Di cosa parliamo, quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi? Un convegno al Festival Segnali di Milano

In occasione del festival Segnali organizzato dal centro di produzione teatrale Elsinor e Teatro del Buratto (Milano, dal 2 al 4 marzo), Planetarium prosegue la serie di incontri/dibattiti attorno al teatro che dialoga con le giovani generazioni già inaugurata a Castelfiorentino, con una discussione prevista per il 2 maggio dalle 17 alle 18.45.

Di cosa parliamo quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi?
Incontro su critica e scena/platea delle nuove generazioni. In collaborazione con Festival Segnali e Maggio all’Infanzia.

Presso Teatro Bruno Munari, h 17.00

Nel marzo 2017 ci fu la prima tappa del percorso-progetto Planetarium creatosi grazie alla collaborazione fra i festival e una rete di operatori attivi nella pratica della critica teatrale quali Altre Velocità, Stratagemmi, Tamburo di Kattrin e Teatro e Critica. Il tema di questa collaborazione è l’ampliamento e la qualificazione, oltre al ruolo che storicamente svolge Eolo, dell’osservatorio di analisi critica e di restituzione dell’area creativa e culturale che in Italia si occupa prioritariamente della scena per le Nuove Generazioni.
Assieme al Festival Segnali intendiamo replicare e qualificare l’esperienza attivata nella passata stagione e, oltre al lavoro di cronaca e dibattito che il festival offre, dare spazio al confronto su questi temi.

Partecipano:  Giuditta Mingucci (Elsinor Centro di Produzione, Festival Segnali), Renata Coluccini (Teatro del Buratto, Festival Segnali), Francesco Brusa, Agnese Doria e Rodolfo Sacchettini (Altre Velocità), Maddalena Giovannelli e Francesca Serrazanetti (Stratagemmi – Prospettive Teatrali).
Ospiti invitati: Paolo Mottana* (Filosofia dell’educazione all’Università di Milano Bicocca), Claudio Bernardi** (Storia del teatro e antropologia del teatro all’Università Cattolica), Diletta Colombo*** (Libraia, fondatrice dello Spazio b**k) e Ilaria Rodella**** (educatrice, fondatrice di Ludosofici)


Il documento che segue contiene alcune domande e spunti in vista della giornata di incontro.

Porsi delle domande rispetto al cosiddetto “teatro-ragazzi” significa chiedersi innanzitutto chi sono i referenti di questo peculiare approccio scenico, di quale sguardo e immaginario li riteniamo portatori. Durante lo scorso anno, Altre Velocità assieme alle redazione di Teatro e Critica, Il Tamburo di Kattrin e Stratagemmi – Prospettive Teatrali ha dato vita al progetto “Planetarium”, un osservatorio critico sul teatro e le nuove generazioni. Siamo stati ospiti ai festival di Teatro fra le generazioni (Castelfiorentino), Segnali (Milano) e Maggio all’infanzia (Bari), incrociando anche la programmazione di SEGNI New Generations Festival (Mantova) con una specifica progettualità.
Abbiamo dunque articolato un percorso di scrittura e osservazione che ha provato a rimettere al centro dell’indagine critica il fenomeno del “teatro-ragazzi”, sia nelle sue espressioni concrete di compagnie, festival e rassegne che sentono di appartenere a una tale “etichetta” sia in quanto domanda di senso relativa allo statuto di quell’etichetta. Di cosa parliamo quando parliamo di teatro-ragazzi (o teatro intergenerazionale, tout public)? Riprendendo una domanda già formulata dal Giallo Mare Minimal Teatro in una precedente edizione del festival, ci chiediamo: Il teatro-ragazzi, oggi in Italia, esiste? Vale a dire, ha senso parlarne come un settore distinto dagli altri per la messa in campo di specificità estetiche e, non da ultimo, produttive?

Vorremo provare a dare delle risposte che siano il più possibile collettive e aperte, invitando operatori e artisti ad alcuni momenti di confronto che saranno poi trascritti e resi pubblici. Negli ultimi anni sembrerebbe che il tema sia stato un po’ accantonato dalla critica e dalla produzione saggistica. Ma – ci rendiamo conto – è forse tutta una serie di nodi più generali a essere uscita dal dibattito pubblico, a segnare un’empasse del discorso sulle arti e l’infanzia. Come si è evoluto il “patto” fra le generazioni? Dove e in cosa rinveniamo ancora istanze pedagogiche-educative che si prefiggano uno sviluppo dei giovani e dei giovanissimi, rispettandone l’autonomia di pensiero e creatività? Qual è – dopo un lungo periodo di continue riforme e aggiustamenti, nel tacito assenso generale se non per l’accensione saltuaria di polemiche di breve gittata – l’idea che abbiamo di scuola e di trasmissione di saperi?

Tali istanze sono state e continuano evidentemente a essere portate avanti da numerose realtà sul territorio, che le declinano nei loro campi di attività e afferenza più contigui (teatro, scuola, educazioni, sociale, impresa culturale, etc.). Ma forse mancano momenti di condivisione e riflessione collettivi, in cui provare a trarre dall’eterogeneità delle pratiche e degli sguardi alcuni principi e stimoli di rilancio comuni.
Anche per questo, nella stagione di festival che è alle porte, abbiamo immaginato alcuni incontri a metà fra il pubblico e il seminariale che coinvolgano artisti, operatori, educatori, critici e studiosi. Il primo di questi è da poco tenuto all’interno del festival Teatro fra le generazioni di Castelfiorentino. Proseguiamo un tale percorso al Festival Segnali di Milano: durante la prima giornata della rassegna si terrà infatti un convegno curato insieme alla direzione del festival, il prossimo 2 maggio dalle 17.00 alle 18.45.
Queste righe sono dunque da considerarsi come invito aperto a chi vorrà partecipare mettendo sul tavolo dubbi, riflessioni e questioni a partire dalle pratiche sostenute quotidianamente.

Ci piacerebbe mantenere la discussione molto ampia e inclusiva. Nel corso dell’anno appena passato, abbiamo individuato alcuni nodi di domande che ci sembrano particolarmente urgenti, nel tentativo soprattutto di provare a capire come si pone (o dovrebbe porre) il teatro ragazzi rispetto alle più recenti evoluzioni della narrazione e dell’intrattenimento nonché rispetto alla complessità crescente e che tutti accomuna nel ricevere e interpretare informazioni. Tali domande possono essere usate come traccia per portare un breve intervento o per inviarci un intervento scritto.

  • Esistono temi “difficili” se pensiamo ai giovani e ai giovanissimi?
  • Come andrebbero affrontati a teatro, ma più in generale a livello educativo?
  • Come si dovrebbero comportare il teatro e le arti di fronte alla serialità, a una comunicazione artistica che sembra fare della velocità e dell’intrattenimento “immersivo” le proprie caratteristiche?
  • Esiste un’istanza pedagogica nel teatro ragazzi, è qualcosa che si oppone al didattismo?
  • Più in generale, vorremmo anche provare a capire che cosa qualifica oggi l’immaginario infantile e per l’infanzia, qual è in fin dei conti la nostra idea attuale di infanzia.
  • Che differenza c’è fra l’immaginazione dei bambini e un’immaginazione “adulta”? Che ruolo svolge l’immaginazione (e la fruizione artistica di quest’ultima) nella crescita? L’immaginazione ha, infine, un ruolo educativo?
  • È vero che in qualche misura si è interrotta la trasmissione di saperi fra le generazioni? Se i giovani non “chiedono” più agli adulti il come si fa, come è possibile re-immaginare un rapporto anche conflittuale? Che responsabilità ha il sistema-scuola in tutto questo?
  • Quali relazioni tra teatro-ragazzi e sociale? Quale comunità? Quali modelli estetico, pedagogici ma anche organizzati e di relazione col territorio?
  • Dunque, tornando alla domanda iniziale, il teatro-ragazzi esiste, o meglio, può esistere? Di cosa parliamo quando parliamo di Teatro Ragazzi oggi?

