domande. Quale comportamento tenere di fronte alla vita che ci mette alla prova quotidianamente? Come sapere se un’azione che compiamo sia giusta o sbagliata? Che conseguenze avrà per me, per il mio prossimo e, più in generale, per la società? Sono queste domande che forse il tempo del teatro permette all’uomo di affrontare (e a quei giovanissimi appena entrati in fase adolescenziale a cui si rivolge un certo tipo di spettacoli), perché non contiene in sé la soluzione, ma propone allo spettatore materiale di riflessione, facendogli compiere un percorso, chiedendo ascolto sì, ma non una risposta immediata: si sedimenta negli occhi e nella mente di chi sta seduto in platea offrendo nutrimento per lo spirito. Il giovane uomo (ma più in generale lo spettatore) – che superati l’innocenza e il disincanto propri dell’infanzia piomba sperduto sotto quello strappo nel cielo di carta – si ritrova nel buio della sala teatrale solo con la propria coscienza e allo stesso tempo è parte di una comunità che si pone le stesse domande. Si compie il rito del teatro:  insieme si vive un’esperienza che presuppone un ragionamento, impegno, responsabilità, crescita, empatia; ci si confronta con quella che chiamiamo etica.
Parte da questa Christian Di Domenico con Mio fratello rincorre i dinosauri, spettacolo rivolto agli adolescenti , prodotto da Arditodesio e tratto dall’omonimo libro edito da Einaudi, in cui la scelta di tenere un figlio con la sindrome di down permette e comporta alla famiglia Mazzariol di vivere l’esperienza unica, difficile e controversa di confrontarsi continuamente con il giudizio altrui ma soprattutto con la propria coscienza. Giacomo Mazzariol, dopo un’infanzia trascorsa spensieratamente, una volta raggiunta la fase dell’adolescenza deve far i conti con le proprie idiosincrasie e capire come non vergognarsi di Giovanni, il fratello con un cromosoma in più (e la passione sfrenata per i dinosauri) su cui il protagonista della storia riversa paure e incertezze, tenendolo nascosto agli amici e non difendendolo dallo scherno dei bulletti del paese. Di Domenico si fa un narratore dal piglio disincantato, ironico, a tratti forse si serve di una comicità troppo facile, ma è anche affilato e pungente, senza offrire fino in fondo un proprio giudizio, ma impiegando pause di sospensione che lasciano spazio al giovane spettatore di essere riempite con un proprio ragionamento. La voglia di essere invisibile, il desiderio di non avere un familiare incapace di badare a se stesso, gli interrogativi su cosa succederà in futuro e chi si occuperà di Giovanni e l’urlo quasi ricacciato in gola di “vorrei non fossi mai nato”, inevitabilmente si scontrano con le considerazioni del pubblico che a sua volta è portato a chiedersi quale comportamento avrebbe tenuto se fosse stato al posto di Giacomo; a quanto in fondo sia semplice giudicare cosa sia giusto o sbagliato se quella scelta non ci vede implicati in prima linea. Il modo scanzonato di Christian Di Domenico di raccontare come la vita ci spinga a prendere posizioni su questioni spinose e dalle mille possibili sfumature (contro un’ottica binaria e semplificativa di bianco/nero e giusto/sbagliato dove sempre più spesso la nostra società sembra dirigersi) ci costringe a parlare di quell’etica con cui facciamo i conti per scoprire e relazionarci con l’altro da sé, ma in primo luogo anche a rispondere a se stessi e alla propria coscienza.
Se l’aborto in Mio fratello insegue i dinosauri è solo accennato è invece ben presente nello spettacolo Tomcat di Bottega Bombardini coprodotto da Teatro Stabile di Mercadante e Casa del Contemporaneo, proposto ai ragazzi dai 14 anni. In un futuro distopico che ricorda la serie tv Black Mirror gli esseri umani sono sottoposti a degli screening obbligatori che impediscono a chi abbia malattie genetiche o malformazioni di svilupparle o addirittura di nascere. La storia di Jesse, intrappolata in una gabbia di cristallo – poiché descritta come “raro soggetto psicopatico” in questo domani atipico e sottoposta ad analisi che la trasformano in cavia negandole di crescere liberamente e di relazionarsi con i suoi coetanei – si intreccia con la storia del dottor Charlie che vorrebbe impedire alla moglie di portare avanti una gravidanza in quanto il feto è affetto da fibrosi cistica. E allora «la fortuna di essere liberi, essere passibili di libertà che sembrano infinite» – come cantavano in Narko’$ i CCCP – diviene qui solo un ricordo dove la ricerca scientifica può determinare la vita e non ammette margini di errore o di diversità, proprio come vi sembrerebbe incappata Jesse. Se però nello spettacolo è fin troppo facile schierarsi con la donna che a tutti i costi vuole dare una possibilità di vita al suo bambino lottando contro le leggi e suo marito – verso cui si è portati invece a sviluppare distanza e repulsione, figura, la sua, troppo negativamente stereotipata –, nella società di oggi troviamo quasi una situazione ribaltata: la legge 194, che permette alla donna di interrompere volontariamente la gravidanza e che in questi giorni compie 40 anni dalla sua entrata in vigore, non gode di ottima salute come dimostrano inchieste recenti; troppi obiettori di coscienza e troppi pochi dottori disponibili a effettuare l’aborto. E allora ci si chiede se questa distopia proposta nello spettacolo non sia fuori fuoco per certi punti di vista. Si pone sì domande etiche importanti Tomcat, soprattutto rivolgendosi ad adolescenti che si affacciano alla vita, ma lo fa quasi con la volontà di guidare uno sguardo, spingendoci a schierarci e non a domandarci cosa faremmo se.  I confini etici della ricerca scientifica e umana qui evocati sono nella realtà ancora più labili, dimostrano come l’equilibrio tra diritto, obbligo e libertà di scelta sia scivoloso e impervio, non semplificabile in stereotipi netti di buono/cattivo e giusto/sbagliato; servono tante domande e infinite risposte aperte per instillare dubbi e perplessità che permettano di far sviluppare una propria etica negli occhi di chi è seduto in platea e si sta affacciando alla vita. Questi giovani spettatori sono i cittadini di domani e non possono prescindere dalla complessità del mondo: ci sono innumerevoli sfumature nelle possibilità di affrontare le difficoltà del nostro quotidiano e al teatro è affidato il compito di farle risaltare, diventando terreno aperto allo scontro e al confronto.

Sogno

Etnica [Una lingua minore?]. Ma questo connubio, questo insistito “ingorgo” scenico che lega la responsabilità delle proprie azioni con il mistero della nascita e dell’origine ci ricorda che “etica” significa, innanzitutto, provenienza. Ovvero la lingua che ci ritroviamo a parlare e a tradire quotidianamente, quell’incrocio di mentalità e culture che ci vanno a comporre. «I fiumi segreti e immemorabili che convergono in me» li chiamava Borges.
Percorrendo le proposte del festival, viene in mente di come il teatro ragazzi – se lo si considera una poetica e non mera categoria ministeriale – possa appunto essere un “continuo ragionare attorno alla provenienza”, non da ultimo la provenienza in quanto “tradizione teatrale”. Spettacoli quali Sogno di Fontemaggiore Teatro, Cappuccetto rosso di Michelangelo Campanale, lo stesso Canto la storia dell’astuto Ulisse di e con Flavio Albanese e, in qualche misura, Il principe felice con lieto fine di Principio Attivo Teatro si aggirano fra le “basi” della presenza scenica e del metodo attoriale, raggiungono una semplicità di linguaggio che si fa quasi trasparente, a svelare le “meccaniche artigianali” che il linguaggio sostengono e infine proiettano sul palco. Ritroviamo infatti la commedia dell’arte e il grammelot, gestualità che stanno a metà strada fra la danza e l’arte circense, modalità di narrazione immersiva ma al tempo stesso dialogica, l’agire puro del corpo nello spazio e nella pelle dei personaggi. Il tutto a un grado di leggibilità che verrebbe da definire “da manuale”.
Recuperare uno sguardo bambino, assumere l’infanzia come principio di creazione teatrale – lo abbiamo ripetuto da più parti – significa appunto arrivare a fare della semplicità un sinonimo di felicità espressiva. Nel migliore dei casi, raggiungendo una pulizia e un’essenzialità del proprio stare in scena che unisca le generazioni nella medesima meraviglia fruitiva. Nel peggiore, procedere per mera sottrazione, abbassare i toni e il livello affinché certi codici e certi intenti o concetti risultino “comprensibili” anche ai più piccoli. Eppure, non è detto che nell’abbassamento, nello scarto, finanche nel semplicismo stesso (purché se ne sia consapevoli) non vi siano dei germi fecondi e delle possibilità artistiche. Gli spettacoli citati fanno uso a volte del dialetto, a volte di regionalismi e voci per nulla “lavorate” che avvicinano gli attori agli spettatori invitando i secondi a non prendere troppo sul serio i primi (il narratore dell’Odissea di tanto in tanto si scompone, uscendo dal personaggio e apostrofandoci con evidente accento), mettono in campo danze e movimenti di stampo prettamente mimetico e “sguaiatamente naturalistico” (una delle danzatrici di Cappuccetto Rosso zompetta qua e là sul palco a mo’ di capretta), non temono di ripetere parole e gesti per meglio sottolineare alcune tinte e situazioni della trama (dove l’uso del refrain scava il ritmo stesso dello spettacolo, come in Sogno), imperniano la recitazione sul sentimentalismo e sulla commozione (magari nella salsa dolceamara, o meglio, lietamente tragica di Il principe felice con lieto fine).
È un caleidoscopio di mugugni, versolini, risate anche facili, dialoghi scarni. Il teatro-ragazzi come lingua minore? Se per “lingua minore” intendiamo quella capacità di scardinare gerarchie sintattiche e semantiche, di far vibrare le parole di risonanze interne, che Deleuze attribuiva a Kafka e poi per traslato a Carmelo Bene, perché no? Potrebbe essere una sorta di “laboratorio a scena aperta” in cui ritrovare, assieme all’abc della pratica teatrale, anche un principio per la sua messa in discussione. Un peculiare dialetto scenico, un particolarissimo idioletto che già nel pronunciarlo svela la propria natura plurale, palpitante e composito “meticciato puro”, e duro.

Zanna Bianca (ph:Maurizio Bertoni)

Pathos [L’emozione della pedagogia]. È un’eterogeneità che spesso ci avvince e ci sorprende. Riuscendo a farlo per vie che sembrano tra l’altro totalmente opposte fra loro. Se il Pollicino di Teatro della Tosse e Teatro del Piccione (con la regia di Manuela Capece e Davide Doro) rende il palco un antro oscuro, una sorta di caverna gelida e spaventosa in cui siamo invitati a entrare, Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini pare invece giocare più sulle tinte calde, sul recupero della descrizione naturalistica e paesaggistica, utilizzando la scena come una tela per dipinti in cui riverberano colori, precisi aggettivi e nomi propri di piante e di animali.
Entrambi partono dal vuoto. Simona Gambaro e Paolo Piano, gli attori di Pollicino, sembrano veramente minuscole figure nel nulla, mentre lo spazio teatrale si allunga in lungo e in largo diventando una prateria sterminata. Non c’è niente, nessuna scenografia, nessun oggetto o maschera, solo i corpi e le voci dei protagonisti. E sono proprio queste ultime, le voci interiori della tormentata coscienza di due genitori che hanno abbandonato i loro figli, a essere “sputate” e amplificate nel vuoto, fino a assumere una densità e una consistenza granitiche, fino a farsi esse stesse “scenografia piena”. Anche Luigi D’Elia ha poco attorno a sé: un fondale e alcuni lupi scolpiti in ferro che delimitano il suo spazio d’azione. Non ha bisogno di muoversi molto. O meglio, lo fa nel piccolo: sono micro-movimenti, gestualità minime e improvvisi scarti del dettaglio a veicolare la narrazione. A volte, l’emozione è tutta in uno scatto di mascella. Altre, la ritroviamo concentrata in una breve pausa del parlato. In generale, c’è una rispondenza esatta e potentissima fra luci, corpo e parola, che concorrono armonicamente a toccare quelle corde più sensibili e profonde del sentimento di noi spettatori.
Si tratta quasi di due diverse idee di teatro a confronto. Manuela Capece e Davide Doro spingono il pathos tutto verso l’interiorità. Aprono una voragine in scena che pare risucchiarci dentro di sé. Esplorano la coscienza, anzi il rimosso, non descrivono un bosco, con i suoi alberi e i suoi sentieri, ma la paura che si ha di quel bosco, ovvero la “selva” dantesca che è fatta solo di smarrimento e abbandono. Ci parlano da un fondo, da una fossa inaccessibile. Infatti, gli attori sono davanti a noi ma è come se li vedessimo dall’alto, ci sentiamo di sporgerci dalle nostre poltroncine per meglio scrutare. Al contrario, Luigi D’Elia e Francesco Niccolini ci ributtano contro lo schienale, seppur dolcemente. Per loro il pathos si risolve in una esteriorità pura e variopinta. Si concentrano sugli arbusti e sul fango, scivolano con le parole sul ghiaccio, raccontano dei colori del cielo e di un’eccitazione sensuale che si spande nell’aria. La loro è una vera e propria “drammaturgia della pelle”. Non della carne, che presuppone già un dentro, ma scrittura epidermica, testimonianza amplificata per recettori sensoriali.
Sono comunque domande adulte. Non a caso, non c’è mai un personaggio bambino in scena. Di fronte alla fiaba di Pollicino o alla fabula romanzata di Zanna Bianca, sia Capece/Doro che D’Elia/Niccolini si chiedono «come parla a me, “grande”, questa storia? Come mi scuote e mi impressiona?» Il loro teatro per e con i bambini sta allora tutto nella condivisione di una “debolezza” (della paura e dell’angoscia, ma anche del pianto e dell’incanto “facili”). Nel dismettere i panni dell’adulto, che si vuole forte e sicuro, senza però scimmiottare il bambino ma offrendogli uno spaesamento, altro ed enigmatico eppure comune.
Offrendogli il mistero dell’empatia e dell’emozione, che è già un principio pedagogico. Forse l’unico.

