Carte di identità. Prima istantanea da Teatro fra le generazioni
Relazione. Questa la parola chiave, sempre e comunque, quando si ha a che fare con il teatro, con la sua dinamica, con la sua energia di propulsione emotiva, intellettuale, materiale. Se nel mondo di oggi è sempre più lontano il pensiero dicotomico su dimensione online e dimensione offline, se nella società iperconnessa e “ipercomplessa” il filosofo Byung Chul-Han sottolinea un’impossibile distinzione tra “qui” e “altrove”, è nel luogo della comunità che un qualsiasi cammino creativo può incaricarsi di un processo direzionato.
Nella mattinata di apertura di questo Teatro fra le generazioni 2018 abbiamo assistito a tre diversi esempi di relazione fondamentale del teatro. Alice nella scatola delle meraviglie (in anteprima al festival) installa l’attenzione degli spettatori su una scena di pareti modulabili che, aprendosi e chiudendosi, ricostruisce Wonderland in un labirinto di simboli. L’abitazione di questo dispositivo scenico non sempre riesce fluida e, complice il piccolo spazio, le due attrici (una per Alice e per il Cappellaio Matto, l’altra per lo Stregatto) sgusciano al meglio dentro porte e finestre, maneggiando sagome e oggetti multicolori. Di certo spicca una ricerca sulla visione del racconto, riorganizzata in una dinamica alternativa che sottrae alle attrici il compito di fare “scene madri”, consegnandolo alla scenografia (vincitrice del Premio Otello Sarzi). E tuttavia resiste con forse troppa tenacia l’ispirazione disneyiana, che allontana una restituzione chiara del poema di Lewis Carroll, concentrando l’attenzione in maniera a tratti discontinua.
Pur se molto distanti per linguaggio, Con me in Paradiso di Teatro Periferico e Fiabe Giapponesi di Societas/Chiara Guidi hanno invece saputo creare, tra scena e platea, le pareti elastiche di un parlamento politico. Non politico partitico, ma interessato a una politica della visione. Il primo porta sul palco del Ridotto un’originale operazione di innesto drammaturgico. Il testo di Mario Bianchi – che è innanzitutto uno dei “maestri” della critica e del racconto del teatro ragazzi – rielabora l’episodio neovangelico di Zaccheo in un confronto tra un italiano e un immigrato e viene poi attraversato in una scrittura scenica dal drammaturgo Dario Villa, che entra dentro al racconto per mostrare, in uno squarcio metateatrale, le reali problematiche di un laboratorio da lui condotto con un gruppo di migranti. Abdoulaye Ba, Mauro Diao e Siaka Konde riescono a non essere tanto la personificazione del migrante, piuttosto – grazie a una presenza disincantata e generosa – un esempio di procedimento critico tra contenuto e forma. Così l’impostazione didattica – certe volte sorprendentemente impietosa nei confronti dei soliti stereotipi sull’alterità – sguscia via dalla retorica e dà senso a un’abitazione dello spazio che non cerca la pulizia ma predilige la chiarezza, impreziosita a volte da tagli di luce e tableaux vivants.
Un’apertura politica ambiziosa e sottile, invece, è ciò che può permettersi un’artista come Chiara Guidi, immersa da sempre in una ricerca che dal faro tecnico-poetico del mezzo teatrale fa luce sulla “puericultura”, sulla geografia epistemologica dell’infanzia e sulle sue complesse tassonomie. Le Fiabe Giapponesi sono un rituale che proprio nella relazione trova e rafforza il nervo della riflessione su questi segmenti di pubblico.
Sul palco principale del Teatro del Popolo nove bambini e bambine – indossato sul proprio grembiule una divisa di carta – vengono letteralmente impiegati dall’attrice cesenate nella separazione di mucchi di fagioli chiari e scuri. E lì rimarranno, inginocchiati attorno al basso tavolo che è la loro fabbrica, tra tre pareti diafane dall’intelaiatura esposta, illuminati da tubi di neon, sempre in attività, testa china che si alza all’occorrenza, a seguire il racconto. Tre fiabe tradizionali nipponiche – una verde, una blu, una rossa – vengono letteralmente “afferrate” da Guidi e rivivono in dialogo con l’ombra di un sovra-narratore umanoide che appare e scompare e con sagome stilizzate.