*Paolo Mottana è professore ordinario di filosofia dell’educazione all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha insegnato Filosofia immaginale e didattica artistica all’Accademia di Brera e da anni si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia ed educazione. Ha fondato il Gruppo di ricerca immaginale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Milano Bicocca e presiede l’Associazione Istituto di Ricerche Immaginali e Simboliche (IRIS).

**Claudio Bernardi è professore ordinario di Storia del teatro e Antropologia del teatro presso l’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano; ricercatore in Discipline del teatro e dello spettacolo; è coordinatore della sezione teatro del corso di laurea STARS – Scienze e tecnologie delle arti e dello spettacolo. Attualmente all’interno di suddetto corso di laurea insegna Drammaturgia; mentre nella sede di Milano è docente di Drammaturgie performative all’interno del corso di laurea LIMED.

*** Diletta Colombo ha aperto a Milano lo spazio b**k, diventato presto un punto di riferimento per la grande e ottima selezione di albi illustrati e libri legati alle arti, alla cultura visiva e all’artigianato,  E’ esperta di libri per ragazzi e illustrazione https://www.spaziobk.com 

**** Ilaria Rodella ha fondato Ludosofici, una realtà con cui progetta eventi e percorsi didattici utilizzando gli strumenti che ci provengono dal mondo della filosofia e della didattica dell’arte; ha gestito per anni la libreria Corraini121 a Milano https://www.ludosofici.com




Intervista a Letizia Quintavalla

Pubblichiamo la prima di una serie di interviste ad alcuni tra gli artisti più significativi che hanno attraversato la storia del teatro ragazzi. Le conversazioni si riferiscono all’anno 2014 e sono tratte dal materiale di tesi di laurea in Storia del Nuovo Teatro Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi di Nella Califano. Si tratta di un progetto di interviste che, indagando le diverse poetiche degli artisti coinvolti, intende approfondire alcuni temi ricorrenti nel teatro ragazzi come le modalità di narrazione e messinscena della fiaba, il coinvolgimento dello spettatore e il concetto di tout public.

Partiamo con Letizia Quintavalla, dagli anni Settanta regista e drammaturga per il teatro ragazzi e una delle storiche fondatrici del Teatro delle Briciole di Parma. Nell’intervista che riportiamo di seguito un focus su uno dei suoi spettacoli più affascinanti, Con la bambola in tasca, su testo di Bruno Stori, un classico del teatro ragazzi nel quale un bambino scelto tra il pubblico diventa personaggio principale della storia.

[Intervista realizzata a Parma il 24 febbraio 2014]

Quando ha inizio la sua esperienza con il teatro ragazzi e quali sono le motivazioni che hanno indirizzato la sua ricerca teatrale verso il mondo dell’infanzia?

Mi sono laureata nel ’76 in Storia e Filosofia a Bologna, ma avevo avuto delle esperienze abbastanza forti con i bambini in situazioni al limite, in particolare grazie ad un pedagogista, Andrea Canevaro, che proponeva agli studenti di lavorare direttamente a contatto con i bambini. Accettare una proposta del genere penso dipendesse anche dal periodo storico: si faceva strada l’idea di ristrutturare la cultura e la scuola, che è l’origine di ogni rivoluzione vera; credo, quindi, di essere approdata al mondo dell’infanzia anche per una motivazione politica. Le prime esperienze che io e Maurizio Bercini ci trovammo a fare insieme erano i doposcuola alternativi, vicino Parma, dove si lavorava con i bambini al pomeriggio, in via del tutto gratuita, e quindi si veniva in contatto con insegnanti che volevano lavorare in modo collettivo, a favore di una pedagogia non del riempimento, ma dell’insegnare imparando rispetto al bambino. Cominciava a farsi strada l’idea di un bambino competente ed erano gli stessi anni dell’animazione teatrale che, sebbene stigmatizzata dal teatro ragazzi, era caratterizzata da un grande afflato sia politico che umano nel suo approccio ad una rivoluzione culturale. Credo che alla base della mia formazione ci siano questi due tipi di esperienze, quella locale, molto diretta, e quella politica e culturale.
Finita l’università, io e Maurizio Bercini decidemmo di andare a conoscere un grande burattinaio di cui avevamo sentito parlare, Otello Sarzi, con l’intenzione di portarci i bambini. È stato un incontro determinante e un anno dopo, siamo andati a lavorare con lui. Faceva un teatro molto “anarchico”, diceva di si a tutti, non ha mai mandato via nessuno ed è stato per noi un incontro teatrale molto artigianale da certi punti di vista e molto umano da altri. Sarzi lavorava con i burattini sia a livello tradizionale che sperimentale, e una parte del suo lavoro era dedicata proprio ai bambini. I laboratori erano improntati per lo più sulla costruzione, quindi c’era un approccio manuale e anche questo si rifaceva ad una passione che avevo fin da piccola, che probabilmente veniva dall’osservazione: mio padre, infatti, era scultore e pittore, affrescava le chiese. Credo che il mondo dell’infanzia abbia dentro molta arte, quindi restare legata a quel mondo significava per me vivere la vita in modo molto artistico.
Finita l’avventura con Otello Sarzi, che si interruppe per via di alcune sue personali vicende familiari, noi giovani ci staccammo, insieme ad alcuni della cooperativa, dal Teatro del Setaccio e fondammo la Cooperativa Teatro delle Briciole, mantenendo l’idea del collettivo, di un senso di uguaglianza e volevamo dedicarci completamente al teatro per ragazzi.
Il primo spettacolo è stato Il piccolo principe (1976-77), che aveva come dominante il rapporto con l’infanzia e soprattutto la relazione adulto-bambino (un tema che ritorna nel 1994 in Con la bambola in tasca). Il primo spettacolo per un gruppo è fondante rispetto alla strada che si decide di intraprendere e non a caso era uno spettacolo misto di burattini e attori, che non avremmo potuto far da soli come gruppo, per cui ci siamo appoggiati ad un regista esterno, Gigi Dall’Aglio, del collettivo Teatro Due di Parma, che ha portato un grande contributo grazie alla sua idea di voler valorizzare ciascuno a seconda delle proprie capacità. Avevamo anche un drammaturgo che, insieme al regista, si occupava degli spettacoli nei primi tre anni, poi abbiamo iniziato ad acquisire capacità registiche e drammaturgiche che ci hanno permesso di andare avanti autonomamente, ma questi contributi hanno impostato e dato molta sicurezza al gruppo, lo hanno fondato, fortificato, e hanno aiutato ognuno di noi ad ascoltare e quindi sviluppare le proprie capacità. Questa è stata una grande scuola. Da lì i primi spettacoli sono stati tutti dedicati al teatro ragazzi, avevamo uno degli organizzatori più esperti del teatro per ragazzi, Gabriele Ferraboschi, che era stato anche l’organizzatore della compagnia precedente di Sarzi. Io piano piano ho smesso di recitare, a questa decisione ha contribuito anche la nascita di mio figlio. Ho fatto l’attrice ancora per qualche anno, poi ho sentito che la cosa che mi interessava di più era la regia e la drammaturgia: osservare per poi ricollegare le parti, è una cosa che so fare e che mi piace fare.

Lei dice che il suo teatro rifugge da intenti didascalici ed educativi, al limite si pone degli obiettivi “didattici”. Mi può spiegare cosa intende e come si concretizza?