Francesco Brusa, Carlotta Tringali




Il dovere dell’artista al coraggio e la paura di noi spettatori

Il teatro Kismet e il teatro Abeliano si trovano ai poli opposti della direttrice nord/sud di Bari. Li collega una tortuosa traiettoria che passa per il centro cittadino, oppure una strada statale che – nei nostri spostamenti da uno spettacolo all’altro – vediamo spesso fitta di ingorghi e di traffico. Il compito di questi teatri è proprio anche quello di ricucire certe lontananze, di installarsi nella periferia per dare vita a una “particolarità urbana” che non diventi emarginazione sociale. Ed è appunto sul filo di tali questioni che il festival Maggio all’infanzia ragiona e sviluppa le proprie azioni da oltre vent’anni. Lo fa assumendo l’infanzia come una prospettiva possibile, sul presente, certo, ma inevitabilmente anche sul futuro. Lo fa riempiendo la direttrice nord/sud di una nutrita comunità di operatori, insegnanti, artisti, bambini e famiglie, semplici spettatori (ma può uno spettatore essere veramente semplice o  semplicemente disinteressato?) che per quattro giorni si muovono, osservano, si incuriosiscono.

Fra il Kismet e l’Abeliano ci sono quasi sei chilometri. Fra il palco e la prima fila di spettatori c’è circa un metro di separazione. Anzi, ancora meno per Concerto fragile di Casa degli Alfieri – Universi sensibili (per la regia di Antonio Catalano), una delle proposte che apre la giornata inaugurale del festival. I bambini sono infatti a strettissimo contatto con le attrici, a dividerli praticamente solo un fascio di luce. Sul palco, una sorta di laboratorio o addirittura di “cucina sonora” fatta di piccoli oggetti, contenitori, bizzarri strumenti ma soprattutto di un fondoscena dal chiaro sapore artigianale e casalingo, dietro il quale i protagonisti a volte si rintanano per meglio rimarcare i gesti e le espressioni. Quello di Sara Bevilacqua e Alessandra Manti è un invito a scomporre e ricomporre in continuazione il suono e la sua esemplificazione grafica. Non a caso all’inizio ci viene chiesto di immaginare il “rumore di occhi” e vediamo degli occhi finti che le attrici “indossano” mentre riproducono il suono di una tale operazione. Poi, metaforicamente, ci caviamo pure noi gli occhi ed è la volta del rumore dei pesci, delle stelle, del tempo che passa e così via, in un piccolo crescendo di premesse astratte che si traducono però in un approccio che resta sempre fortemente figurativo.
«A teatro si fa silenzio» dice una maschera del Kismet prima dell’inizio dello spettacolo. Eppure, poco dopo la sala viene riempita di stimoli uditivi. Eppure, la compagnia durante lo spettacolo cerca ripetutamente la “rumorosa partecipazione” dei bambini, spingendoli a battere le mani, a cantare con loro, ad ammiccare ai propri gesti. Un anno fa – proprio commentando il festival di Maggio all’infanzia – parlavamo sulla scorta di Korczak del “diritto del bambino al rispetto”. Ora, ci pare che questo principio possa trovare il proprio contrappeso speculare nel “dovere dell’artista al coraggio”. In quel metro scarso fra la prima fila e il palco, c’è un abisso: l’abisso di una radicale distanza, di cui il teatro sembrerebbe non poter fare a meno per accadere. Si tratta ovviamente di una distanza che può essere messa in discussione, sfumata o annullata, ma che dovrebbe essere presupposta affinché vi sia innanzitutto una relazione, fra chi da una parte si assume il rischio di presentarsi in quanto alterità e chi dall’altra è così chiamato a un ascolto nel senso più profondo del termine. Sono, in fondo, le basilari condizioni per instaurare un qualsivoglia rapporto pedagogico.
Nell’approccio di Casa degli Alfieri – Universi sensibili parrebbe esserci invece una certa paura a instaurare questa distanza, la tendenza a confondere i piani per timore di non suscitare l’interesse del bambino. Si porta una ragazzina del pubblico sul palco, senza poi lasciarle alcuna autonomia. Ci si esprime a volte a versi e mugugni, quando la situazione sembrerebbe invece reclamare il semplice uso delle parole. È un peccato, dal momento che l’impianto dello spettacolo, seppur esile (fragile come appunto esemplificato dal titolo), possiede una carica evocativa che guarda agli elementi, a una felice e rarefatta “intrusione” dei misteri del cosmo dentro oggetti di carattere domestico. Ma quello che ne riceviamo infine è uno smussato incanto verso le “cose primarie” e non, ben più potente e viscerale, un incanto primario verso le cose, verso il teatro.

Concerto Fragile

L’artista che si relazioni con un pubblico bambino ha davanti a sé una spietata sincerità e uno sguardo in attesa, sospeso, curioso di ciò che dovrà accadere dopo il buio in sala e nello stesso tempo pronto a vagare alla ricerca di altri stimoli più accattivanti. Tutto questo, insieme al dovere al rispetto del proprio interlocutore e al dovere al coraggio della messinscena, rende arduo il compito dell’artista e pregno di responsabilità, ma, riprendendo le parole di Chiara Guidi in un’intervista per il festival di Castelfiorentino di quest’anno, «non bisogna aver paura delle nostre paure» di fronte ai bambini. Relazionarsi con questo tipo di pubblico, infatti, vuol dire innanzitutto essere capaci di superare ogni tipo di stereotipo che accompagna l’idea d’infanzia, come quello secondo il quale esisterebbero temi, considerati tabù, con i quali essa non debba venire a contatto. Parlare ai bambini di morte e di violenza, per esempio, sembra ancora difficile, sebbene essi ne vengano quotidianamente subissati attraverso i media, che però non lasciano il tempo dell’elaborazione, costringendo l’interlocutore a subire immagini e informazioni che finiscono per perdere il proprio stesso senso. È per questo, forse, che ascoltare una storia risulta sempre un’esperienza potente e impressionante, per i bambini come per gli adulti, proprio perché il tempo sospeso del racconto permette di soffermarsi sulle emozioni che provengono dall’ascolto. Moltissimo teatro ragazzi sceglie di mettere in scena le fiabe classiche; le fiabe però non nascono per i bambini, ma arrivano a loro dopo accurate rivisitazioni e addolcimenti, attraverso altre strade, e contengono spesso accadimenti tragici dove tutti quei temi considerati tabù, di cui prima si parlava, sono all’ordine del giorno. Quando un artista decide di mettere in scena una fiaba classica presentandola nei suoi tratti originali, superando la paura delle proprie paure e riconoscendo il valore formativo e iniziatico della fiaba, che nasce come faro per accompagnare la crescita, ecco che ci troviamo di fronte a un’opera di senso.

Pollicino, una fiaba che parla, tra le altre cose, di abbandono, di paura, di morte è stata la storia della quale Manuela Capece e Davide Doro della Compagnia Rodisio hanno curato la regia e la drammaturgia. I due attori, Simona Gambaro e Paolo Piano sono stati magistrali protagonisti di un racconto immersivo che comincia, come tutte le storie, con un fuoco centrale. Il pubblico non si ritrova a essere solo spettatore, testimone di una storia che si svolge inesorabile sotto i propri occhi, ma è chiamato a una riflessione profonda e contraddittoria. Il dialogo iniziale dei genitori di Pollicino non lascia trapelare alcun giudizio rispetto al loro comportamento: erano poveri, non potevano sfamare i propri figli e li hanno abbandonati. All’inizio dello spettacolo I due attori si rivolgono al pubblico dimostrando continui sbalzi d’umore: passano dalla gioia al senso di colpa, alla disperazione, dei lampi emotivi che ci investono con una luce violenta e sorridiamo e ridiamo e ripiombiamo nella pena. Genitori che abbandonano i propri figli al loro destino, soli, nel buio del bosco, con la propria paura. Come soli e al buio siamo noi spettatori: la musica esce dalle casse fortissima, stordisce e qualche bambino cerca rassicurazione tra le braccia dei genitori o chiede conferma rispetto alla finzione di ciò che sta vedendo. L’orchessa, invece, quasi in un ribaltamento delle certezze emotive, è una madre premurosa che non può fare a meno di accoglierti, fa scaldare i sette fratelli, o meglio, ci fa scaldare, perché è a noi che si rivolge. Ci fa mangiare bene e ci manda a letto, sfidando la folle crudeltà del marito, l’Orco. Un orco ricoperto di pelliccia che potrebbe essere chiunque e qualsiasi cosa, potrebbe racchiudere tutte le nostre più intime paure, l’uomo nero, senza volto, il volto lo conosciamo solo noi. Il passo è lento, pesante ed è sempre più vicino. Aspettiamo il momento in cui deciderà di sfondare la quarta parete e questo accade nel momento peggiore, quando brandisce un coltellaccio tra le mani e grugnendo salta da una sedia all’altra della platea, illuminato a tratti da una luce stroboscopica, e sembra essere dovunque. La sala piomba nel terrore. È troppo? Noi sappiamo solo di aver fatto un percorso, di essere stati tanti piccoli Pollicino e il nostro coraggio è stato premiato. A differenza dei media, che non permettono di metabolizzare le immagini, di porsi domande su ciò che stiamo guardando, il teatro ha il potere di farci ancora più paura, ma di stimolare domande, di entrare in contatto con la nostra intimità. I due attori, alla fine, si complimentano con noi per il nostro coraggio, siamo stati bravi. Ci accompagnano sulla soglia della storia, siamo usciti e ce l’abbiamo fatta, rallenta a poco a poco la tensione e festeggiamo con loro, più forti, più grandi, sotto una pioggia dorata.

Locandina di Cappuccetto Rosso

Con lo stesso senso del rispetto e del coraggio la fiaba di Cappuccetto Rosso viene affrontata dal regista Michelangelo Campanale (coadiuvato dalle coreografie di Vito Cassano), che già in alcuni dei suoi precedenti lavori ha dimostrato quanto per lui sia importante rispettare la verità della fiaba: conoscere la verità e saperla affrontare è l’unico modo per crescere. Un lupo, una bambina, il rosso e il nero, una rosa e un gruppo di danzatori-acrobati. La messinscena di Campanale è un vero e proprio show che coinvolge e rapisce, ma dietro le luci, la musica, le danze frenetiche, si consuma una delle più ambigue delle fiabe: un lupo inganna una bambina e la divora. È un lupo antropomorfizzato quello di Campanale, un uomo elegante che sa danzare con leggerezza, ma che alla vista della bambina non sa reprimere i propri istinti animaleschi. Si rivolge anche a un pubblico di bambini che nonostante lo abbia visto braccato da un gruppo di cacciatori e ripetutamente colpito, ma mai mortalmente, non è dalla sua parte. Lo riconoscono come il lupo cattivo delle fiabe al quale spetta, alla fine, una meritata morte affinché il bene trionfi. È proprio a questo punto che il lupo ricorda ai bambini che ucciderlo è inutile, la paura è inarrestabile e non morirebbe insieme a lui. I momenti di divertimento e di eccitata allegria sono tanti e fanno da contrappeso a una storia della quale cogliamo la verità dolorosa nei momenti di delicatezza e rallentamento. Cappuccetto Rosso attraversa il bosco, a passi lenti, raccogliendo I fiori che il lupo ha messo lì per lei, una trappola, per condurla sulla soglia di una casa a lei nota ma che non avrà nulla di famigliare. Attraverso l’espediente del ralenty viviamo uno dei momenti più intensi dello spettacolo: un uscio che si apre e poi si richiude contiene tutta la disperazione di un evento. Cappuccetto Rosso è afferrata per le trecce e dopo non sappiamo più nulla di lei. In quel gesto violento è racchiuso tutto l’orrore di quell’esclamazione tanto attesa dai bambini, e ascoltata sempre con paura ed eccitazione: «è per mangiarti meglio!». Sebbene tutto avvenga con una lentezza inesorabile non possiamo far niente per lei, e quindi per noi, che siamo sempre coinvolti emotivamente. Non si può cambiare il destino della fiaba, è lui che opera in noi un mutamento, una crescita, ma solo se ci viene raccontata la verità. Campanale non adotta il finale di Perrault, ma il suo punto di vista è forse ancora più inquietante: la bambina si salva, ma il lupo non muore mai, è sempre in agguato. Questa volta Cappuccetto Rosso ce l’ha fatta, ma domani chissà …