Arduo ricostruire in poche righe il complesso percorso di senso che questa drammaturgia altamente razionale riesce a evocare: si affrontano questioni esistenziali (differenza tra nulla e vuoto, coincidenza tra l’atto di volere e l’atto di non volere), ci si incammina su una traccia di filosofia Zen, in una didattica continuamente «errante», come desidera l’autrice. Appena sembra che lo spettacolo punti un nodo, la pratica della relazione mette alla prova la platea di adulti e bambini andando a scioglierne un altro. L’attrice parla quasi sempre in ombra, un paio di volte siede in platea per «guardare lo spettacolo», lanciando segnali sul problematico statuto della presenza. Siamo qui, ma potremmo non esserci. In questo esperimento di relazione noi guardiamo, ma soprattutto ascoltiamo, inseguendo la meticolosa partitura vocale alla ricerca di un modo per smettere di cercare. Come in quella favola Zen in cui il monaco, appeso al ramo che, cedendo, lo precipiterà nelle fauci di una tigre affamata, sceglie di sporgersi ad assaggiare l’ultima mora. «Com’era dolce».
La seconda parte del festival si è svolta all’insegna di uno dei materiali più antichi utilizzati dall’uomo: la carta. Si tratta di una produzione di Sacchi di Sabbia dal titolo Sshhhh! Pop_up teatrali e Corti di carta di Riccardo Reina, prodotto dal Teatro delle Briciole.
La suggestione provocata dai due spettacoli è sicuramente legata all’effetto visivo della carta che, nel caso di Sacchi di Sabbia, è presentata sotto forma di libri pop-up che i venti spettatori, ai quali le tre performance sono destinate, sfogliano insieme agli attori. Con gesti lenti e delicati le pagine dei libri si susseguono per raccontare il percorso teatrale della compagnia, che sui libri pop-up ha incentrato gran parte della propria ricerca teatrale. I libri selezionati sono stati infatti precedentemente costruiti per performance site specific o per spettacoli mai realizzati ed è la stessa compagnia che, facendo scorrere su uno schermo bianco delle informazioni per gli spettatori, precisa che condivideremo anche i loro fallimenti. La parola fallimento, però, sembra davvero quella meno appropriata per descrivere un lavoro suggestivo come quello di Sacchi di Sabbia. Quattro mani, un libro e della musica. Agli spettatori non è servito altro per prendere parte a un viaggio emozionante e solitario, eppure da vivere insieme agli altri.
Carta da disegnare, da scrivere, da leggere, a voce alta o per sé, da stracciare, da ricomporre o semplicemente da contemplare… La carta, da sempre, per le sue caratteristiche, permette di relazionarci con essa fisicamente, ma anche di perderci nei segni che accoglie. Di fronte alla carta, che dialoga direttamente con la nostra interiorità, siamo nudi, soli con il nostro immaginario, che ne incontra un altro e ne produce ancora in un ciclo di stupore, scoperta, nutrimento.
La carta che diventa ispirazione e disperazione, come tutte le cose che d’improvviso colpiscono a fondo e ci svelano un segreto. È il caso del primo dei tre Corti di Carta di Reina, in cui un uomo siede a una macchina da scrivere che, all’improvviso, come se entrassimo nella testa dello scrittore ispirato, comincia a produrre non più i classici suoni metallici dei tasti, ma note musicali. L’uomo, però, sembra non essere mai soddisfatto di ciò che scrive e si sbarazza, puntualmente, dei fogli che riempie, accartocciandoli e lanciandoli dietro di sé, fino a formare una montagna di carta che sembra assumere le sembianze di una Musa meravigliosa e terribile, perché misteriosa e inafferrabile, proprio come il fuoco della creatività.
Nella Califano e Sergio Lo Gatto