La didascalia è da bandire in ogni arte, ci può essere un teatro didascalico alla maniera brechtiana, che ti aiuta a migliorare il mondo, ma questo non è particolarmente evidente nei miei spettacoli, posso inserirlo piuttosto nella mia metodologia di lavoro. Il teatro non deve suggerirti ciò che devi o non devi fare, ma è importante che lasci intuire allo spettatore cosa vuol prendere per se stesso da una storia, di cosa ha bisogno lui. Preferisco drammaturgie conseguenti e logiche ma non essere troppo esplicita, meglio lasciare degli spazi, dei vuoti che vanno colmati da chi guarda, che prenderà ciò che della storia gli interessa maggiormente. Non importa se un bambino non la capisce tutta; non mi pongo come obiettivo che i bambini capiscano tutto, ma che sentano tutto. Il mio compito è quello di rendere la storia più organica possibile tenendo conto dell’età del pubblico a cui è dedicata, dello spazio, del contenuto, evitando accuratamente di non rifugiarsi nell’esperimento artistico. Non riesco a prescindere dal pubblico che ho davanti: è giusto per me fare cose “difficili”, cioè che prevedano il superamento del limite, ma devono essere temi che interessano sia me che il pubblico, per questo bisogna fare delle scelte in relazione all’età degli spettatori.
Per me l’unica pedagogia possibile è quella che lascia al bambino (ma anche ad un adulto…) lo spazio della sperimentazione autonoma: l’adulto, o chi conduce un lavoro, dovrebbe intervenire pochissimo, ma piuttosto creare delle situazioni e fornire degli strumenti a chi sta scoprendo il mondo e scoprendo se stesso nel mondo. Per questo le attrici di Con la bambola in tasca hanno come indicazione registica di non intervenite mai se è evidente che i bambini possono arrivare da soli alla soluzione.

Che rapporto ha il suo teatro con la fiaba? Cosa significa costruire la regia e la drammaturgia di una fiaba a teatro? E che importanza riveste il teatro di fiaba per i giovani spettatori?

Il Piccolo Principe e Michelina la strega e Il Mago di Oz si rifacevano alla fiaba popolare, ma quando con Nemo, Il topo e suo figlio, e Con la bambola in tasca, oltre alla fiaba si comincia a tenere conto della morfologia della fiaba. Ci siamo posti delle domande: di cosa ha bisogno una fiaba? Di quali archetipi? Quali sono le funzioni importanti che si ripetono in una fiaba? L’esigenza principale è quella di conoscere la fiaba e i suoi elementi essenziali, che si possono ritrovare anche in un mito, in un romanzo o in altre strutture narrative. Per esempio Il topo e suo figlio non è una fiaba classica ma ne contiene tutti gli elementi, tutto il carisma. La fiaba rientrava perfettamente nella nostra ricerca sia sulla relazione che sull’estetica-etica del Micro-Macro. Negli anni settanta era un po’ di tendenza destrutturare i finali positivi delle favole, il finale cosiddetto “aperto”: si sperimentava in questo senso, ma a noi non piaceva, le fiabe dovevano finire come dovevano finire.
Nemo, per esempio, è la storia di un bambino che non riesce a dormire e fa incubi ogni notte e ogni notte vive un’avventura. È stato il nostro primo spettacolo e conteneva vari elementi fiabeschi come l’idea della notte, del sonno, il rapporto con la madre e con i mostri, c’era l’aiutante magico e tutte le varie prove da superare.
In genere le fiabe sono assolutamente illogiche: per esempio perché il lupo non mangia subito, al primo incontro nel bosco, Cappuccetto Rosso? La struttura della fiaba non da neppure il tempo di farti questa domanda, perché è troppo interessante la sua natura sintetica e il suo essere quasi un precipitato chimico di tante complessità. Inoltre la fiaba nasce da una relazione, c’è qualcuno che racconta e qualcuno che ascolta. Il racconto risale alla notte dei tempi, quando davanti ad un fuoco si raccontava della caccia, vera o finta che fosse, ma che l’ascoltatore poteva vedere attraverso le parole del narratore. Alla base c’è quindi la relazione. Un bravo narratore deve sapere a chi sta raccontando la sua favola: è un bambino di tre anni? O di otto? O di dodici? Di cinquanta? Di ottanta? Non stiamo parlando di quel lato bambino inteso come l’”eterno fanciullo”, ma del lato profondo dell’ascolto, che è intuitivo, è quello che gli orientali chiamano “mente profonda”: non si sente col cervello, ma con un’altra parte, che è sempre un’intelligenza, ma un’intelligenza profonda, quindi non ci si perde in una logica stringente, che non è interessante in quel momento. Nella fiaba invece c’è una relazione e il vero polo attivo è chi ascolta. Sembra che a condurre sia solo il narratore perché conosce la storia, e quindi la gestisce come vuole, ma in realtà chi racconta è solo il sacerdote officiante. Senza Comunità, invece, la storia non avrebbe senso. La vitalità del teatro è data dal fatto che c’è qualcuno che ascolta. Il teatro per esistere ha bisogno del pubblico. L’incontro con la fiaba – come con ogni altra forma narrativa – avviene se in essa è contenuto un tema di cui sento la necessità di dover parlare, quindi a volte prima ho scelto il tema e poi in un secondo momento cerco un testo che contenga questo tema. Nel caso di Con la bambola in tasca, per esempio, ho trovato nella fiaba di Vassilissa tutte le cose di cui volevo parlare. Le favole sono tali quando contengono un’iniziazione e Con la bambola in tasca più che uno spettacolo, è un rito di iniziazione per il pubblico, per la bambina e l’attrice.

Come è nata l’idea dello spettacolo Con la bambola in tasca? E in particolare come è nata la scelta di coinvolgere nello spettacolo una bambina attribuendole così una vera e propria funzione drammaturgica?

Nasce per caso. Ero a Bologna, guardavo dei libri su una bancarella e cominciai a sfogliare Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès. Il primo capitolo che lessi fu proprio quello sulla fiaba di Vassilissa . Ho trovato lì i temi di cui volevo parlare, e in particolare il rapporto con l’intuito. Rispetto alla drammaturgia e alla regia, invece, è stata importante la suggestione di uno spettacolo che qualche anno prima avevo visto ad un festival, un Piccolo Principe messo in scena da un artista belga. C’era un momento dello spettacolo in cui l’attore chiamava un bambino del pubblico sulla scena perché interpretasse il piccolo principe. Era fatto molto bene, anche se rientrava in una dinamica tipica del circo, del teatro popolare, secondo il quale si coinvolge qualcuno dal pubblico per attirare l’attenzione degli spettatori, che vengono presi in contropiede da una forza emotiva inattesa, come se, percependosi in quanto corpo unico, vedessero staccarsi un pezzo di sé e andare sulla scena. L’attore non teneva il bambino in scena per molto tempo, e ciò che mi aveva colpito di più era la sua capacità di non farlo sentire a disagio. Quando, qualche anno dopo, mi sono chiesta come e a chi far interpretare il personaggio della bambina Vassilissa in Con la bambola in tasca, la risposta è arrivata immediatamente: una bambina del pubblico! Questo espediente ha innescato un lavoro immane di cui non avevamo pratica se non nelle animazioni teatrali o nei lunghi laboratori tenuti presso il Teatro delle Briciole. Era necessario fare molte prove in cui lavorare continuamente con l’attrice e delle bambine. È stato necessario pensare ad una struttura drammaturgica che potesse contemplare la presenza costante di una bambina in scena, ma che permettesse anche alla bambina di decidere liberamente, in ogni momento dello spettacolo, di uscire di scena e ritornare tra il pubblico, tra la sua tribù. Bisognava sperimentare tutte le variabili possibili affinché non si sentisse mai a disagio. Abbiamo sempre preferito che fossero più bambine a darsi il cambio, a partecipare a una sorta di la staffetta nel portare a termine l’impresa di vassilissa ; infatti quando una bambina decide di uscire dal cerchio rosso, dalla storia, dalla scena, viene invitata un’altra bambina al suo posto e così si evita anche che ci sia un’ unica protagonista, ma si possa vedere una vassilissa collettiva. Speriamo sempre che non resti fino alla fine una sola bambina, ma che lo spettacolo diventi piuttosto l’ occasione per un’iniziazione di gruppo: come se la tribù-pubblico mandasse un suo rappresentante a staffetta, in modo che la conquista del fuoco finale sia veramente diluita in più persone, in più protagoniste. E’ bene che nello spettacolo ci sia almeno un cambio di bambina, cosicché non ci sia il pericolo di sentirsi…reginetta della storia.

In che modo viene scelta la protagonista fra il pubblico?