Francesco Brusa, Nella Califano




“La guerra dei bottoni” o la fine dell’avventura. Qualche domanda su tabù e luoghi comuni del teatro ragazzi

Fa una certa impressione veder portato (o per meglio dire ri-portato) in scena un romanzo d’avventura come La guerra dei bottoni di Louis Pergaud. Che il teatro ragazzi abbia guardato spesso ai romanzi d’avventura per messe in scena originali è cosa nota, e anche ovvia. D’altronde almeno per un paio di secoli i romanzi d’avventura sono stati i testi di formazione e di evasione per moltissime generazioni di ragazzi. Tutto normale? No, al contrario. Di fiabe se ne vedono sempre tante. La fiaba anzi diventa spesso l’occasione per aggiungere interpretazioni, variazioni, attualizzazioni. Invece la presenza dei racconti d’avventura tende a diminuire così tanto che, quando riappare, suona come una campana stonata.
La guerra dei bottoni di Tib Teatro (per la regia di Giuseppe di Bello, con Massimiliano di Corato, Andrea Lopez Nunes, Caterina Pilon) è costruita secondo moduli narrativi forti, segue modalità rappresentative coinvolgenti ed è ben sostenuta dal lavoro degli attori. È uno spettacolo che si è meritato una lunga vita, con centinaia di repliche alle spalle e molti anni di tournée. Per noi è un ottimo pretesto per provare a ragionare sul genere d’avventura a teatro. Si racconta infatti di bande di ragazzini che si sfidano a colpi di fionda e bastonate. L’epilogo è la punizione di genitori furibondi che per calmare gli spiriti ed educare i propri figliuoli tirano fuori la cinghia dei pantaloni e non risparmiano frustate. Siamo nella società contadina francese di fine Ottocento. I ragazzini si arrampicano sugli alberi e costruiscono le proprie fortezze dentro il bosco. Si muovono per bande e giocano alla guerra. E così crescono. Tutto normale, verrebbe da dire; ma fermandosi un attimo a osservare con distacco quel che accade, l’impressione è l’acuirsi di una distanza. Il mondo descritto appare così lontano che per noi è più facile relegarlo nelle pagine scritte della finzione letteraria. Se lo si prendesse sul serio, questi ragazzini oggi sarebbero tutti soggetti BES, tipici bulletti di provincia, bisognosi di insegnanti di sostegno. I genitori poi verrebbero seguiti dagli assistenti sociali, se non proprio rinchiusi in gattabuia per violenza domestica su minori. Dunque verrebbe da chiedersi: un mondo incivile contro la nostra civiltà? Oppure si stava meglio quando si stava peggio? Domande oziose a dire il vero. Il fatto è che, in cento anni, è cambiato il mondo intero. A parte due guerre mondiali, il Novecento è stato il secolo in cui, citando le parole di Kapuscinski, si è compiuto il “genocidio dei contadini”. E di conseguenza ogni cosa è mutata.
Eppure anche tutto questo è ormai Storia. La nota stonata non riguarda lo spettacolo e in fin dei conti nemmeno il romanzo messo in scena, anche se il bosco della campagna francese appare alla stregua del mare in tempesta dell’Isola di Mompracem di Salgari. La nota stonata suona dentro di noi, cioè nella ricezione. Di fronte alla recente produzione del teatro ragazzi l’impressione è che non sia il romanzo d’avventura in sé a essere desueto, ma la sua ossatura formativa. Ciò che si fatica a rintracciare sulla scena è la dinamica dello scoprire, esplorare, conoscere; superare i pericoli, instaurare amicizie, combattere; avere coraggio. E ancora: costruire di nuovo amicizie e avere un contatto purchessia con la natura. Dolore e gioia. E poi si cresce. Infine si può tornare a casa. C’è una famiglia da cui si parte e a cui si torna. Una famiglia che premia o che punisce, comprensibile o ottusa, ma presente. Si sbaglia e si cresce. Amici, fatica, scoperte. E si cresce. Questo percorso sembra essere diventato così accidentato e frastagliato che l’attenzione della produzione teatrale di oggi pare a volte essersi concentrato più sulle zone d’ombra, sulle fragilità, sulle interruzioni, che non sulla gioia dell’andare avanti. Eppure in senso lato l’avventura non è altro che una forma intensa del compiere esperienza. Come può risultare invecchiata la forma esperienziale?
Si dice spesso, che vigono dei tabù nel teatro ragazzi. Ed è verissimo (così come se ne trovano tanti nel mercato editoriale per i più piccoli). Spesso questi tabù derivano da miopie, paure, incapacità, furbizie e pregiudizi. Un buon teatro ragazzi deve avere il coraggio di andare controcorrente e affrontare in modo intelligente anche i temi di cui poco si parla. E ci sono esempi mirabili, anche in questi ultimi tempi.
Però nell’elenco dei tabù del teatro ragazzi (al cui primo posto c’è sempre la morte) rischia di scivolare pure la “vita” e la gioia della crescita. L’ossatura formativa, composta di fatica, pericoli, sforzo, ma anche grande vitalità ed esperienze, sembra essere stata messa da parte o simbolizzata/psicologizzata talmente tanto da apparire come ombra confusa.
I tempi stanno cambiando molto velocemente e certi esempi di radicalità a volte rischiano di apparire come luoghi comuni. Più che altro quando si dice radicalità e contemporaneo si entra subito in questioni formali, stilistiche e autoriali, mentre queste dovrebbero essere coniugate alla ricerca di senso e alla capacità di avere un progetto forte in testa. Ecco allora alcune contrapposizioni che forse varrebbe la pena ridiscutere non assegnando sempre al primo polo la patente di radicalità: opera contemporanea vs messa in scena convenzionale; critica alla società e destrutturazione vs linea affermativa e modalità rappresentative; paura vs evasione; narrazione non lineare vs drammaturgia narrativa e schematica; costruzione di un’atmosfera e libertà interpretativa vs opera didascalica;  emozioni e sentimenti  vs conoscenza didattica; inconscio, fantastico vs realtà, povertà del realismo.
E se la radicalità oggi fosse proprio quella di non piegarsi alle cupezze del presente con eccessivo compiacimento? E se invece si provasse a ridiscutere la grammatica della crescita, con una reinvenzione formale che sappia ibridare e reinventare i due poli?

Rodolfo Sacchettini




I bambini e la verità del teatro. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 17 maggio 2018 al 20 si svolge fra Bari e Matera la ventunesima edizione di Maggio all’infanzia, una delle rassegne più auterevoli nel panorama del teatro ragazzi. Abbiamo incontrato la sua direttrice Teresa Ludovico, del Teatro Kismet, storica realtà che produce il festival. Con lei abbiamo discusso del programma e degli intenti che lo muovono.

Ci può presentare questa edizione di Maggio all’infanzia?

Si tratta di un’edizione particolare, siamo alla ventunesima, ormai siamo diventati adulti! Ho scelto un concetto guida per muovermi nel labirinto del festival: cammina cammina. Mettersi in cammino perché siamo sempre nel mondo della fiaba, dell’archetipo, perché parliamo d’infanzia e i bambini sono destinati a fare un lungo cammino. Cammina cammina perché gli operatori e le compagnie fanno un lungo viaggio per raggiungerci: noi siamo nel profondo sud! Il festival stesso si è spostato in altri luoghi, prima di tutto già da tempo ha creato un ponte con Matera, una città che amiamo molto e alla quale ci sentiamo molto legati per diverse ragioni; anche in previsione del 2019, Matera capitale europea della cultura, sembrava interessante dialogare con questa città. Un’edizione particolare del Maggio all’Infanzia, dunque, che andrà quasi ad anticipare quello che faremo nel 2019. La seconda novità è che abbiamo introdotto anche delle compagnie internazionali perché, volendo dialogare con Matera, ci è sembrato interessante coinvolgere degli artisti di altri Paesi, altro concetto guida del cammina cammina…

Il motto cammina cammina ha orientato anche la scelta degli spettacoli?

Il criterio importante quando si scelgono gli spettacoli è la qualità. Ovviamente non è possibile imbattersi ogni anno in dei capolavori perché gli spettacoli sono delle creature vive e gli artisti sono persone che cercano. A volte, anche compagnie che da anni ricercano sul tema dell’infanzia possono avere proposte più fragili. L’ambizione del festival, però, non è sempre quella di presentare spettacoli perfetti, ma lavori che abbiano qualcosa di vivo, delle domande, delle necessità. Possono essere proposte compiute o ancora alla ricerca di una strada per definirsi, ci arrivano molti lavori a metà del cammino, abbiamo moltissime prime e spesso non vediamo il prodotto già confezionato, cerchiamo quei percorsi che intercettino un’infanzia in movimento e che non si accontentino di un’idea astratta della crescita. La differenza è proprio tra chi ha solamente un’idea dell’infanzia e chi invece si pone per davvero in contatto con essa.
Ci sono, tra le altre cose, le grandi fiabe scritte e ripensate per i bambini, la sfida di ogni compagnia consiste nel cercare di utilizzare un linguaggio consono ai bambini di oggi. È molto interessante il Pollicino del Teatro della Tosse, che affronta la paura del distacco; o anche Scarpette Rosse di Biboteatro su testo di Emanuele Aldrovandi, uno spettacolo che ho scelto perché mi piaceva l’idea di vedere come un giovane drammaturgo potesse affrontare per la prima volta un testo dedicato all’infanzia. Secondo la sua lettura sono già le scarpe la strada da percorrere per diventare grandi. Un’altra fiaba presente nella vetrina di Bari è il Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale dove il vero protagonista è il lupo, un lupo che non vince ma che non muore nemmeno. Lo spettacolo è quasi senza parole e il regista ha lavorato con attori, acrobati e danzatori pugliesi. Un secondo tema è quello del rapporto con la musica che ritroviamo ne I Musicanti di Brema, uno spettacolo-concerto di Fabrizio Pallara molto stimolante per i bambini e in Concerto Fragile di Antonio Catalano, una proposta dedicata ai piccolissimi in cui gli oggetti quotidiani, messi in relazione con la natura, sono sempre al centro della scena.
In programma troviamo anche spettacoli ispirati a grandi romanzi di formazione: Zanna Bianca di Luigi D’Elia e Francesco Niccolini, un viaggio nella foresta che faremo, insieme, attraverso gli occhi di un piccolo lupetto, Le nuove avventure di Bruno lo zozzo, ispirato al romanzo di Simona Frasca, una storia d’amore del Granteatrino proposto con il linguaggio dei burattini e Mio fratello rincorre i dinosauri con Christian Di Domenico, un narratore eccellente. In Molsa della compagnia Thomas Noone Dance, ispirato all’omonimo libro di David Cirici, sulla scena dei danzatori muovono delle marionette abbastanza grandi, mettendo in scena la storia di un bambino e del suo cane separati dalla guerra e che alla fine si rincontreranno. La casa del contemporaneo, invece, porta un testo che di solito propone agli adulti, TomCat, in cui si racconta lo stato d’animo di una ragazzina che sente di essere trattata come una cavia. Tra le “grandi narrazioni” c’è poi uno spettacolo di Flavio Albanese, Canto la storia dell’astuto Ulisse in cui delle sagome molto belle, realizzate da Lele Luzzati, dialogano con le ombre in un misto di linguaggi che prevede anche la narrazione. Questo è quello che accadrà nella vetrina di Bari. A Matera, invece, una città priva di teatri, è stato necessario ospitare spettacoli più agili come come quello del Circo El Grito, una compagnia di circo contemporaneo molto interessante.

Prima parlava dell’infanzia in movimento, un concetto molto affascinante. Come si intercetta? Quali sono le occasioni, i luoghi, dal punto di vista del teatro ma anche della nostra società in generale, per mettersi in ascolto dell’infanzia e capire quali sono le sue domande, i suoi dubbi?

