Immersi come siamo in un contesto di rappresentazioni mediatiche sempre più allo stato gassoso, ci si chiede come il teatro che si rivolge all’infanzia sia in grado di “farsi riconoscere” nella sua specificità. Se tutto è rappresentazione, se quella che chiamiamo finzione ha smesso di marcare una distanza rispetto all’esperienza quotidiana “non mediata”, che ruolo o posizione può avere il teatro? Gli studi antropologici hanno spesso insistito sul concetto di “differenza”, provando a rintracciare uno specifico che solo il teatro possiede; seguendo questa pista si finisce nei pressi degli studi della relazione teatrale, isolando un “modo” dell’essere spettatori tipico del teatro, verso quella compresenza fra corpi che potrebbe (o dovrebbe) inevitabilmente interrogarci sul nostro corpo, e cioè sullo sguardo. Chi stiamo guardando, e dunque come lo guardiamo? A teatro il corpo si fa sguardo e lo sguardo attraversa dei corpi, quelli degli attori e dunque anche il nostro. Uno sguardo-corpo che si confronta con l’altro da sé e nella migliore delle ipotesi arriva a domandarsi qualcosa su di sé.
Uscendo dalla prospettiva antropologica ci si potrebbe domandare: che cosa si può comunicare, trasmettere, raccontare solo col teatro, e con nessun altro linguaggio dell’arte?
KanterStrasse, giovane compagnia aretina, ha presentato ieri Amletino, per la scrittura di Simone Martini e con Luca Avagliano, lo stesso Martini e Alessio Martinoli. Quella di Amletino è una risposta che coniuga le questioni archetipiche del classico, trasmesse per strati a un pubblico misto composto da bambini e adulti, con la sua contestazione ottenuta per via attoriale. Da una parte Amleto, il potere, il torbido della famiglia, la regalità, in un andamento narrativo che sostanzialmente preserva l’ossatura dell’intreccio, mettendo in scena il Principe nella sua pensosità, grave e dubbioso e tormentato ma anche tutti i personaggi che fungono da “contorno”, a partire dalle coppie che diventano inesorabilmente “comiche”. Perché dall’altra KanterStrasse lavora quasi a minare le pretese della trama, l’ordine costituito, la confezione, contornando appunto la vicenda amletica di sequenze irresistibilmente comiche, al limite della gag non-sense e dello slapstick. Sospendendo dunque la trama e creando dei varchi squisitamente attorali, nei quali è l’attore, la sua tensione a destrutturare le pretese della trama a “farsi racconto”. Martini e Avagliano si muovono nei panni di un fantino-Claudio con frustino e casco e di una Gertrude che al posto della testa ha un foglio di carta con disegnato un cuore, fingono partite a Squash nei panni di Rosencratz e Guildenstern, diventano becchini che pescano e acchiappano farfalle dicendo che lo stanno facendo per finta, cioè “per assurdo”, si improvvisano guitti di fronte ad Amleto nella celeberrima sequenza del Principe che funge da protoregista dando consigli di recitazione, nel celeberrimo passaggio del teatro che dovrebbe “reggere lo specchio alla natura”. Certo il confine fra sovversione della norma (del classico e della trama) e sua “sospensione” per ottenere un ingaggio costruito su raffinati espedienti comici è molto sottile e comunque scivoloso.
Ritornando alla necessità di raccontare attraverso il teatro La regina delle nevi, battaglia finale di Renzo Boldrini e Michelangelo Campanale, già dal titolo, ci dice qualcosa del punto di vista che i due autori hanno voluto adottare per mettere in scena un classico della fiaba. La regina delle nevi di Andersen arriva agli spettatori come una storia a metà tra la biografia della protagonista e il ricordo dei racconti della nonna. Come si tratta un classico a teatro? E perché? Che cosa può dirci di più? Italo Calvino, com’è noto, scriveva che un classico non smette mai di dire ciò che ha da dire e che, per il suo configurarsi come «equivalente dell’universo», è capace di parlare a tutti e che «Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui».
Queste parole sembrano adatte per osservare il lavoro di Boldrini e Campanale, che hanno raccontato piuttosto come gli effetti della fiaba continuino a lavorare nell’inconscio di un’adulta ancora imbrigliata nei fili della fanciullezza. Si tratta di un inconscio complesso, che ospita ora ritmi e movenze bambine, ora compie salti di maturità vertiginosi, come a voler fuggire quella natura infantile incastrata tra istinto imprudente e cieco coraggio.