In realtà ci siamo resi conto che è la bambina che sceglie. L’attrice guarda negli occhi le spettatrici e, quando vede una bambina con sguardo disponibile, le mette il fazzoletto rosso in testa, simbolo di vassilissa. Prima dello spettacolo si chiede alle insegnanti se ci sono bambine tra il pubblico con gravi handicap di cui l’attrice potrebbe non accorgersi, in modo da evitare un coinvolgimento che potrebbe creare disagio, ma una volta è accaduto che l’attrice scegliesse proprio una bambina, che le era stato raccomandato dall’insegnante di non chiamare in scena perché da poco arrivata da terra di conflitto ed era ancora scossa dalla esperienza della guerra. Ma era stata proprio quella bambina a manifestare con il suo sguardo e i suoi modi la curiosità e il bisogno di partecipare al gioco teatrale. La bambina restò fino alla fine dello spettacolo conquistò il fuoco e ritornò tra il pubblico più forte.

Mi può parlare della costruzione dello spazio e della scenografia, e della conseguente relazione che si viene a creare con gli spettatori?

La scenografia è caratterizzata da tre elementi: un tappeto rosso di forma circolare, al cui interno si concentra molta energia. Una sedia bassa bianca, la sedia della Cantadora. Un fondalino bianco con dipinto sopra un fuoco rosso.
Abbiamo capito che il fuoco nella drammaturgia era fondamentale, perché è il motore che spinge la bambina a svolgere tutti i compiti–prova per ottenerlo, la conquista del fuoco è il pretesto per crescere, quindi era necessario che fosse presente.
La scelta dello spazio nasce dal concetto di micro-macro, del piccolo e del grande, che si può tradurre anche nella relazione adulto – bambino.
Questo concetto si può coniugare in tante forme, anche come individuo e collettivo, come singolo attore e gruppo di spettatori. Da qui la prossemica che caratterizza questo lavoro: il rapporto con il pubblico determina lo spazio adeguato.
Con un pubblico di bambini di tre, quattro, cinque anni so che se mi allontano da loro otto o dieci metri mi percepiscono a fatica o comunque diversamente se mi colloco a tre, quattro metri. Quando parliamo di spazio parliamo di prossemica, di distanze emotive e anche della distanza che permette di avere una visione complessiva. Tutto questo è uno studio che va sperimentato, non si può decidere a tavolino senza un riscontro pratico, anche per questo abbiamo fatto tante prove aperte con i bambini, proprio per capire questo tipo di relazione.
Quindi lo spazio è determinato anche dal tipo di pubblico e dal numero degli spettatori. Io ritengo che gli spettacoli per bambini della scuola dell’infanzia deve essere proposto tassativamente per un numero massimo di 90 bambini.
Nel caso specifico abbiamo utilizzato l’elemento delle circolarità (già presente in altri spettacoli) come elemento drammaturgico da una parte e dall’altra per la necessità di ottenere una percezione e un’attenzione molto concentrate e dense. Si voleva restringere la scena per creare più intimità.
Non ho mai fatto uno spettacolo per bambini delle scuole dell’infanzia ( tre – cinque anni) da palco cioè con i bambini seduti in platea, sento che è sbagliato rispetto alla relazione, è innaturale, non organico.


Le dimensioni degli oggetti utilizzati in scena non rispettano la regola della proporzione. Qual è la motivazione all’origine di questa scelta?

Alla base della scelta degli oggetti per la scena e delle azioni che da essi ne conseguono, c’è il grande binomio vero-finto.
Nello spettacolo ci sono due oggetti di grandi dimensioni usati dalla strega Baba Jaga, un mestolo e un coperchio che copre una pentola inesistente: si tratta di una proposta di allenamento ad un codice linguistico nel quale non si dice cosa sarà finto e cosa vero … si consegnano alla bambina-Vassilissa degli strumenti perché possa realizzare delle associazioni immaginifiche. Con il teatro si va in un altro mondo, non c’è una ricostruzione oggettiva della realtà, è un allenamento mentale molto più interessante, perché necessità dell’intuito.
Inoltre la Baba Jaga ha una casa molto piccola, ma le piace molto mangiare e dice che il fuoco serve per prima cosa a cucinare: la strega ti nutre senza darti a mangiare, mescola una zuppa che non c’è! E’ colei che da la spinta vera a far crescere.

L’ attrice ha un doppio ruolo, quello di narratrice e quello di interprete. Mi vuole parlare di come ha lavorato ai diversi livelli di scrittura drammaturgica? E come ha lavorato con le varie attrici?

Nello spettacolo Con la bambola in tasca l’attrice ha cinque ruoli, che sono le cinque funzioni del femminile: all’inizio è l’Attrice; poi, quando si siede sulla sedia, diventa Narratrice, la cantadora, quella che cura l’anima con le storie; nel momento in cui prende la bambina sulle ginocchia assume il ruolo di Madre che poi va via per ritornare vestita da Strega Baba Jaga, che non è più la mamma che accoglie, che aiuta, ma che mette davanti alla difficoltà e la fa superare. Infine diventa la Bambola che rappresenta l’intuito, che va alimentato, a cui va data fiducia, è la parte più intima di ogni persona, di ogni donna.
Queste cinque funzioni sono tutti dei personaggi, quindi hanno anche una definizione fisica, un movimento, una voce. La strega ha segni molto carichi per la postura e per la voce, per esempio l’attrice usa una noce dentro la guancia per alterare il viso e la voce, piccolo “inganno” che del resto viene svelato e dichiarato nei cambi della bambina e nel finale.
La Strega in questa fiaba ha una funzione precisa: quella di creare l’ostacolo affinché Vassilissa lo superi. La piccola Bambola di stoffa sta sempre nella tasca del grembiule di Vassilissa, ma durante le prove dei lavori le viene data la voce dall’attrice che si serve di un microfono e sta nascosta dentro la casetta da dove può vedere da un piccolo foro la bambina e i suoi movimenti. La voce e il testo (in parte improvvisato) della Bambola hanno un ritmo che si modifica per intonarsi a quello della bambina, ma deve essere sempre un ritmo teatrale.
La Narratrice è fondante, deve essere neutra, ma stando dalla parte di qualcuno, perché un narratore sta sempre dalla parte di qualcuno, anche se solo da quello della storia. L’Attrice è quella nel prologo dello spettacolo, pone domande filosofiche al pubblico perché ha fiducia nel fatto che i bambini possono fare cose difficili e fa capire loro che per entrare in questa storia bisogna fare cose difficili. C’è una sorta di dialogo “socratico” tra lei e i bambini: con le sue domande cerca di far emergere ciò che è presente in loro.
Prima di lavorare con le varie attrici di Con la bambola in tasca è stato necessario capire se erano predisposte a questo genere di relazione. Mi sembra abbastanza necessario aver frequentato bambini e, soprattutto, è necessario essere capaci di mettere il proprio ego a servizio di questo spettacolo, cioè da parte. È importante che sia un ego che osserva, accoglie, previene, offre possibilità, indirizza senza obbligare o forzare, in qualche caso anticipa.
La dimensione profonda su cui abbiamo lavorato con le attrici è stata quella dell’intuito. Dovevano capire a che punto fosse il loro intuito, sperimentando con esercizi rispetto allo spazio e alla relazione con l’altro. L’attrice deve tenere la bambina nella finzione, trattandola come se fosse un’altra attrice e facendole sentire il gioco di complicità tra di loro.
Il personaggio, però, è attraversamento ed è necessario che la bambina capisca che non bisogna crederci fino in fondo, infatti dietro l’attrice c’è sempre anche la Narratrice, la Mamma, la Bambola., la Strega Baba Jaga

In che modo viene coinvolta di volta in volta la bambina che entra in scena? Le vengono date istruzioni? In che modo?