Un’altra caratteristica di questo festival è che oltre alla vetrina ci sono tanti altri spettacoli in tanti altri luoghi e tante altre occasioni per intercettare questa infanzia in movimento. La caratteristica del teatro per l’infanzia, a differenza di quello per gli adulti, è che il bambino non sceglie di andare a teatro, ma c’è qualcuno che è intermediario. Noi cerchiamo tutto l’anno, e anche durante il festival, di coltivare dei rapporti speciali con chi può portare i bambini a teatro. Prima di tutto le insegnanti. Il festival prevede infatti sia spettacoli pomeridiani che matinée, per permettere alle insegnanti di portare i bambini. Chi muove questa infanzia sono appunto i genitori e le insegnanti e per le queste ultime cerchiamo tutto l’anno di costruire dei percorsi di visione attraverso il grande sostegno della Casa dello spettatore con Giorgio Testa e i suoi bravissimi collaboratori. Ogni anno attraverso questo percorso di formazione chiamato Esplorazioni cerchiamo di accrescere nelle insegnanti una maggiore consapevolezza del mondo dell’infanzia, ponendoci domande per noi fondamentali: come guardare uno spettacolo destinato ai bambini? Che caratteristiche ha? Come leggere uno spettacolo da sottoporre ai bambini? E abbiamo un gruppo veramente nutrito: sia pugliese che anche campano, perché anche il Teatro delle Nuvole (che fa parte della Fondazione SAT) fa anche un grandissimo lavoro. Saranno presenti al festival le insegnanti di Napoli, che durante l’anno hanno frequentato i corsi della Casa dello Spettatore e che quindi possiedono già una propria pratica di visione. Si diventa in qualche modo “complici”: gli insegnanti non subiscono più passivamente delle scelte ma ne sono partecipi in tutto e per tutto. Questo è un obiettivo che si sta cercando di raggiungere passo dopo passo. Infatti, quando trent’anni fa il Kismet ha iniziato il proprio percorso legato al teatro ragazzi fin sa subito abbiamo coinvolto gli insegnanti attraverso laboratori a loro dedicati. All’epoca si trattava veramente di iniziative insolite. Con gli anni però si è formata un’intera generazione di insegnanti che è diventata una generazione di veri e propri attivisti, creando associazioni come “Educhiamoci alla pace”. Ora, tutti questi insegnanti sono andati in pensione e noi qualche tempo fa ci siamo trovati nel bel mezzo di un passaggio generazionale senza sapere più con chi dialogare. Tant’è che c’è stato anche un grande calo di scuole che si interessavano al teatro ragazzi. Ecco che abbiamo dovuto reiniziare tutto da capo: ci siamo rimessi in movimento e abbiamo iniziato questo percorso con la Casa dello Spettatore, per ristabilire un contatto con chi lavora nel campo dell’educazione.
Quindi è chiaro che l’insegnante è un intermediario fondamentale. Dall’altra parte ci sono i genitori, che cerchiamo di intercettare in vari modi. Durante ogni spettacolo destinato alle famiglie, per esempio, realizziamo spesso nel foyer eventi, magari piccoli laboratori, che abbiano a che fare con il tema dello spettacolo, cercando di coinvolgere bambini e genitori.
Insomma, se vogliamo che questa generazione di “piccoli” entri in relazione con il linguaggio del teatro occorre preparare la strada. Non è sufficiente “prenderli” e metterli a guardare un’opera dal vivo senza alcuna preparazione. Tra l’altro la grande questione del teatro oggi è che i bambini sono molto abituati all’uso del cellulare, dell’i-pad, etc. sin da quando hanno pochissimi mesi di vita, per cui sono propensi a distrarsi facilmente. Quindi noi come operatori del settore abbiamo il compito di “conquistarli”, inventandoci delle modalità inedite di “teatro vivo”.

Da questo punto di vista, il contesto pugliese ti pare un “terreno fertile”?

Io penso che il teatro Kismet, proprio perché è una delle realtà teatrali più vecchie di tutto il meridione e d’Italia a lavorare attorno alle domande del bambino, in Puglia abbia fatto scuola. È quindi bello vedere come dall’esperienza del Kismet siano fiorite tantissime compagnie, che hanno fatto proprie le nostre modalità di relazione e coinvolgimento. Adesso esistono anche altri festival che si sono generati per “gemmazione” e che creano una molteplicità di occasioni d’incontro in tutta la regione, non solo da noi a Bari come poteva essere una volta. Ci sono insomma una miriade di attività che pongono grandissima attenzione all’infanzia, quindi i bambini sempre e ovunque, o la mattina attraverso i programmi scolastici o le domeniche pomeridiane o durante tutte le feste comandate, hanno l’occasione di praticare il linguaggio del teatro sia come spettatori che come partecipanti attivi, visto che tutti noi proponiamo corsi di ogni tipo dagli 0 anni fino all’adolescenza.
Tra l’altro il 13 maggio abbiamo realizzato Unduetrè/La cicogna naturale, una giornata particolare che abbiamo dedicato ai piccolissimi che ha coinvolto oltre ai bambini anche tutte le famiglie. Abbiamo offerto dunque la possibilità di trascorrere una giornata intera con laboratori di arte, musica, teatro, letture con momenti di confronto, riflessioni sulla genitorialità e l’educazione, di attraversare una molteplicità di domande legate all’infanzia e di farlo insieme. Il 15 maggio abbiamo costruito un grande corteo di apertura, che ha attraversato le vie della città dedicato ai “Mostri marini” con la partecipazione di 500 bambini che hanno sfilato in centro. Fra questi ultimi, circa un centinaio provenivano da scuole materne. Capite bene come dietro al festival ci sia un lavoro che si sviluppa lungo il corso di tutto l’anno, che lo rende un momento di grande coinvolgimento e di festa collettiva per la città intera (processo che stiamo cercando di portare anche a Matera). L’idea non è dunque quella di una vetrina, ma è una concezione più ampia che viene nutrita in ogni momento con varie iniziative che hanno nel Maggio la propria conclusione.
In fondo, questi 500 bambini che ne sanno del Maggio all’infanzia. Sanno che per tutto l’anno preparano qualcosa che ha un suo compimento, dopodiché andranno a teatro. Assoceranno dunque il lavoro prolungato con quello che gli spettacoli che verranno a vedere, creando una specie di continuum e facendo del festival anche un risultato del loro lavoro.

Parlava della necessità di dover coinvolgere spettatori – i bambini – abituati a modalità di fruizione sempre più rapide e veloci. Forse una chiave sta nell’ironia e nel divertimento, che ci sembrano centrali nel Teatro Ragazzi. Ma come evitare che scadano in mero intrattenimento?

Io penso che dipenda unicamente dalla professionalità degli artisti che lo praticano. Un buon artista è una persona con delle competenze, che è in contatto con il mondo e ha specifiche missioni: io faccio l’artista perché, in qualche modo, voglio testimoniare il mio sguardo sul mondo di oggi. Abbiamo una grande responsabilità quando facciamo spettacoli per bambini, perché i bambini sono gli uomini, le donne e i cittadini del futuro. Quindi il divertimento è una condizione: quando si va a vedere qualcosa ci si predispone già a uno stato di godimento, io vado a teatro perché voglio avere il piacere dell’incontro. Come ne uscirò da questo incontro non lo posso sapere e quelli che dicono a prescindere “io lo faccio per divertire” indicano già qualcosa di stereotipato; cosa significa far divertire qualcuno? Parliamo di idea del divertimento. Il teatro è qualcosa che accade lì, c’è un artista – una persona che ha passione per quello che sta facendo, che si impegna quotidianamente e che è consapevole dei propri mezzi – c’è una storia da raccontare, un linguaggio specifico, e c’è un’attenzione particolare verso chi fruisce lo spettacolo. Dovendo parlare di un pubblico bambino credo che il linguaggio della semplicità, del rigore e della perfezione sia importante: bisogna utilizzare in maniera chiara e precisa i simboli, perché quando ci rivolgiamo ai bambini noi contattiamo degli archetipi che, se confusi e mal gestiti, possono fare male; ogni elemento muove qualcosa. Di fronte alla confusione il bambino si distrae e quindi qualcosa non sta funzionando. Ho visto centinaia di spettacoli e mi sono fatta questa idea: non esiste un pubblico “difficile”, esiste un pubblico che non è abituato. Però se uno spettacolo è ben costruito nella sua semplicità, nel suo rigore, nella sua autenticità, funziona, è recepito e accolto; ciò che accade sulla scena deve essere autentico, non deve essere una presa in giro, non deve essere infantile, bambinesco: se tutto questo c’è, anche il bambino c’è, l’aura tra il bambino che è lì e l’artista che è dall’altra parte è un filo vero. Loro sono animaletti, nel senso buono della parola: quando c’è qualcosa di vivo lo acchiappano. La nostra responsabilità è di metterli nelle giuste condizioni.

Ritornando al concetto del buon artista, che esprimendosi in maniera autentica rende lo spettacolo vivo e quindi capace di catturare il pubblico, pensiamo ai suoi spettacoli tout public. Si può dunque realizzare uno spettacolo “per” bambini e ragazzi ma che, pur tenendo conto del proprio destinatario principale, possa arrivare a un pubblico di tutte le età?

Uno spettacolo fatto bene è uno spettacolo per tutti. I francesi dicono tout public, in realtà noi diciamo per tutti. Come dovrebbe essere. Uno spettacolo di Peter Brook, per esempio, è veramente uno spettacolo per tutti. Verso la metà del suo percorso lui invitava i bambini alle prove perché li considerava gli unici in grado di restituire agli attori la verità su quello che stavano facendo. Se lo spettacolo reggeva la comicità del bambino funzionava; a lui non interessava invitare gli intellettuali, per me capire questo è stata una grande lezione. Il bambino è lì e sei tu a dovere entrare in relazione. Inoltre Brook ha sempre utilizzato la semplicità: una cosa semplice non è una cosa banale, ma chiara; la cosa importante è costruire i livelli. L’ultima produzione che abbiamo realizzato in Giappone, Pinocchio, è uno spettacolo stratificato che a Tokio viene proposto sia la mattina per le scuole che la sera con un pubblico esclusivamente adulto.
In Italia tendiamo a sezionare molto (teatro ragazzi, teatro infanzia)… Certo i destinatari devono essere individuati e infatti uno spettacolo per adulti di un certo tipo forse non è sempre il caso di proporlo a un bambino. Il tema della morte, per esempio, si può affrontare con i bambini, ma attraverso un linguaggio consono, piuttosto che sottoporli a qualcosa di violento o feroce. La differenza sta nel tipo di linguaggio che si utilizza per portare in scena una storia universale. Quindi uno spettacolo per tutto il pubblico è quello in cui si propone una grande storia costruita su vari livelli: il bambino ne coglie un primo (noi lo sappiamo, le grandi storie hanno ampia profondità), ma anche l’intellettuale, se fa uno sforzo, può trovare in uno spettacolo come Pinocchio delle domande, degli stimoli, insomma qualcosa che abbia a che fare con un momento della propria vita.

Francesco Brusa, Nella Califano, Carlotta Tringali 




Tanti linguaggi che parlano una sola lingua, quella del teatro

C’è una delle scene finali di Kill Bill, in cui il “cattivo” che dà titolo al film discetta della filosofia alla base dei fumetti sui supereroi. Uno in particolare sembra discostarsi da tutti gli altri: «Quando Superman si sveglia al mattino, è Superman. Il suo alter-ego è Clark Kent. […] Quello che Kent indossa, gli occhiali, il vestito da impiegato, è il suo costume. È il costume che Superman usa per adattarsi a noi. Clark Kent rappresenta il modo in cui Superman vede noi umani».
Superabile della compagnia Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt, proposta del Festival Segnali tra l’altro vincitrice di un premio Eolo, sembra utilizzare un meccanismo simile, sembra mettere in atto un ribaltamento di sguardo che chiama subito in causa una certa idea di normalità e di “potere”, nel senso di capacità di agire nel quotidiano. I quattro personaggi dello spettacolo, di cui due in carrozzina, sono immersi proprio in un mondo da fumetto, in vere e proprie strisce disegnate (fatte scorrere su una lavagna che le proietta su di un grande schermo sul fondo del palco), scenario delle loro azioni. Con ironia lieve ma spesso anche caustica, ora rivolta verso se stessi ora verso chi non è portatore di una disabilità comunemente intesa, ci raccontano di gesti, sentimenti, difficoltà e frustrazioni che abitano la loro vita di tutti i giorni. E ci indicano il perché non è una vita “normale”: fintanto che la società ci spinge al restringimento di tempi e ritmi, a considerare il lavoro e le relazioni come delle performance, non ci sarà mai “luogo” per la diversità.
È significativo che il fumetto e il disegno, discipline che in maniera forse più immediata di altre rivelano il loro carattere di rappresentazione personale e fittizia, si facciano strumenti per ragionare di temi che paiono invece incarnarsi nelle fibre più concrete dell’individuo: libertà, coraggio, amore. E lo fanno appunto ponendosi in contrasto visivo e stilistico con i corpi vivi, in qualche modo teatralmente pesanti, degli attori. Skreek – a comic revolution, una produzione di Dascollectiv con la regia di Giovanni Jussi: un vertiginoso gioco di scatole cinesi, che rompe in continuazione tutte le quarte e le quinte pareti possibili. Ad accoglierci in sala è infatti un video che mostra delle riprese in tempo reale dell’esterno del teatro. Poi vediamo la protagonista in carne e ossa entrare dalla porta laterale e dirigersi verso il bordo del palco, dove è apprestata una “sala di comando” fatta di cavi, mixer e microfoni. Da lì lei, la “Creatrice”, si mette in comunicazione con Jean Luke, materializzatosi sullo schermo in un altrove in bianco e nero che ha tutte le fattezze di un comunissimo appartamento, trasfigurato però da linee e oggetti disegnati a mano, ancora una volta vicini a un’estetica da graphic novel. Chi è Jean Luke? È un personaggio virtuale, pare frutto dell’immaginazione della Creatrice, un “supereroe andato in pensione”, un ragazzo che vuole salvare il mondo, ma non sa come farlo. Tantomeno sa bene cosa sia il “mondo”, visto che è confinato fra le quattro mura dell’appartamento, immagine nata dalla mente di colei che lo ha creato. Eppure da lì vuole scappare, reclama la propria libertà. A un certo punto, per compiacerlo, la Creatrice chiama un volontario dal pubblico, che dovrebbe andare a far compagnia a Jean Luke. Si alza Davide, un ragazzino che viene condotto dietro le quinte e infine risucchiato nello schermo, dentro l’appartamento del supereroe il quale, dopo aver brevemente tentato di fare conoscenza, lo prende in ostaggio e si “compra” così la propria fuga dal mondo virtuale: mentre un video finalmente a colori ci mostra Jean Luke uscire dal teatro per le strade di Milano, Davide rimane invece imprigionato nel monocromatico appartamento, in un loop drammaturgico che segna la fine dello spettacolo.
«La felicità consiste nella libertà, e la libertà nel coraggio» recita il libretto di scena di Skreek di Dascollectiv, riprendendo Pericle. Eppure, la chiusura ambigua e amara delle vicende sembra suggerirci che la nostra libertà è quasi sempre a spese di qualcun altro.