La vera «battaglia finale», allora, sembra stare proprio qui, nel limbo tra due età che si parlano senza mai riconoscersi del tutto. E questo permette alla protagonista, da una parte, di dialogare senza giudizio con i propri ricordi di bambina; dall’altra, però, la costringe in un limbo emotivo che si risolve soltanto nel momento in cui avviene per lei una trasformazione, che coincide con la capacità di rielaborare un racconto a lei tanto caro e in qualche modo ancora presente.
La strategia che mira a dar forma a queste complessità sembra essere – un tratto tipico nella poetica di Campanale – quella di ricorrere al mezzo del teatro come linguaggio composito e sempre fuori formato. L’impiego di una scena profondamente curata, crossmediale, intelligentemente divisa per ambienti che, ad abitarli, si spalancano dimensioni di luogo, di tempo e di senso; la chiamata a un teatro fieramente al massimo delle proprie forze; l’attenzione al mestiere d’attore come strumento di comunicazione primaria.
Un armadio al centro della scena sembra voler mettere in connessione il mondo adulto con quello dell’infanzia, una sorta di porta spazio-temporale, varcata la quale è possibile sciogliere gli antichi nodi della propria interiorità. Oltre la porta, l’intimità della protagonista, che si prepara per la battaglia finale con le proprie paure; una sedia grande per l’adulta, una piccola per la bambina: il gioco dell’attraversamento e delle dimensioni sovrapposte ricalca una dinamica di attenzione che dà alla fiaba il potere di parlare a ciascuno spettatore, che può trovare legami personali con i dedali della storia. E così è forse possibile non lasciarsi ingoiare dal contesto di uno festival pensato (solo) per i bambini: ognuno incontra e supera paure personali, come a riprendere un discorso per, finalmente, completarlo.
Una delle grandi questioni del teatro per le nuove generazioni di questi ultimi anni riguarda le modalità con cui si concepisce e si ritrae un mondo che possa essere riconoscibile per lo spettatore bambino. L’immaginario è l’orizzonte su cui si incontrano l’enunciato dell’artista e la disposizione di chi guarda, il gioco di leve e forze contrapposte necessario a crearlo e a consolidarlo può persino diventare il centro del processo artistico medesimo.
Di certo la compagnia ScenaMadre si era posta di fronte a questo dilemma nel pensare La stanza dei giochi (vincitore del Premio Scenario Infanzia 2014 – ex aequo con Fa’afafine di Giuliano Scarpinato), che metteva in scena due bambini ribaltando «la consuetudine del teatro ragazzi interpretato da adulti», si leggeva nelle motivazioni della giuria. L’effetto in qualche modo straniante, che aveva messo in allerta molti operatori e mediatori, sembra ora aver portato la compagnia a un ripensamento sulla gittata della sfida: sul palco per Compiti a casa (prodotto insieme a Gli Scarti) ci sono Marta Abate e Michele Moretti, ancora una volta adulti che interpretano bambini.
Creare la cameretta dei due figli di una giovane coppia che si avvia verso il divorzio è un processo rapido e indolore. I pochi elementi sono quelli che tutti abbiamo già in mente: lettino, tappeto da gioco, lavagnetta, matite colorate, macchinine. Ma è questo il vero immaginario da creare? A tratti rischia di sembrare una scappatoia verso riferimenti simbolici più semplici, mentre il punto starebbe proprio di là dal guado di ragionamento che lo spettacolo non riesce davvero a sorpassare: che rapporto c’è tra età adulta e bambini? Chi parla a chi? Con quali parole? O con quale immaginario?
Il teatro ragazzi si trova sempre di fronte a una sfida fondamentale: la relazione con il proprio interlocutore, che rappresenta ciò che un tempo siamo stati e ora non siamo più. Il ripostiglio disordinato – e invisibile al pubblico – diventa il luogo di uno strano esperimento che intende riportare la luce in un appartamento poco illuminato e quindi nella vita della famiglia. Si fa però di nascosto, in un luogo dimenticato, senza il quale, tuttavia, nulla potrebbe realizzarsi.
È davvero possibile parlare “ai” bambini lasciando una traccia di senso? O forse bisognerebbe piuttosto pensare di parlare “con” i bambini, mettersi dalla loro parte e riscoprire ciò che è depositato nel nostro “ripostiglio”, che proprio come quello dello spettacolo è sempre disordinato, ci si mettono tutte le cose che restano sospese, le cose da buttare via o quelle mai utilizzate.
Nella Califano, Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto
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