La drammaturgia di questo spettacolo è pensata come un rito di iniziazione e tutti i momenti di cui si compone non sono in funzione della storia ma della relazione. L’attrice all’inizio quando deve offrire alle bambine del pubblico il fazzoletto simbolo di Vassilissa, guarda negli occhi le bambine e, al contrario di quanto si possa pensare, sono loro che, anche inconsciamente, decidono di farsi scegliere, perché hanno negli occhi la curiosità e il coraggio di provare ad entrare nel gioco teatrale. Questo spettacolo riveste per le bambine un momento fondamentale, che è quello dell’iniziazione e, in quanto tale, avviene pubblicamente, attraverso l’investitura per mezzo del fazzoletto e davanti alla tribù dei simili.
L’investitura avviene così: il fazzoletto rosso viene provato sulla testa delle bambine, finché non si trova quella giusta, cioè colei che accetta la Bambola che gli offre l’attrice, che contemporaneamente le offre anche la mano lasciando la scelta alla bambina di stringerla o meno, e quindi di seguirla o meno al centro del cerchio rosso della scena. Esiste una drammaturgia per ogni gesto, se infatti l’attrice toccasse e prendesse lei la mano della bambina, avrebbe deciso per lei.
Il momento successivo è quello in cui la bambina viene vestita con un grembiulino rosso e successivamente le viene chiesto di sedersi in braccio all’attrice. In generale le bambine si fidano, anche perché tutto è fatto con molta delicatezza.
Per esempio se la bambina è rivolta troppo verso il pubblico, cioè è troppo esposta allo sguardo l’attrice deve fare in modo che la bambina guardi lei, in questo modo l’attrice può guardare sia la bambina che il pubblico.
Quando l’attrice capisce, o, meglio dire, intuisce, che la bambina non vuole più continuare a stare in scena, anche se non lo vuol fare vedere, o sta per piangere, l’attrice la congederà con il rituale del cambio, cioè accompagna al posto con una formula rivolta pubblico: “Adesso questa Vassilissa è stanca, è stata molto coraggiosa e ora ritorna a casa”. Sta alla sensibilità dell’attrice sentire il momento giusto per fare il cambio: né troppo presto né troppo tardi, bisogna aspettare sì il limite, perché la paura bisogna provarla per superarla, ma non aspettare troppo…
Se la bambina decide di uscire dal gioco il tecnico da dietro il fondale si adegua al cambio anche lui facendo un morbido cambio luci e manda la musica che accompagnerà sempre ogni cambio, che è anche il tema dello spettacolo. Se il cambio avviene in una scena in cui c’è la Strega, allora l’attrice, a vista, lentamente, si abbassa il cappuccio del costume da strega dalla testa, sempre a vista si toglie la noce dalla bocca, toglie il fazzoletto rosso e il grembiule di Vassilissa alla bambina, le da un bacio, la riaccompagna al posto e poi cerca un’altra bambina tra il pubblico con le stesse modalità dell’inizio, la porta dentro al cerchio e di nuovo cambiano luci e musica e si ritorna al punto in cui la storia si era interrotta un poco prima, è ovvio che è molto importante l’intesa muta tra l’attrice e il tecnico. Il cambio è delicatissimo, bisogna uscire ed entrare piano, ed è un momento magico se tutte le fasi vengono rispettate; c’è un tempo sospeso per il pubblico e per la storia. Il gruppo-tribù degli spettatori riprende con sé la bambina e ne consegna un’altra alla storia affinché possa andare avanti e concludersi. Quando una bambina ritorna al posto le altre potrebbero sentirsi spaventate e se i rifiuti si sommano bisogna intervenire con un espediente accuratamente studiato: la Narratrice ritorna nel centro del cerchio rosso, si siede in mezzo e resta ferma, immobile, guarda il pubblico, poi comincia a piangere sotto voce e con quel finto pianto dichiara una debolezza: “La storia non può andare avanti senza una Vassilissa.”. Quando sente che il momento è maturo ripropone il rito dell’investitura con il fazzoletto rosso e di solito funziona.

Si sono verificate difficoltà nel corso degli anni nell’inserimento della bambina? Trova differenze fra le bambine di oggi e quelle che hanno vissuto la stessa esperienza negli anni passati?

In questi venti anni (1994 -2014) lo spettacolo si è continuamente modificato, è vivo. Non risente del fatto che i bambini cambiano, piuttosto abbiamo notato che le bambine sono meno abili a svolgere i lavori manuali, non hanno più l’abitudine al fare, adesso quelle che hanno più dimestichezza con la manualità e svolgono meglio i lavori-prove dello spettacolo sono spesso le bambine provenienti da altri paesi, da altre culture. Le attrici tengono dei diari in cui riportano questi cambiamenti.
Nel tempo e con le molte repliche e la conseguente esperienza che si sono fatte negli anni, le attrici tendono a coinvolgere bambine sempre più piccole per Vassilissa, e quindi tendono come attrici e persone a spingersi in difficoltà maggiori, quasi a sfidare la loro capacità intuitiva di condurre questo rito.
In generale io penso che i bambini siano la cartina di tornasole del paese dove vivono, del governo che c’è in quel paese, insomma di come vanno le cose nella loro polis, sono loro la cartina di tornasole di come è concepita la scuola, gli insegnanti e il loro aggiornamento, e se è una società in cui gli essere umani si rispetto e si ascoltano.

E il giovane pubblico? Come vive la relazione con la fiaba? E con il cambio di ruolo della loro compagna che interviene nella messa in scena? Si sono registrati cambiamenti su questo versante negli anni?

I bambini partecipano molto a ciò che accade in scena e provano una grande ansia per la compagna. Si possono distrarre molto se l’attrice conduce male questa relazione e diventa troppo intima con la bambina, escludendoli, cioè dimenticando il pubblico. Quando questo accade gli spettatori cominciano a distrarsi e disturbare.
Lo spettacolo è caratterizzato da una geometria sottilissima. La bambina deve essere sempre visibile ma protetta dal pubblico e pur restando nella storia non deve dimenticare la relazione con i compagni, ma neppure interessarsi troppo a loro, con i quali potrebbe cominciare ad avere un dialogo e l’attrice non avrebbe più un ruolo di riferimento (soprattutto nelle repliche dove tra pubblico ci sono i genitori). Per il pubblico non sarebbe più uno spettacolo ma un’animazione teatrale, dove si vede un’attrice che gioca con una bambina, invece il pubblico deve assistere a del buon e utile Teatro .
L’attrice per poter stabilire una relazione di complicità con la bambina, deve trovare il modo di concentrarsi su di lei sì, ma senza eccedere, per esempio prendendola da parte, o parlandole di nascosto e per non escludere il pubblico dalla loro relazione a due ci sono delle regole molto precise: per esempio, se l’attrice sa che la bambina per la scena è meglio se sta in un determinato punto dello spazio scenico, non può spostarla toccandola o spingendola, ma deve spostandosi lei stessa in modo che la bambina per vederla si sposti a sua volta proprio nel punto dove è meglio che sia per l’armonia geometrica della regia, regia che si basa su un’ estetica organica per gli attori e per gli spettatori, affinché l’immaginario si componga in metafore e visioni.

Intervista a Letizia Quintavalla, in Nella Califano, Narrazione e fiaba nel teatro ragazzi. Esperienze a confronto attraverso tre paradigmi, Tesi di Laurea in Storia del Nuovo Teatro, Corso di Laurea in Discipline dello Spettacolo dal vivo, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna, a.a 2012/2013.




Sotto la linea di terra non c’è niente. Intervista a Patrizio Dall’Argine

Ci puoi raccontare da quali esigenze nasce Teatro Medico-Ipnotico?