Frankie

C’è, in questa ambiguità e amarezza, un ribaltamento anche formale. Fumetto, disegno e illustrazione, che a prima vista potrebbero essere considerati come un “porto sicuro” dell’evasione e della fantasia, si fanno invece segno di una certa componente oscura, quasi distopica. Invece di lanciarci verso nuovi universi e avventure, paiono costringere e racchiudere in microcosmi asfittici. Tale è la gabbia domestica in cui è confinato Jean Luke. Similmente, la quotidianità dei protagonisti di Superabile di Teatro La Ribalta – Kunst der Vielfalt assume dei tratti claustrofobici, rivela dei confini difficili da forzare. L’essenzialità del disegno, in particolare se in bianco e nero e “a pennarellone” come succede in buona parte di questi spettacoli, assume quindi una funzione per così dire “espressionistica”. Tesa cioè a espungere dalla realtà le sfumature, per rimarcarne al contrario gli elementi più perturbanti e stridenti. Ma tesa soprattutto, come accennavamo in precedenza, a reclamare per la presenza dei corpi attoriali in scena uno statuto di verità che in qualche modo si sporga oltre il teatro, si affacci con il busto e il volto fuori dalla scena, pure restandovi dentro con i piedi ben ancorati. «Siete sicuri di essere reali?» ci chiede la protagonista di Skreek, mentre i due personaggi in sedia a rotelle di Superabile si guardano l’un l’altro e si domandano: «Che cosa vedi?» «Due occhi, un naso con un neo, un volto…».
Le componenti smaccatamente rappresentative e finzionali esprimono il punto di vista e i sentimenti dei personaggi, oggettivizzandoli nel fumetto, mentre i loro corpi e i pensieri che da quei corpi provengono procedono più vicini a noi, per una sorta di “sbalzo percettivo”. Ecco dunque che l’utilizzo di linguaggi altri, la messa in campo dei nuovi media sulla scena, serve in fondo a ribadire il più antico dei linguaggi teatrali: la compresenza di attore e spettatore, impegnati quasi in egual misura in un comune processo di partecipazione emotiva. Con il dubbio, però, che i ruoli siano saltati, perché gli attori sul palco diventano praticamente spettatori di se stessi, dei propri flussi mentali che scorrono sullo schermo. E noi in poltrona ci sentiremmo chiamati a intervenire, visto che, lasciati così come sono, gli sviluppi di Superabile e Skreek così come quelli di Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto sembrano faticare a procedere, ingolfarsi, entrare in strani loop…  Perché è il nostro punto di vista sulla diversità, sul potere, sul coraggio a dover cambiare, per dare alle storie un altro esito. Potremmo essere dei potenziali deus ex-machina, e restiamo inchiodati al nostro posto. Ma, via via che gli spettacoli ci pongono di fronte alle nostre responsabilità, è un posto sempre più scomodo.
Il pubblico è testimone quindi e, per essere testimoni, è necessario rendersi consapevoli, come scriveva Ubersfeld, della dinamica di “denegazione”. Senza rinnegare la realtà che avviene sul palco, il pubblico deve accettarla come altra, accogliendone la profonda veridicità e la responsabilità etica ad essa connessa: lo spettatore deve poter andare fino in fondo, non essere mai estraneo, nonostante il gioco finzionale e la distanza rispetto a ciò che vede sul palco.
Come per l’oscuro spettacolo Il mio amico Frankie di Occhisulmondo, Fontemaggiore e Teatro del Buratto, che, attraverso un’estetica da primo cinema muto, grazie anche a quello schermo velato, filtro della visione e concreta parete da superare, racconta una storia – su fondo nero – in cui il pubblico non può far altro che immergersi, ma prendendo una posizione. Non si esce dallo spettacolo senza un’opinione. Il racconto senza parole di un figlio, marionetta creata da Mariella Carbone, abbandonato sempre più a se stesso a causa degli impegni dei genitori, è tutto contemporaneo. Le movenze ripetute, alienanti, da pupazzo di legno appartengono però più ai vivi che alla marionetta stessa. Sarà un disegno a riconsegnare al figlio la possibilità di sognare un mondo altro, reso vivo da un essere immaginato e immaginario, quel mostruoso Frankie alla Mary Shelley che si rivela l’unica opportunità di fuga da una realtà buia, ripetitiva e claustrofobica. Un finale aperto, il ritrovarsi della famiglia oltre la cortina del velo, al confine con la platea, che lascia spazio a interpretazioni anche opposte, nasconde in sé la responsabilità dello spettatore.
Il teatro, con il mistero e il celato che gli concedono vita e sostanza, può risalire al suo essere evento in dialogo con la natura umana più profonda proprio grazie all’unione di differenti linguaggi. Non un’unione sintetica o pacificata, ma, seguendo Artaud nel suo Sul teatro libanese, una sorta di fusione che metta l’accento sull’interferenza tra segni significativi ed espressivi diversi. Che si tratti di fumetti, tecnologie all’avanguardia, immaginario cinematografico, nella programmazione della XXIX edizione di Segnali gli spettacoli che uniscono forme espressive diverse in scena lo fanno per metterle in contrasto con il dispositivo teatrale, giocando sull’interferenza e non sulla sintesi di linguaggi, rimarcandone la mancanza di identità.

Francesco Brusa, Camilla Fava




Quella gioia che divora lo spazio. Un focus su Compagnia Rodisio

Davide Doro e Manuela Capece (Compagnia Rodisio) pongono grande attenzione al gesto, alla mimica, al movimento in scena nei suoi minimi dettagli. Al Festival Segnali hanno presentato Joy (prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale), uno spettacolo che cerca di raccontare nemmeno una situazione, ma uno stato d’animo, una sensazione impercettibile.
Vi proponiamo un focus su questa proposta, dove a una breve recensione dello spettacolo affianchiamo le parole della compagnia, con cui abbiamo conversato poco dopo la messa in scena.  

C’è un uomo che ha una sfera in mano, l’accarezza, la manipola, la dilata, la compatta, ad un certo punto la sfera immaginaria pulsa e diventa un cuore vivo agli occhi dello spettatore bambino che si trova di fronte a Joy di Compagnia Rodisio. L’uomo danza nello spazio con armonia e precisione adamantina e, nonostante la sua età, non ci racconta delle sue primavere, ma dell’essenza del viaggio che lo ha condotto davanti a noi, sul palco del Teatro Fontana per il Festival Segnali. Esplode il suo corpo, si divora lo spazio, lo abbraccia con una vertigine di ampi movimenti di braccia veloci, poi trattiene in sé quell’universo fagocitato cercando di far risuonare quel carnevale, dentro. L’uomo poi torna bambino e si confronta con l’assenza del corpo a scuola, in un sistema che il corpo lo annulla, lo mette a tacere, lo giudica come fastidioso quando indomabile ed esuberante, elogia l’immobilità non come conquista consapevole ma come possibile spegnimento di una accensione e di un desiderio al fare, all’andare. La sfera, che prima era gioiosa, si trasforma in un’esplosione di rabbia come se i due sentimenti si definissero solo se accostati, in un orizzonte dialogico dove lo scontro è finalizzato alla definizione del sé. E da questo universo mondo che è la costruzione dell’io, si arriva a spostare lo sguardo al di fuori, alla natura, al mondo animale, alle piante e ai fiori, in un esercizio di sguardo che si allontana e amplia, arrivando a puntare il naso all’insù fino alle stelle e all’universo al quale rivolgiamo preghiere, pensieri e interrogazioni capaci di riguardarci. Uno spettacolo dedicato al pubblico di bambini a partire dai 3 anni che ha la virtù di scegliere il linguaggio coreutico, senza paura di sbagliare o essere frainteso, andando dritti al corpo dello spettatore ed elargendo solo un piccolo frammento di racconto tattile ed emotivo: “Faceva freddo. Ero molto piccolo. E avevo paura. Mia mamma, senza mai lasciarmi la mano, si abbassò e raccolse una castagna da terra. Poi mi disse: “Vedi, questa castagna è magica. Tienila in tasca, e quando hai paura e ti senti solo, infila la mano in tasca e stringila forte. Vedrai, andrà tutto bene”. Ovviamente noi sappiamo che quella castagna non è magica, ma per una frazione di secondo, ci crediamo e usciamo dalla sala sereni, dopo aver attraversato svariate tempeste nel mezzo.

Agnese Doria

Lo spettacolo Caino e Abele di Compagnia Rodisio (ph:M.Zanghellin)

Cosa significa utilizzare il movimento nel teatro-ragazzi? C’è un “principio di semplicità” che anima il gesto?

Più che un principio di semplicità, credo che per noi prevalga un principio di onestà, di necessità, di modo che il gesto e il movimento non siano qualcosa di puramente estetico. È quasi una questione di verità. Esattamente come la parola: se nel tuo discorso ci sono parole in più, risultano in eccesso proprio perché non sono necessarie, vere e oneste.
È indubbio che partire da una storia, che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, possa sembrare meno difficoltoso per certi aspetti. Perlomeno come punto di partenza, dopodiché sorge tutta una serie di complessità sul come far arrivare questa narrazione al pubblico. Credo che appunto il “modo” sia la cosa centrale. Quindi non so se l’assenza di una narrazione complichi o meno le cose.
Nel caso di Joy, il pensiero che sta alla base della costruzione dello spettacolo ha seguito una mia esigenza molto personale, intima, per cui non sentivo la necessità di raccontare una storia con uno svolgimento chiaro ma piuttosto di condividere degli stati d’animo. Quindi, il principio che ho seguito è stato più quello di dover creare dell’armonia, laddove la gioia è appunto quella sensazione di essere in armonia con il resto, con l’oltre da sé.

Nel caso di Joy ci si rivolge a una fascia d’età di piccolissimi, dai 3 anni…

Crediamo che più si abbassi l’età, più ci voglia cura. Qualsiasi scelta in scena dev’essere supportata da una forte responsabilità, dal colore alle luci, etc. Questo però non vuol dire che si debba guardare al bambino piccolo intimoriti dal fatto che possa capire o non possa capire, che si debba divertire o non si debba divertire… Noi tentiamo di allargare quanto più riusciamo la “forbice delle loro possibilità di visione”: personalmente penso che un bambino anche molto piccolo possa seguire senza problemi l’opera o una storia drammatica, perché hanno strumenti di rielaborazione molto particolari.
Soprattutto gli spettatori che vanno dai 3 ai 5 anni si muovono nello spazio fra verità e finzione in maniera molto più agile dei grandi. Hanno molta più familiarità con l’elemento magico della scena e quindi puoi prenderti il lusso di proporre delle visioni anche fortemente complesse e ambigue, risulta paradossalmente più facile “osare”. Già con le elementari invece si perde quella capacità di stare fra il vero e il finto, gli strumenti di fruizione si avvicinano sempre di più a quelli degli adulti e subentra la necessità di avere una struttura, che può essere molto banalmente una storia o la riconoscibilità dei personaggi (buono/cattivo, etc.).
Quindi indubbiamente è delicato produrre spettacoli per questa fascia d’età, ma ci si può prendere un ampio spettro di libertà di composizione. Joy in tal senso è una proposta inusuale: ci sono parti che certamente richiamano il divertimento o la risata, ma di fondo è uno spettacolo contemplativo.

Voi lavorate molto anche in Francia. Che differenze ravvisate, soprattutto rispetto alle proposte di danza per i ragazzi?

In Italia è da qualche tempo che si è iniziato a proporre la danza ai bambini, mentre in Francia si tratta di un processo avviato da molti anni. Quindi hai un pubblico che, dai bambini ai genitori, è già abituato al movimento in scena, e questo succede dalla grande città al piccolo villaggio di provincia. Ovviamente la Francia e il Belgio sono un po’ delle eccezioni nel panorama internazionale, dove il sistema è talmente forte e avanzato che rende gli spettatori “pronti” e reattivi, perché è un pubblico fortemente stimolato da una grande varietà di proposte.