Teatro Medico-Ipnotico nasce dopo alcuni anni di riflessione e dalla mia esigenza di volermi definitivamente staccare dalla natura umana. Prima avevo avuto varie esperienze come macchinista, scenografo, scultore e drammaturgo, legate al settore del teatro ragazzi ma a volte anche del teatro per adulti, in cui non utilizzavo solo i burattini ma anche gli attori. Ecco, volevo spostarmi esclusivamente in baracca e lasciare che parlassero i burattini.
Tra l’altro la fondazione di Teatro Medico-Ipnotico è coincisa con un incarico presso il Museo Dei Burattini di Parma, dove è conservata la collezione della famiglia Ferrari (una delle famiglie di burattinai più importanti della storia d’Italia). Durante questo incarico ho iniziato a scrivere storie e a inventarmi personaggi che fossero maggiormente legati alla contemporaneità, mentre la produzione dei Ferrari ricalca di più le orme della tradizione. Così mi sono ritagliato una significativa fetta di pubblico.
La compagnia nasce infatti anche dalla convinzione che i tempi sono maturi perché il teatro dei burattini ritorni ad essere una “abitudine laica” caratterizzata da una forte continuità nel tempo. Il discorso che cerchiamo di portare avanti è proprio quello di voler uscire dalla logica dell’evento, della performance. Solo attraverso la continuità di proposta è possibile uscire dalla logica dell’evento e della sopravvalutazione del lavoro culturale. In Francia, nei teatri Guignol, teatri stabili che si trovano nei parchi di quartiere, esiste questo tipo di programmazione: si va in scena tre giorni alla settimana con uno spettacolo che resta in cartellone un mese e poi cambia.

Qual è dunque la specificità dei burattini sulla scena?

Pensate solo al fatto che il burattino si esibisce in una baracca con il boccascena. Si tratta di un palco naturale, che non crea alcun problema se vuoi esibirti all’aperto. Credo che questa sia una caratteristica fortemente connaturata al burattino: gli esperimenti, nati soprattutto dalla necessità tipica dei ‘70 di destrutturare i linguaggi, di abbattimento della baracca e dell’animazione a vista lasciano secondo me un po’ il tempo che trovano. Alla fine, le questioni creative con cui ti confronti sono le stesse dell’animazione in baracca. È vero: gli orientali hanno una smaccata ed esteticamente interessante propensione all’animazione a vista che nasce però anche da un rapporto con la visione, con l’oggetto e con la luce molto diverso dal nostro. Si tratta delle capacità di rendersi invisibili attraverso la presenza. In occidente, invece, la nostra attitudine è forse più legata alla necessità di creare “meraviglia”.
Ecco, il burattino ti lascia la libertà di essere invisibile, andare in scena rappresenta una sorta di “piccolo suicidio”dell’identità. Non occorre crearsi un’identità perché il burattino ne ha già una propria, e molto marcata. Infatti, è quando ti senti “forte” che lavori male: vai a prevaricare quelle che sono le caratteristiche intrinseche dei personaggi in scena. La baracca accoglie da sempre gli animi più inquieti ma devi essere sincero e devi essere capace di metterti a disposizione dei pezzi che manovri. Mi viene in mente la leggenda dell’homunculus: una creatura che ti “costruisci” e che ti rispetta nel momento in cui anche tu la rispetti a tua volta. Se invece la disprezzi, usandola come fonte di guadagno, ti maledice.


Hai parlato di “meraviglia”. Cos’è la meraviglia oggi, in una società caratterizzata da una grande immersività tecnologica?

Se prendiamo anche gli ultimi film della Disney, notiamo come si è arrivati al un punto in cui tutto è finto. La meraviglia oggi si nutre in realtà di mere apparenze, di immagini virtuali appunto. Di fronte a un tale “parossismo” il teatro ha alcune carte da giocarsi, che sono quelle della magia, dell’incanto, della “vivida verità” di certi elementi: il rumore del legno, l’odore del borotalco, i suoni forti la consapevolezza di essere dentro a una sala… l’invisibile, soprattutto. Fare teatro significa secondo me avere coscienza di lavorare con l’invisibile, sapendo che il palco è appunto il luogo in cui questo invisibile deve manifestarsi. Non sempre è così: esistono tanti spettacoli che strizzano in continuazione l’occhio a quello che c’è fuori, invece il teatro dev’essere qualcosa che ti costringe a entrare dentro. Quando animi i burattini evochi qualcosa. Il burattino è un simulacro, un fantasma (“fantasma” in greco significava infatti “immagine”). Si avvicina alle statue che nell’antichità erano poste sopra nelle tombe: la loro funzione non era quella di essere viste dai vivi, ma quella molto più oscura di trattenere lo sguardo dei morti per evitare così di scongiurare che i morti tornassero, una delle paure più ataviche dell’essere umano.
Ecco allora che, rispetto alla meraviglia, il teatro ha dalla sua la capacità evocativa e la capacità dunque di immaginare, di “vedere” l’invisibile. È un punto centrale in un momento storico in cui la finzione è diventata più reale della realtà…ma cosa c’è dietro questa magnificenza? E’ così con il teatro in voga oggi: un teatro di idee. Come diceva un grandissimo, è meglio invece avere un’idea di teatro.

Che differenze osservi fra il pubblico bambino e quello adulto? Forse che tale meraviglia si diffonda un po’ per contagio…

Venire a vedere uno spettacolo di burattini è credere a questo patto: sotto alla linea di terra della barra non c’è niente. È anche un discorso sulle profondità: io che faccio pure il pittore ho sempre cercato la profondità, il rapporto figura-fondo. Ricreare questi elementi nel teatro di burattini è molto divertente: l’illuminotecnica ti offre ampie possibilità con pochi ed economici mezzi tecnici.
Inoltre il teatro di burattini così come la rappresentazione in generale hanno a che fare con l’infrazione di un divieto. È quello che ho cercato di esplicitare col mio spettacolo su Modigliani. Modigliani e i pittori dell’Ècole de Paris erano ebrei e si confrontavano dunque con una proibizione religiosa verso la rappresentazione della figura umana. La volontà di rompere dei divieti è da sempre uno dei “carburanti” principali per gli artisti. Oggi non c’è più niente da rompere e questo rende forse più stimolante provare a creare spettacoli per tutti. Io sono uscito dal teatro ragazzi proprio perché non ne potevo più di fare spettacoli di settore e oggi alle nostre rappresentazioni vengono molti adulti da soli, che non accompagnano bambini. Per raggiungere un tale risultato, occorre saper calare i canovacci classici del teatro di burattini nella contemporaneità. E occorre anche saper seguire il “perturbante intrinseco” degli oggetti inanimati: il volto di Guignol, in fondo, è modellato sulla forma di un teschio, è il volto della morte.

(ph: Thea Ambrosini)

Quali sono le tue fonti di ispirazione? Come avviene il processo di creazione dei testi?

Intanto, il nome Teatro Medico-Ipnotico è tratto dal film di Bergman Il volto. Ammiro i lavori di Jean Renoir e di Nicholas De Stael. La pittura e il cinema sono, con la realtà, le mie fonti di ispirazione primarie. Lo stesso Cappello a cilindro deriva dalla visione di Liebelei di Max Ophuls. In effetti, penso che il teatro di burattini assomigli molto al cinema classico: una ricerca di equilibrio e di armonia. I miei spettacoli di repertorio nel tempo vengono calibrati, si asciugano e semplificano. Il classico è un’opera fuori dal tempo, una dimensione difficilissima da raggiungere, in cui l’autore si eclissa a favore dell’opera
Insisto, quando scrivo io ho il cinema in testa, cerco di raccontare per immagini. Per me un campo lungo vale più di un intreccio drammaturgico di Molière.

Il mondo dei burattini non è così conosciuto ai più. Come mai? Cosa dovrebbe cambiare affinché guadagni una maggiore attenzione?

Spesso l’ambiente dei burattini è un ambiente chiuso, eccessivamente accademico. Per questo se ne parla poco e la maggior parte delle volte male. Esiste però una sorta di “movimento dal basso”: Paolo Parmiggiani, per esempio, è un ricercatore che ha scritto testi importanti e che consiglia di unificare il complesso e ricco panorama del teatro di animazione italiano con il nome di Teatro di Pupazzi, dando così un respiro più internazionale e popolare a quello che solo in Italia viene chiamato Teatro di Figura. Questo genere, ormai dominato soprattutto dalla figura umana, ha un po’ il fiato corto e non mi sembra che dimostri grosse capacità di rinnovarsi. Spesso si assiste a psico-drammi legati al rapporto tra l’animatore e l’oggetto animato…limitando tutto ad un rapporto di potere. E poi diciamo la verità: il nome “figura” non ha appeal, da trent’anni viene proposto e non ha attaccato nell’immaginario. A me sembra che il Teatro di figura in Italia oggi si sia ridotto ad essere una maschera usata dal teatro ragazzi per farsi un po’ più bello di quello che è.
Parmiggiani è tra i pochi studiosi che conosco che ha la capacità di immergere il burattino nella contemporaneità pur mantenendone il suo mistero antico e la sua leggera e nello stesso tempo perturbante identità di oggetto-giocattolo. Ma una visione obbiettiva e storica è censurata da chi vuole mantenere il burattino tra le polveri ottocentesche e le ormai retro-avanguardie del novecento. E’ di nuovo un problema legato all’Accademia che celebra ciò che è finito e non quello che è vivo, e il burattino è molto vivo. Poi certo, c’è anche una specificità italiana che deriva dal conflitto generazionale del nostro paese. C’è insomma un vuoto generazionale nelle posizioni di potere e questo fa sì che il contesto si rinnovi molto lentamente o che si vada avanti con espedienti legati più alla comunicazione piuttosto che ad un linguaggio complesso e affascinante come quello dei pupazzi.

Francesco Brusa, Lorenzo Donati




Guida

(illustrazione di Brochendors Brothers)

Abbiamo chiesto a Marco Martinelli, regista, drammaturgo, pedagogo e fondatore del Teatro delle Albe, di riflettere sul lemma “guida” partendo dalla oltre ventennale esperienza della non-scuola, nata a Ravenna nel 1991. Martinelli ci ha donato un frammento del suo recente libro Aristofane a Scampia (Ponte alle grazie, 2016), che siamo felici di ospitare sulle pagine di Planetarium. L’estratto che segue si trova dalle pp. 68-70 e riporta un ideale discorso che la guida rivolge al gruppo di non-scuolini:

«”Siamo qui, io e voi. Abbiamo sei mesi davanti, in tutto solo quaranta-cinquanta ore, e vogliamo arrivare a fare uno spettacolo insieme, vogliamo divertirci ed emozionarci noi per primi, per provare poi a divertire ed emozionare coloro che arriveranno in teatro al nostro appuntamento. Da oggi io vi prenderò sul serio. Prendervi sul serio vorrà dire che io sarò attento a tutto quello che mi racconterete. Prendervi sul serio vorrà dire che non farò finta di ascoltarvi, come fanno tante volte gli adulti con voi, come fate tante volte anche voi con gli adulti: non farò finta, vi ascolterò veramente. Ce la metterò tutta. Perché una buona guida è prima di tutto uno che sa ascoltare. Se non sa ascoltare non può fare la guida. Io ascolterò tutto quello che mi direte e tutto quello che non mi direte, ascolterò le vostre timidezze, i vostri sguardi bassi, con attenzione e rispetto, senza forzarvi in nulla, sapendo aspettare il momento in cui avrete voglia di tirar fuori le vostre ombre e i vostri lampi. Prendervi sul serio vorrà dire che, mettendo in scena Euripide o Brecht, il mio compito sarà soprattutto quello di mettere in scena voi stessi: quella sarà la mia ‘gloria’. Che, se voglio fare bene la guida della non-scuola, allora non mi devo preoccupare di fare un ‘bello spettacolo’, qualcosa ‘di cui parli la gente’: voi sarete la bellezza che cerco, e nient’altro. Io vi guarderò come si guarda un quadro di Caravaggio, vi leggerò con la stessa attenzione con cui si legge una lirica di Dante. E se voi sarete ‘bellezza’, voglio dire, se sarete autentici in scena, se giocando porterete sul palco la vostra verità, allora lo spettacolo che faremo non potrà non essere un ‘bello spettacolo’. Forse ci arriveremo a quel risultato, ma proprio perché ‘il risultato’ in quanto tale non ci interessa. Prendervi sul serio vorrà dire farvi comprendere che ciascuno di voi è necessario, che ciascuno di voi è un mondo bello e prezioso, che giocheremo insieme per sperimentare non la felicità del farci fuori a vicenda, bensì quella dell’essere coro, accordati come trombe e violini, strumenti che suonano insieme. In questa musica che suoneremo insieme ogni vostro compagno sarà importante, anche quello che di solito in classe prendete in giro, qui lo tratterete come un re. È una democrazia di sovrani, questa! Dove non si disprezza chi non ce la fa, ma si esalta il suo strano, misterioso non saper fare, che visto in controluce diventa un saper fare in altro modo. È complicato? Non è complicato. Prendervi sul serio vorrà dire che prima di tutto cercherò di prendere sul serio me stesso: non sono qui per i soldi o per la fama, sono qui perché mi interessa quello che avverrà fra di noi, un rito di umanità, uno stare in cerchio a interrogare il mistero della vita, ad affrontare l’enigma delle parole con cui chiamiamo questa successione di giorni e di notti, l’alba, il tramonto, l’amore, la violenza, il disgusto, e tutte le altre infinite cose che stanno sotto la luna”.

No, nessuna guida inizia un laboratorio di non-scuola con un discorso come quello che avete appena letto: una guida inizia mettendo tutti in cerchio, e cominciando a cantare, a saltare, a improvvisare: quelle parole ve lo ho scritte io adesso, per farvi capire. Ma è come se questo discorso fosse veramente fatto all’inizio di ogni incontro; questo discorso esprime lo spirito con cui una guida è davvero una guida nella non-scuola: un adulto che guida un gruppo di adolescenti ed è capace di farsi a sua volta guidare dalla loro energia vitale. Non è una questione di età, l’adulto può essere un trentenne come un sessantenne, è questione di prenderli davvero sul serio, giocando e sudando insieme a loro».

Marco Martinelli




“Fare il giro”, per una pedagogia delle emozioni. Conversazione con Giuliano Scarpinato

Abbiamo dialogato con Giuliano Scarpinato qualche tempo dopo il debutto della sua nuova produzione per ragazzi – Alan e il mare – nell’edizione 2017 del Festival Segnali di Milano. A partire dai nodi della nostra inchiesta sulle arti e l’infanzia è nata una più ampia conversazione che affronta diversi aspetti del percorso di quest’artista nel suo rivolgersi al giovane pubblico.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

L’incontro con il teatro ragazzi è stato per me abbastanza fortuito… Sono sempre stato un grande amante e collezionista degli albi illustrati, questa sorta di haiku straordinari che nel giro di poche pagine, pochissime frasi e alcune immagini fortemente iconiche riescono a rendere il cuore delle cose. Il desiderio di avventurarmi nel campo del teatro ragazzi è nato proprio da uno di questi libri: La grande fabbrica delle parole (A. de Lestrade, V. Docampo, Terre di mezzo, 2010) a cui si è ispirato La fortuna di Philéas, progetto con il quale nel 2012 ho partecipato per la prima volta al Premio Scenario infanzia. Fu l’inizio di un’esplorazione: cominciai a tastare il terreno, ad accorgermi delle esigenze del pubblico e del modo in cui avevo mancato degli obiettivi, ne avevo centrati altri. Due anni dopo è scattata la scintilla di Fa’fafine, è stato un incontro simile. Mi capitò di leggere un articolo a proposito dei bambini gender fluid, gender creative su “Internazionale” e mi innamorai della questione. Trovai estremamente interessante l’idea che esistessero questi piccoli guerrieri della libertà identitaria e, in modo piuttosto lineare, pensai che sarebbe stata una bella storia da raccontare a un pubblico di giovanissimi. Ecco, con Fa’afafine mi sono realmente addentrato in questo mondo. All’atto pratico, insieme alle polemiche ingenerate e al riconoscimento della critica, lo spettacolo ha avuto una risposta magnifica da parte dei ragazzi; ho potuto verificarlo con loro replica dopo replica anche perché è stato costantemente accompagnato dal confronto con il pubblico. E così, dopo i desideri e le intuizioni, a partire da questi momenti di scambio, ho raggiunto via via una sempre maggiore consapevolezza e mi sono reso conto di quanto fosse privilegiato il terreno di confronto con le nuove generazioni, di quanto fosse emozionante e restituisse la necessità del teatro. Quella offerta dai ragazzi – capaci, con occhio dotato d’incanto, di cogliere aspetti che spesso ci sfuggono – è una possibilità di condivisione reale tra artisti e pubblico che dovrebbe essere estesa a tutto il teatro.

Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Il mio approccio, l’ho scoperto in modo del tutto empirico, equivale a fare il giro. Fino ad ora ho trattato argomenti molto delicati, scivolosi – l’identità di genere, le sue varianti; la perdita di un figlio e il lutto all’interno della cornice più ampia della fuga da un paese in guerra e dell’emigrazione –, queste tematiche, però, non ho voluto e non amo affrontarle di petto, né in modo cronachistico. Riguardo la storia di Alan Kurdi, per esempio, credo che sul piano del racconto giornalistico sia stato detto e visto veramente di tutto. Ogni giorno inoltre veniamo a sapere delle vicende di un nuovo barcone e di alti numeri di vittime; le informazioni arrivano in dosi così massicce che ciò non può che provocare in noi una certa assuefazione, al di là delle inclinazioni umanitarie e della sensibilità di ciascuno. Di conseguenza con lo strumento teatro io scelgo di fare il giro, decido cioè di trasformare e avvalermi – come nel caso di Alan e il mare – di un dispositivo magico, fiabesco. Nello spettacolo questo coincide con la trasformazione della morte in una metamorfosi: Alan diventa un bambino-pesce che dal momento del naufragio appartiene per sempre al mare, da dove può fuoriuscire, essere ripartorito, a volte, per stare accanto al padre pochi minuti e poi tornare ­– come una Cenerentola “al suo rintocco” – dentro una dimensione che ormai lo imprigiona… Quando ho visto la foto del bambino sulla costa di Bodrum una delle primissime cose a cui ho pensato e che annovero tra le ragioni del suo grande impatto mediatico è stata la forte ambiguità dell’immagine: la posa del suo corpo non lasciava capire se fosse morto o dormiente. Quest’aspetto durante il processo creativo ha contribuito a dar vita al dispositivo fiabesco, che è stato per me il nucleo generatore dello spettacolo; la cronaca e i fatti realmente accaduti ne hanno costituito la cornice. Ma, perché fare il giro? Perché ciò che penso e noto rispetto all’approccio con i ragazzi è che sia più efficace parlare loro attraverso il sogno, la favola tornando però circolarmente alla realtà, cercando di rendere quanto più universale e condivisibile la vicenda. Così, secondo me, c’è una possibilità in più per scavalcare meccanismi di assuefazione e tornare alla realtà delle cose con un sentimento diverso, più “compromettente”.

Cosa ti ha spinto a condividere queste particolari tematiche proprio con lo sguardo, l’ascolto dei più piccoli?

Mi è davvero difficile pensare a una cesura tra il pubblico bambino e quello adulto. A prescindere dall’età anagrafica, credo che il punto siano l’occhio e l’orecchio bambino come entità. Né Fa’afafineAlan e il mare sono spettacoli pensati esclusivamente per i bambini, certo, loro sono privilegiati perché hanno un accesso più rapido a determinati tipi di salti: dal sogno alla realtà, e viceversa. Allo stesso tempo però, come i bambini, sono privilegiati quegli spettatori di tutte le età in grado di conservare uno sguardo infantile. Ecco, più che il pubblico dei bambini io scelgo un pubblico di bambini. Ma probabilmente questo ha a che fare anche con qualcosa che mi riguarda in prima persona: se io non portassi sulle spalle, come uno zainetto, il bambino che sono stato, con le sue mancanze, i suoi bisogni, i suoi desideri, probabilmente non avrei iniziato a fare teatro. Quindi ciò che trovo importante è andare a incontrare degli spettatori che siano rimasti, anche loro, “bambini nel tempo” e viaggino senza aver paura della propria bambinità.

(Alan e il mare)

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come può il teatro relazionarsi con questi nuovi ritmi del contemporaneo? E, ancora, in cosa consiste la “differenza teatrale”?

Quando diventa luogo primario del sogno, dello squarcio onirico, il teatro trova uno dei suoi tratti distintivi. È quest’aspetto secondo me, insieme al dato caratterizzante e imprescindibile della compresenza di attori e spettatori, a costituirne l’unicità, e a permettere di non condividere esclusivamente la nuda, cruda o banale realtà. Ma entrambi gli ingredienti, dal mio punto di vista, possono essere presenti: si parte dal dato reale e si attraversa un canyon di sogno (o di incubo) per poi risalirlo e arrivare di nuovo alla realtà. E questo il teatro può farlo in modo del tutto privilegiato proprio perché il suo tempo è più dilatato rispetto a quello dei diversi media. Mi stupisco sempre di quanto lavoro ci voglia per creare un’ora di spettacolo, di quanto tutto sia, fondamentalmente, un lavoro sulla sintesi; sintesi che, però, nel momento dell’incontro con il pubblico può corrispondere a una dilatazione temporale molto più ampia… Piccolo miracolo distintivo legato anche alle circostanze: allo star chiusi, insieme, in quest’antro buio, questa placenta, che permette di vivere una ritualità ormai molto più difficile da condividere al cinema, per esempio, dato che il nostro modo di fruirne si è imbarbarito, proprio per la sua “somiglianza” con la televisione o le serie tv viste sul pc nella propria stanzetta. Quanto meno la presenza dell’attore in teatro dà allo spettatore una responsabilità.

Che tipo di rapporto si instaura, invece, tra la scena e il video nei tuoi lavori?

Nel rivolgersi al pubblico dei più giovani non si può ignorare il fatto che le nuove generazioni abbiano come canale privilegiato un certo tipo di comunicazione – veloce, rapida, basata fondamentalmente sull’immagine – si può però declinarla sul versante del sogno, appunto. Quindi, in Alan e il mare l’uso del video non è di tipo giornalistico, non ci sono filmati relativi alla situazione siriana; lo spettacolo inizia con un’immagine molto rapida – è una bomba che scoppia – ma subito entra in un’altra dimensione e si dà accesso all’immaginazione. Allo stesso modo, grazie a un connubio tra il video e la scena, e alle bellissime proiezioni di Daniele Salaris, abbiamo potuto portare sul palco il mare di Alan, che è anche quello dei suoi ricordi, dove poi sarà accolto il padre e vedrà il loro cane, Abibi, diventato un cane-paguro, e l’albero di gelso del loro cortile, riempitosi di corallo. Il video allora mi permette di saltare i confini spazio-temporali o di convocare altri personaggi – i genitori di Alex in Fa’afafine; la madre di Alan che torna, come una sorta di muta fata turchina, nei sogni del padre. Amo molto questo mix tra linguaggi, lo trovo rispondente al tipo di percezione che abbiamo oggi delle cose.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Com’è possibile evitare il didattismo?

Non ho alcuna pretesa di insegnare né di essere un pedagogo, si tratta più di un dialogo, una condivisione. Cerco davvero di mettermi sullo stesso piano dei ragazzi e non su quello superiore di chi dice cosa fare, pensare o provare. Chiaramente è lo strumento teatro in sé a poter contenere una funzione pedagogica e, forse, ciò che posso immaginare per il teatro in generale è che contribuisca a una pedagogia delle emozioni. Trovo importante – e qui torno al tipo di teatro che amo anche vedere e alla realtà che ci circonda, con le sue efferatezze più o meno mediaticamente esposte – che si dia luogo a una rialfabetizzazione emotiva, perché mi sembra che oggi sia in atto il processo contrario e che le emozioni, positive e negative, e il loro attraversamento costituiscano un problema. I diversi filtri della comunicazione di cui disponiamo (Whatsapp, i vari social) rendono possibile arroccarsi in posizioni di difesa e distacco che fanno perdere il contatto con le emozioni primarie, con le lacrime, le urla. Credo che questo sia molto pericoloso, nell’ambito relazionale privato come in quello pubblico. In tal senso ciò che mi piacerebbe fare con il mio lavoro è contribuire a ricreare un alfabeto, partecipare a questa pedagogia delle emozioni.

Francesca Bini