Nello spettacolo ci sono gesti molto vicini alla pantomima, al mimo, qualcosa che nel panorama attuale è sempre più raro vedere. Come mai?

Crediamo che sia molto legato al sistema di formazione e accademia. Non c’è più una formazione d’attore completa, che contempli anche queste forme di recitazione. Sempre tornando alla Francia, gli attori sono spesso anche danzatori e musicisti. Le nostre accademie sono invece rimaste a un sistema molto più classico, per cui ci si specializza rispetto a una o massimo due competenze. C’è un livello di formazione magari molto alto che però risulta diviso in settori. Invece in Francia, Belgio o anche Danimarca ci è capitato di vedere spettacoli dove gli interpreti, spesso anche molto giovani, possedevano uno spettro di linguaggi e abilità pressoché totale.
Noi ci siamo formati come autoditatti, affiancando durante gli anni ’90 dei maestri come Letizia Quintavalla, Bruno Stori o Maurizio Bercini, ma non abbiamo mai frequentato l’accademia. Però ci sarebbe piaciuto avere una formazione accademica ma completa, che stimolasse anche uno sviluppo di curiosità il più possibile vario ed eterogeneo. Al contrario, questo tipo di completezza la si deve cercare autonomamente, frequentando seminari, workshop, etc. che sono il più delle volte a pagamento per cui per un attore giovane diventa anche difficoltoso inventarsi il proprio percorso di “educazione teatrale”.

Francesco Brusa, Rodolfo Sacchettini




Tre domande per tre Pollicini. Conversazione con Teatro Paraìso, Eco di Fondo e Teatro del Piccione

Una fiaba oscura, cruda, inquietante, spesso nemmeno raccontata ai più piccoli, entra come fil rouge nella XXIX edizione del Festival Segnali, che ha visto ben tre Pollicino nella sua programmazione. Dal Pulgarcito di Teatro Paraìso (Tomás Fdez. Alonso, Ramòn Monje, Inaki Rikarte, Inaki Salvador) una delle proposte internazionali della rassegna, passando per l’anziano Pollicino di Eco di Fondo (Giacomo Ferraù, Giulia Viana, Libero Stelluti, Andrea Pinna) e concludendo con la fedele versione proposta da Teatro del Piccione (Simona Gambaro, Paolo Piano) e Teatro della Tosse, con regia e drammaturgia di Davide Doro e Manuela Capece, il celebre racconto di Perrault viene messo in scena da differenti angolature.
Abbiamo intervistato le tre compagnie per scoprire da dove venga la spinta e quali siano le scelte fatte per raccontare una fiaba solo in apparenza tanto senza speranza.

Perché avete deciso di mettere in scena Pollicino?

Tomás Fdez. Alonso (Teatro Paraìso): Semplicemente ci sembrava un testo stimolante e desideravamo metterlo in scena. Per prima cosa lo abbiamo proposto al regista, che ci ha pensato sopra e se ne è uscito con la proposta di far diventare il personaggio di Pollicino un anziano. Questo è stato sostanzialmente il nostro punto di partenza. Il resto è stato costruito attraverso l’improvvisazione: da lì si sono create altre situazioni, che hanno innescato ulteriori intuizioni, da cui infine sono nate le scene e i conflitti presenti nello spettacolo. In più, ci siamo posti come condizione di non utilizzare alcuna ambientazione che non fosse quella di una normale stanza d’appartamento: tutte le vicende si sarebbero dovute svolgere negli spazi e con gli oggetti che si possono comunemente trovare in una normale camera. Questo, che potrebbe sembrare una limitazione, si è infine convertito in uno dei punti di forza dello spettacolo. Ci ha infatti permesso di trasformare tanti oggetti di uso quotidiano in qualcosa di diverso, a volte addirittura di farli diventare dei personaggi (come nel caso dei calzini che a un certo punto “impersonano” le figlie dell’Orco della fiaba), oppure di rendere più interessanti ed evocativi elemento che a tutta prima non sembrerebbero così centrali, come gli stivali delle sette leghe che vanno a dare senso a quasi tutto lo spettacolo.

Simona Gambaro, Paolo Piano (Teatro del Piccione): Pollicino è già entrato a far parte di nostri altri spettacoli, ad esempio con Piccoli Eroi. Nonostante si tratti di spettacoli diversi, c’è un’urgenza comune che parte dalla fiaba di Perrault. Nel Pollicino messo in scena qui a Segnali, centrale è l’elemento della paura, quel saper trovare le proprie risorse per affrontare una sfida. Questa paura e questa audacia accomunano Piccoli Eroi e Pollicino, sono l’urgenza che diventano un invito ad avere coraggio e fiducia.
Nel caso di Pollicino, la scelta drammaturgica e registica di Manuela Capece e Davide Doro è stata di mantenere un’assoluta fedeltà alla fiaba, messa in scena senza dare interpretazioni o doppie letture. La scelta, forte, è stata quella di essere nudi e crudi proprio come la fiaba, elementari nell’uso dei suoi simboli, della sua costruzione narrativa e dei personaggi. Una fiaba buia, truculenta, la cui crudezza abbiamo voluto trasmettere anche attraverso una scena che è uno spazio vuoto in cui vivono soltanto parole e personaggi. Paradossalmente però questa fiaba è anche un inno alla vita, al saper andare dentro e oltre le cose: lo spettacolo accade in teatro, un luogo di per sé buio, e i bambini vivono un’esperienza di paura, di inquietudine, che si fa strada, anche concretamente, tra il pubblico. La conquista del tesoro da parte di Pollicino, solo evocato e mai sul palco, nel finale è anche la conquista che il pubblico fa arrivando alla fine dello spettacolo: noi torniamo in scena come genitori e diciamo: «bravi bambini, ce l’avete fatta, siete stati coraggiosi». Questo è il nocciolo di Pollicino che, declinato per un’altra età, era in Piccoli Eroi.

Eco di fondo: Pollicino nasce proprio in un filone della compagnia, teso a indagare miti e fiabe. Da un lato, i miti sono maggiormente dedicati a un teatro per adulti, mentre le fiabe sono riservate ai più piccoli. Tuttavia spesso si mischiano anche perché miti e fiabe hanno delle radici molto comuni, lavorano su paradigmi potentissimi che si possono declinare in qualsiasi modo.
Come sempre, abbiamo sempre prima pensato al tema, di cosa avevamo urgenza di parlare anche a livello personale. È  un periodo della nostra vita in cui, com’è normale, ci dobbiamo assumere maggiori responsabilità, in cui stiamo diventando “genitori dei nostri genitori”. Inoltre, in questo momento stiamo anche portando avanti degli incontri con l’università di Milano incentrati sui caregiver. Quindi, abbiamo subito pensato a Pollicino in quanto fiaba dell’abbandono per eccellenza, assieme a Hansel e Gretel, con cui speriamo di confrontarci prima o poi.
In scena si vede una casa di riposo. Cosa si può dire delle case di riposo? Tutti abbiamo su di esse un’opinione personale, che però non rispecchia un’universalità. È qualcosa di molto specifico, che varia da persona a persona. Nel caso di Pollicino, il protagonista le vede come un inferno ma è chiaro che per molti altri non sia questa la realtà. Siamo stati in delle case di riposo, ne abbiamo osservato il funzionamento, con i bambini infine abbiamo realizzato delle prove aperte che ci aiutano a “rodare” lo spettacolo. Fino all’ultimo ci siamo interrogati se arrivare al punto in cui Pollicino diventa così piccolo da scomparire, avevamo dei dubbi su come potesse essere recepito dai bambini… ci è sembrato che il doppio piano di narrazione funzioni bene. Ai bambini arriva il lato più divertente e divertito, mentre gli adulti si identificano di più con le responsabilità connesse alle scelte da prendere nel momento in cui i propri genitori invecchiano.

Nonostante questi temi di fondo, negli spettacoli c’è anche un uso molto diffuso dell’ironia…

Simona Gambaro, Paolo Piano: Sì, è un doppio registro contraddittorio. Come siamo contraddittori noi in quanto persone lo sono anche i personaggi della fiaba e di conseguenza i nostri ruoli. Ci si completa. I due genitori che noi incarniamo si dimostrano dei disgraziati abbandonando i loro figli. È necessario notare come l’abbandono dei figli sia un fatto che accade oggi, magari lontano dai nostri occhi, ma accade. I genitori di Pollicino, come nella realtà, non sono univoci, non sono cattivi. Sono dei disgraziati che non possono fare altro, o non riescono a immaginare cos’altro potrebbero fare. Quando l’abbandono avviene nella realtà forse è proprio l’unico tentativo di soluzione immaginabile per chi lo mette in atto. Quindi essendo una realtà difficile non abbiamo potuto fare altro che restituirla nella sua complessità. In questi personaggi, in questi ruoli c’è anche la nostra inadeguatezza come esseri umani, la nostra necessità di cercare degli spiragli di felicità anche nella disperazione. È per questo che fanno capolino ironia e leggerezza.
Inoltre l’ironia assume un ruolo importante anche dal punto di vista drammaturgico. Per quanto i personaggi della fiaba siano tagliati con l’accetta, non abbiano nomi – sono il Padre, la Madre, un Boscaiolo e sua Moglie, l’Orco e l’Orchessa – siano monolitici insomma nella loro funzione, portandoli sul palco acquisiscono una rotondità. Tale rotondità e tale ambivalenza mettono “in moto” il pubblico, lo costringono a non restare passivo di fronte allo spettacolo. Se i personaggi fossero piatti, come schizzati su un foglio, saremmo noi come artisti a dare la nostra chiave di lettura, imboccando il pubblico, ma non è ciò che desideriamo per gli spettatori. Pollicino gioca molto sulla soglia, sul confine. Il linguaggio è chiuso, noi siamo immersi nella nostra storia, ma la soglia è permeabile e l’ironia è una delle chiavi d’accesso.

Eco di fondo: Ci siamo divertiti a ironizzare sul concetto del rimpicciolimento, per cui ogni gesto o azione diventa estremamente faticoso da compiere per una persona che si fa via via sempre più piccola (processo che ovviamente allude all’invecchiamento). In questo senso, il mondo delle fiabe è un’ambientazione che facilita a evadere dal realismo, che dunque ci aiuta a percepire le problematicità evidenti ma senza renderle evidentemente drammatiche. Ciò che avviene è dunque una decontestualizzazione delle problematiche concrete, per trasporle in un’ambientazione diversa. Di conseguenza abbiamo preso ispirazione dal ruolo che nella versione di Perrault hanno i genitori di Pollicino, che sono due boscaioli. Da lì è nata la nostra idea di raccontare un boscaiolo, che dunque nel contesto odierno potrebbe essere un progettatore di case e capanne, etc. e la moglie del boscaiolo che si presume invece trascorra più tempo a casa e da lì “assiste” i personaggi delle fiabe, offrendo loro un supporto per via telefonica.

Tomás Fdez. Alonso: Credo che i bambini abbiano molta capacità di resilienza. Nel momento in cui ancora stavamo costruendo lo spettacolo, ci siamo accorti di come Pollicino sia in realtà un testo veramente terrorizzante: parla di genitori che da quanto sono poveri sono costretti a prendere la decisione di abbandonare i propri figli nel bosco, per non vederli morire fondamentalmente. Sono situazioni tragiche, truculente…  Allo stesso tempo però sono storie che appartengono all’immaginario collettivo e la cui origine si perde nella notte dei tempi, sono un patrimonio della cultura occidentale. Come si possono raccontare a bambini piccoli? Durante le prove dello spettacolo, abbiamo conversato con degli psicologi, che ci hanno spiegato come non ci sia problema per i bambini a recepire queste storie, per loro il carattere terrorifico e truculento non ha nessuna importanza. I bambini si identificano con Pollicino, che è un bambino piccolo come loro, che come loro parla poco e ascolta molto, e che ha il coraggio e la forza per uscire dalle situazioni di massima difficoltà. È questo il valore delle fiabe per i bambini. Ecco perché i bambini nel vedere le vicende di Pollicino si divertono mentre gli adulti si concentrano su gli altri elementi maggiormente conflittuali. L’importante è riuscire a inserire nello spettacolo sufficienti “stratificazioni” e livelli, cosicché ciascuno spettatore possa entrare nella dimensione di narrazione che sente più vicina a lui.

C’è la sensazione di una sovrapposizione fra infanzia e vecchiaia (negli spettacoli di Teatro Paraìso e di Eco di Fondo, Pollicino è a tutti gli effetti un anziano)… che cosa hanno in comune queste età della vita? In generale, oggi, le fiabe parlano a tutti?

Tomás Fdez. Alonso: Credo che esistano opere universali, da cui derivano semplicemente letture diverse. L’isola del tesoro, E.T. o il cinema di Charlie Chaplin sono opere per bambini o per adulti? Allo stesso modo, Pollicino è una fiaba che appartiene all’immaginario occidentale.
Un nonno e un bambino hanno molto in comune. Il primo si trova all’inizio della vita e il secondo alla fine, rappresentano insieme il circolo della vita. Perché i bambini e gli anziani si intendono così facilmente? Perché in realtà dal punto di vista psicologico sono molto simili: gli anziani non vivono le cose in un modo così pesante come gli adulti e, di conseguenza, capiscono meglio i bambini.
Pensiamo alla maschera del clown, di cui si dice essere “il bambino che tutti siamo stati da piccoli”. Chi sono, di solito, i clown migliori nel circo? Sono quelle persone anziane, gli acrobati o i giocolieri che non possono più esercitarsi e che quindi diventano clown. Anche lì, come nella vita reale, chi è alla fine della vita o della carriera riesce a parlare meglio a chi invece sta nel punto iniziale del circolo. Il nonno si comporta a tutti gli effetti come un bambino: non vuole togliersi il pigiama, fa i capricci, nasconde cibo nelle tasche… azioni che spesso fanno anche i bambini, i quali dunque sono quelli che ridono di più osservando i nonni.

Eco di fondo: L’idea  del nostro spettacolo è stata anche quella di, attraverso il gioco e attraverso un immaginario comune, pop, ma anche con tutto il tatto possibile, guidare adulti ma soprattutto bambini a prendere consapevolezza delle diverse fasi della vita. Diventare anziani è un po’ come ritornare bambini, si diventa sempre più fragili, sempre più piccoli e si va in un altrove, proprio come i personaggi delle fiabe. Nelle fiabe c’è scritta la parola fine ma si sa che queste storie continuano da qualche altra parte, forse e chissà come.
Credo che questo sia un atteggiamento profondamente infantile: i bambini non capiscono la fine del gioco, però capiscono la trasformazione. Cioè, non smettono mai di giocare ma tu gli puoi proporre un altro gioco e loro ti seguiranno, perché intuiscono che non c’è fine ma c’è solo un’altra forma. Allora il gioco di correre diventa facciamo il gioco del silenzio e viene preso all’istante però cambia forma e non può diventare un’interruzione. È qualcosa che ci ha guidato anche a livello stilistico: nello spettacolo utilizziamo diversi linguaggi, dal cinema alla musica, da riferimenti ad altre fiabe agli oggetti, proprio come mischiare i linguaggi è alla base del gioco infantile. Il bambino fa dialogare mondi che non hanno a che fare l’uno con l’altro, e li fa dialogare per una sua scelta totalmente arbitraria.

Simona Gambaro, Paolo Piano: Purtroppo la fiaba ha perso il riconoscimento della sua funzione perché non è stata più utilizzata per lo strumento potentissimo che è. Pollicino è talmente truculenta che, per esempio, non è nemmeno stata presa in considerazione da Disney, ma la tendenza generale è quella di rendere le fiabe “a misura di bambino”, con poco rispetto invece per lui e per la sua capacità di comprensione. Calvino, nell’Introduzione a Fiabe italiane, dice che le fiabe sono il catalogo dei destini dell’uomo. In ogni fiaba sono raccontati i passaggi essenziali della vita, per cui un Pollicino parlerà in un modo diverso in base a chi lo ascolta, alla sua età, al suo vissuto.
Nello specifico questa fiaba è veramente oscura, spaventosa, contiene il peggio dell’animo umano: dall’abbandono alla povertà, dall’assassinio, anche di bambini, al cannibalismo. Eppure, ci abbiamo visto uno strumento da mettere nelle mani dei bambini con la consapevolezza che con i più piccoli si possa davvero affrontare qualunque discorso. Ci siamo resi conto che i giovani spettatori riconoscono immediatamente la possibilità di utilizzare un racconto come mezzo per se stessi, per la propria vita di ogni giorno, traducendolo in opportunità. Inizialmente abbiamo fatto resistenza alla volontà di Manuela Capece e Davide Doro di non fornire al pubblico alcuna interpretazione ulteriore della fiaba, pensavamo fosse necessario uno sforzo in più. Invece, quando abbiamo accettato questa pulizia, ci siamo resi conto che lì, in questa fiaba, e nella fiaba in generale, c’è tutto. Ci siamo fidati e affidati alla fiaba.

di Francesco Brusa, Agnese Doria, Camilla Fava, Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti

a cura di Francesco Brusa, Camilla Fava




Fra gli schermi di una comunicazione (im)possibile

Sembra offrire risposte più che stimolare domande Lorella Zanardo, con il suo Schermi. Se li conosci non li eviti. Una conferenza-spettacolo che si inserisce in modo anomalo nella programmazione del festival, proprio per la sua matrice didattica che pare allontanarsi da qualsiasi interrogazione sulle forme della rappresentazione e sul ruolo dell’immaginazione.
Una proposta sui generis quindi per il contesto in cui si colloca, che non pretende probabilmente di essere valutata su un piano propriamente artistico, ma che offre interessanti spunti di riflessione sui linguaggi e sulle forme della comunicazione e dell’informazione tra adulto e adolescente. Dopo Il corpo delle donne, il documentario visto online da 15 milioni di persone e che ha portato la sua autrice nelle scuole di tutta Italia, questo nuovo lavoro porta invece la Zanardo nei teatri, sulla scena. La conferenza spettacolo parte proprio da lì, e del documentario ripropone frammenti e concetti. A essi aggiunge dati e video che spaziano dal cyberbullismo alle fake news, dalle pubblicità “buone” e “cattive” all’hatespeech, dagli stereotipi di genere al diritto di essere informati, dalla gestione dei dati personali che passano attraverso la rete a “termini e condizioni” nell’uso dei social network. Insomma, afferma Lorella Zanardo rivolgendosi ai ragazzi, ma allo stesso tempo a genitori e insegnanti, così come a cinque anni si impara a leggere e scrivere, ora è tempo di alfabetizzarsi ai media: sapere guardare immagini e schermi che ci circondano significa essere cittadini consapevoli. Sembra però dare un assaggio di troppi temi qui Zanardo, che ai pericoli della rete sovrappone la già indagata questione legata all’immagine femminile proposta dai manifesti pubblicitari o dalla televisione che ereditiamo dagli anni Novanta.
Nella sovrabbondanza di temi, la formula comunicativa “vincente” che viene qui sperimentata pare attingere a un linguaggio più televisivo che teatrale (basti pensare ai sottofondi sonori o alle ricostruzioni video) e tramite questo cercare l’empatia del pubblico.
Schermi sembra insomma usare strumenti opposti a quelli del teatro: non propone temi e criticità per astrazione ma li spiega fino all’eccesso, non lascia spazio ai ragazzi per trarre da soli le loro conclusioni ma afferma dati incontestabili. Voi potete cambiare il mondo, noi vi possiamo aiutare, dice. Ambisce a offrire, insomma, gli strumenti per una cittadinanza attiva prima ancora che di una consapevolezza critica che passi per il dubbio, la messa in discussione, la capacità di arrivare autonomamente a porsi delle domande. Una proposta importante per contenuti e mission, che si offre più come strumento didattico che come riflessione sulle forme del teatro: nel rapporto con i ragazzi, qual è la formula più efficace per mettersi in discussione e stimolare una consapevolezza critica?

Schermi

D’altronde, la parte di programmazione del festival dedicata agli adolescenti sembra mettere al centro proprio il rapporto con i ragazzi, nelle forme della comunicazione e nel tentativo di “rendere visibili” determinati temi. Così anche Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst con la brillante e caustica drammaturgia di Donatella Diamanti, che pur si presenta inequivocabilmente come spettacolo e il cui patto finzionale è dunque chiaro e fin da subito determinato, potrebbe in alcune su parti sollevare dubbi sulla natura del dispositivo teatrale propriamente inteso.
Il palco è un ring, rosa e morbido come una moquette ma pur sempre un campo di battaglia. È in questo spazio, aperto ma sottilmente angusto e dai tratti domestici, che viene ritratta una famiglia composta da madre (Letizia Pardi) padre (Francesco Franzosi) e figlia adolescente (Greta Cassanelli). Con pennellate acute a tratti graffianti, l’autrice fotografa con ironia adulti e millenials alle prese con l’adolescenza. Partendo da alcune suggestioni presenti nel libro di Paul Buhre, che a soli 16 anni ha scritto Noi (e voi), un testo che è una lettera ai genitori sull’adolescenza, si cerca di indagare nell’abisso di una persona adulta messa di fronte a qualcosa che non capisce, qualcosa che non riconosce, linguisticamente e cognitivamente. Frastornati, o meglio smarriti, gli adulti che prima capivano i figli, adesso sono messi a dura prova, vacillano e annaspano alla ricerca di punti di riferimento, persi tra manuali che possano aiutare la loro genitorialità messa in crisi e il dialogo con esperti di ogni sorta, senza che gli venga in mente di rivolgersi ai diretti interessati, i figli o gli amici dei figli. In questo caso corre in aiuto Agata, un’adolescente che sul modello di SOS Tata si reca in famiglia per osservare modalità, argomentazioni e reazioni dei due genitori, facendo subito affiorare criticità e etichettandoli biecamente (con la giustificazione che “fa parte del programma”) esattamente come gli adulti etichettano i giovani figli (sdraiati, svogliati, sempre con le cuffie nelle orecchie, capaci solo di dire “un attimo”). E tra spettri di una “medicalizzazione” che è lì come orizzonte possibile se non concreto, risate, cartelloni che definiscono i comportamenti e freeze, Agata racconta di una generazione che si confronta con adulti in perenne attesa dei figli (che escano dal bagno, che tornino a casa da scuola, che escano da musica…) e, come si sa, dall’attesa alla pretesa il passo è breve e allora gli assi del controllo e della conseguente delusione paiono l’unico orizzonte di dialogo (o non dialogo) possibile.  Nonostante la leggerezza e i sorrisi la domanda arriva puntuale e a fuoco: quali sono gli strumenti in mano agli adulti per incontrare questa alterità?
Lezioni di Famiglia di Donatella Diamanti fotografa bene una generazione, quella dei millennials, e i rapporti con i genitori stretti tra vulnerabilità e autorità, smarrimento e disperazione, il tutto condito e attanagliato nelle maglie dei gruppi WhatsApp parentali dai quali pare impossibile sottrarsi. L’intento è chiaro e viene portato al pubblico con leggerezza, ironia e freschezza, che non guastano soprattutto quando invece i toni per parlare di adolescenza sono spesso sensazionalistici, allarmisti ai confini con il morboso-scandalistico. Tuttavia lo spettacolo, eccetto qualche passo, rimane piuttosto bidimensionale, quasi appiattito su una visione a 32 pollici, movimentato “solo” dalla bravura degli attori (in particolare la madre, interpretata da Letizia Pardi, è credibile ed efficace senza scadere del macchiettistico). Manca quasi del tutto l’impianto della scena, il corpo e i movimenti degli attori, le atmosfere cangianti delle luci, ovvero quella capacità trasformativa che conduce lo spettatore in un altrove, capace di convocarlo al di fuori delle proprie aspettative, abitudini, schemi mentali. Qualcosa cioè che possa spostarci, disorientarci da noi stessi, in una parola che ci arricchisca, che ci possa porre domande fino a snervarci, un qualcosa cioè che renda l’esperienza del teatro unica e diversa da tutte le altre. Qualcosa che non avremmo potuto leggere così sul giornale, che non avremmo potuto vedere al cinema, che non avremmo potuto apprendere leggendo un libro.

Insomma, sia Schermi di Lorella Zanardo che Lezioni di famiglia di Start.tip e Catalyst sembrano rinchiudersi nelle strettoie di una comunicazione a senso unico, abdicando a utilizzare pienamente le potenzialità della scena in favore della volontà di far “passare un messaggio” o fotografare la criticità di dialogo intergenerazionale. Ma dove, esattamente, gli spettacoli avrebbero potuto spingersi, determinando caratteristiche di alterità rispetto all’esperienza quotidiana o rispetto ai format da fiction televisiva? Si ha come l’impressione di qualcosa che resta in ombra, che non viene affrontato del tutto. Ai “personaggi” – siano il padre e la madre di Lezioni di famiglia o la miriade di dati e problematiche sciorinata in Schermi –  manca un po’ di spessore chiaroscurale, ci vengono presentati in maniera in fin dei conti pacificata. Eppure, è evidente che fra i due genitori scorrano non-detti, incomprensioni, reciproche estraneità. Così come è evidente che social e televisione, con cui si veicolano spesso concetti violenti o sessisti, non siano dei mezzi neutri. Ci si aspetterebbe dunque che i discorsi si allarghino anche ai contorni e ai contesti delle “tematiche” da cui prendono abbrivio, che il palco diventi un luogo in cui articolare anche una riflessione politica sulla famiglia come istituzione o per mettere in crisi le stesse logiche della comunicazione e della pubblicità.
Vero, sembra compito forse troppo arduo e radicale da chiedere a delle proposte sceniche per l’infanzia. Ma dove portarlo avanti, se non a teatro? e con chi, se non con una comunità di spettatori attenti e di generazioni diverse?

Agnese Doria, Francesca Serrazanetti




L’eterno ritorno, o dell’anziano e del bambino

Un’urgenza emerge dalla programmazione della XXIX edizione di Segnali: raccontare quel rapporto tra infanzia e anzianità che, oggi, viene spesso negato nella separazione di soggetti diversi inseriti in contenitori sociali stagni, ordinati, non permeabili.
Certo è che i nonni rimangono un punto di riferimento all’interno della famiglia, ma di che famiglia si parla in una società iper-individualista, nonché resistente alle contaminazioni generazionali? Identificare un valore nell’infanzia è acquisizione recente, mentre l’anzianità continua a perdere importanza sociale, facendosi simbolo semplicistico di decadenza e improduttività. È qui che si sente necessario un nuovo modo di intendere e vivere il dialogo intergenerazionale ed è di questo dialogo che spettacoli diversi, sia per pubblico che per linguaggi, parlano. Dal musicale Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco passando per il muto Ticina mani di corteccia di Il teatro nel Baule per approdare a due dei tre Pollicino presentati al Festival, la proposta internazionale di Pulgarcito di Teatro Paraìso e Pollicino di Eco di Fondo, il rapporto tra bambini e anziani acquisisce nuova linfa e si fa spunto per riflessioni extra-teatrali.
Un uroboro, quell’eterno ritorno delle cose, quel ciclo senza inizio né fine, in cui nascita e morte coincidono. Un ciclo in cui un figlio può trasformarsi in genitore di suo padre, in cui c’è chi continua a crescere e chi, al contrario, continua a rimpicciolire. Fino alla definitiva scomparsa.
Anziani e bambini non hanno in comune né passato né futuro, la loro relazione vive immersa in un breve attimo presente, come quella tra l’ormai microscopico Pollicino di Eco di Fondo, suo figlio boscaiolo e il nipote che continuerà a disegnarlo per poter vivere avventure insieme, anche se in un altrove inconoscibile, seppur possibile da immaginare.
Quella necessità del bambino di giocare, di evadere, di conoscere i perché delle cose, la richiesta di storie e racconti da ripetere, con piccole variazioni, in continuo, il profondo bisogno di sentirsi protetti e al contempo di mantenere inalterata una routine, uniti a egocentrismo e richieste di indipendenza, si specchiano nell’anziano, in un tempo dilatato che concede maggiore concretezza ai legami affettivi e agli oggetti del passato e del presente, come si rende palese in Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione De Falco. Oggetti e persone che non hanno nulla a che fare con l’economia o con la produttività, ma che acquisiscono senso in quanto dilatazione della propria presenza e, per gli anziani, anche preparazione al distacco, all’assenza.
Un’assenza che non può però essere totale, come spiega il vecchissimo Pollicino, alias Andrea Pinna, di Eco di Fondo perché, anche se l’uno diventerà talmente grande da non poter essere visto dall’altro, sempre più piccolo, un luogo in cui incontrarsi sarà sempre lì, oltre il palco, basta inventarlo.
Quel luogo non è necessariamente oltre la vita, sembra suggerire Pollicino, può trovarsi nelle nostre città, può essere uno spazio concreto che, come scrive Vanna Iori in Pedagogia dell’invecchiamento e identità di genere [ETS, 2012], permetta di ripensare l’orientamento esistenziale di senso nel diventare anziani senza così perderne i vantaggi. È nel vivere esperienze comuni e continuative tra età, immaginari, idee, vissuti diversi che si concretizza la possibilità di uno scambio e di una crescita reali; come quella nonna e quel bambino in fuga che si adattano reciprocamente l’uno all’altra, imparando lui fin da piccolo ad accettare ciò che è diverso, e lei a non lasciarsi invecchiare, ma a continuare a scegliere.
La diversità acquisisce concretezza estetica oltreché anagrafica in Ticina mani di corteccia (Il teatro nel baule), simile a un muto re Mida che, anziché vedere ogni cosa toccata trasformarsi in oro, la vede sparire, distruggersi, appassire. Qui la vecchiaia si scorge in un personaggio solo, ai margini della società, abbandonato a causa delle sue stravaganze, non unicamente nell’aspetto. Anche qui sarà grazie a un essere opposto a lei, e quindi nell’incontro, seppur difficile, doloroso, terribile nel senso sublime del termine, che Ticina troverà nuove energie per il suo viaggio. Un viaggio complesso, contraddittorio che, se si ha il coraggio di cambiare punto di vista, permetterà di scorgere l’amore nel continuo flusso della vita.
La relazione tra chi sta entrando nella vita e chi sta per abbandonarla è visibilmente asimmetrica, ma, al contempo, rende possibile scorgere, attraverso l’apprendimento reciproco, come per Ticina, Pollicino o quella nonna e quel bambino, la necessità di relazione, condivisione e confronto di ogni essere umano, mai sufficiente a se stesso, nonostante la nostra società cerchi di negarlo. Questa relazione sbilanciata si può così fare strumento per recuperare quel vincolo reciproco tra uomini che interrompe il “progetto immunitario” della modernità e dell’individualismo, seguendo Elena Pulcini e il suo L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale [Bollati Boringhieri, 2001]. Quell’urgenza sentita da molti artisti, registi e compagnie prende così la forma di una necessità: darsi il tempo di riscoprire nella vecchiaia, così come nella prima età, la capacità di vedere la profondità delle cose senza dare peso alla superficie, uno sguardo essenziale, capace di unire esistenze tanto diverse perché nella vita tutto è in movimento e non smette mai di scorrere.

Ticina mani di corteccia

E chissà che tali urgenze e necessità non acquisiscano poi una declinazione propriamente sensoriale, un ribaltamento di sguardo che non sia tanto mutare prospettive e punti di vista, quanto cercare di sfuggire alla visione stessa.  Gli attori di Oggi. Fuga a quattro mani per nonna e bambino della Compagnia Arione de Falco sono completamente soli sul palco. Nessuna scenografia, se non la luce che comunque permane fissa praticamente per tutta la durata dello spettacolo. Nessun oggetto di scena, se non gli indumenti che caratterizzano con semplicità i protagonisti. La loro è una recitazione che si avvicina molto alla pantomima, quasi alla gestualità del vaudeville: il bambino finge spesso di suonare un pianoforte di cui sentiamo solo il suono, la “nonna” mette in moto e guida un’automobile invisibile, ci viene chiesto di immaginare in continuazione oggetti, incontri, situazioni… Un viaggio sghembo e stralunato, idealmente “notturno”, dentro a una città “x” che sembra assumere i tratti di una metropoli primo-novecentesca, poiché contiene già in sé (o meglio, “arriva a contenerla” attraverso l’innocenza dei due protagonisti) una precipua dimensione di sorpresa e spaesamento.  Una dimensione per cui il rombo dei motori diventa una promessa di velocità e progresso, per cui semafori e fili del telegrafo non sono semplice “arredamento urbano” ma si fanno simbolo anche di civilizzazione. E, in maniera in fondo analoga ai flaneur di quell’epoca, ad avvincerci nella “a-topia scenica” creata dalla Compagnia Arione non sono dunque immagini o visioni, bensì i suoni e i rumori perturbanti della città, a volte anche gli odori e i gusti (in un momento dello spettacolo i due discutono proprio di ciò che stanno mangiando assieme…).
Ecco allora come l’alleanza fra prima e terza età derivi innanzitutto da una sorta di “complicità sensoriale”. La ribellione, anzi forse una vera e propria guerra (come evocato in un’altra proposta del festival, La guerra dei bottoni di Tib Teatro) contro gli adulti è una guerra contro la dittatura della vista. Non è infatti  l’età adulta proprio quel periodo della vita in cui la visione, intesa come razionalità e distanza, assume una posizione prevalente rispetto agli altri sensi? E, un poco più a fondo, non è quell’età della vita in cui in primo luogo si fa marcata una rigida distinzione fra i sensi, da cui poi il primato della vista deriva? Nell’infanzia e nella vecchiaia, per motivi diversi, vige invece un regime di maggiore “confusione”, di scivolamento da un piano all’altro, in una condizione di indeterminatezza nell’interpretare gli stimoli che rende più facile poter traslare le esperienze, che crea una realtà maggiormente allusiva e associativa, più vicina al sogno se vogliamo.
È dunque inevitabile che il teatro-ragazzi, un teatro che prova a tradurre la “infantilità” in una poetica, faccia propri tali principi di decostruzione dello sguardo. Sciogliendo molto spesso la visione in ascolto, trasformando il palco in un parco (giochi), che richiama e attira soprattutto il tatto. Un processo che, se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe avere implicazioni profonde. In un’intervista su Doppiozero il direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe Peter Weibel fa notare come morale e regole di convivenza che ciascuna società prova a darsi siano inestricabilmente legate alla sensorialità. I dieci comandamenti sono dei precetti adatti a un mondo in cui il nostro prossimo lo è anzitutto in senso spaziale, è vicino. Al contrario, oggi, quel “progetto immunitario” cui accennavamo in precedenza ci spinge verso una “società della lontananza” in cui il vincolo morale si esercita spesso fra persone e corpi magari distanti migliaia di chilometri, dove le conseguenze di certi comportamenti non hanno più un’evidenza fisica, immediatamente percepibile. È chiaro che la vista, in particolar modo se mediata, telecomunicativa o spettatoriale, gioca un ruolo fondamentale in tutto questo.
Il teatro-ragazzi potrebbe essere allora un modo per mettere in discussione  tale lontananza, per ricondurre al centro del nostro agire quei sensi che appaiono disattivati dalla società odierna. La scena per l’infanzia come luogo per ripensare, attraverso l’alleanza di figure che sembrano agli antipodi (il bambino e l’anziano), una nuova “etica della prossimità”, che, anzi, potrebbe quasi essere un’efficace definizione del teatro stesso.

Oggi

Eppure, l’alleanza fra infanzia e vecchiaia è un’alleanza poetica e intrisa di dolcezza, ma comunque ambigua e non priva di chiaroscuri. Pulgarcito, della compagnia spagnola Teatro Paraìso, ricompone i pezzi della catena generazionale e, senza rinunciare alla tenera dimensione di sogno ed evasione propria delle fiabe, ci mette di fronte anche a un crudo senso della responsabilità. In fondo, la felicità di relazione fra bambini e nonni, la leggerezza di cui si compone il loro rapporto, accade perché viene in una certa misura sospeso il “dovere della responsabilità”. Ma cosa succede quando i figli sono costretti a diventare “genitori dei propri genitori”?
Tomas Fdez e Ramon Monje sono figlio (ormai adulto) e padre (ormai anziano). Sulla scena, vediamo il primo intento a preparare le valigie per il secondo, che scopriamo dover essere accompagnato alla casa di riposo il giorno seguente. Affetto da demenza senile, recalcitrante, il padre fa i “capricci” per non farsi mettere il pigiama proprio come un bambino, si nasconde del cibo nelle tasche e non ne vuole sapere di andare a letto. Dopo essersi arrabbiato, il figlio prova allora la tattica della dolcezza: «Papà, ti ricordi quando mi raccontavi della fiaba di Pollicino?» Da qui inizia un’ingegnosa e incalzante sovrapposizione fra realtà e surrealtà, fra verità e sogno, in cui i due protagonisti si fanno prendere dalla narrazione e diventano in tutto e per tutto i personaggi di Pollicino, utilizzando l’armadio come luogo per nascondersi, prendendo i calzini per orchette, perdendosi e rincorrendosi nei pochi metri quadri della stanza. Un’evasione e un invasamento che però paiono non influire sulle decisioni concrete: al termine di questa fuga dalla realtà, vediamo il figlio riuscire finalmente a mettere a letto il padre, che sembra comunque destinato ad andare in casa di riposo (nonostante il figlio gli lasci tenere in tasca un tozzo di pane, a suggerire una certa apertura). Ma quello che si è guadagnato è la consapevolezza dell’abbandono, la sensazione di una riappacificazione generazionale pur nell’amarezza delle contingenze.
È sorprendente come la rappresentazione di una disfunzione intellettiva, quella dell’anziano padre, diventi il gancio drammaturgico per aumentare e magnificare il personaggio. Ramon Monje impersona una figura dall’abilità motoria ridotta, dalle capacità mentali offuscate, eppure – attraverso l’immersione nell’infra-realismo della fiaba – passa ad essere un vecchio, un bambino, il padre che fu, Pollicino e l’Orco senza soluzione di continuità e senza dover mutare minimamente tono recitativo. Diventa, in tutto e per tutto, un Super-personaggio. Forse, proprio qui si trova la chiave per immaginare un dialogo intergenerazionale che non neghi il conflitto e l’estraneità, né debba sospendere la responsabilità per postulare un incontro. Pulgarcito del Teatro Paraìso ci suggerisce non tanto dei modi per comprendere chi è distante da noi anagraficamente, ma ci spinge a introiettare quelle dimensioni infantili o senili che le diverse età esprimono, senza dovere per questo cambiare la propria “metrica esistenziale”.
Ci chiama ad essere, sugli spalti o anche fuori dai teatri, indefessi e infaticabili Super-spettatori!

Francesco Brusa, Camilla Fava