In un presente che ha relegato l’infanzia a categoria merceologica e che spesso la considera condizione da superare, di Teatro ragazzi occorre parlare e discutere; in un sistema teatrale che riconosce e finanzia le arti rivolte all’infanzia attraverso specifiche voci di decreti, di teatro ragazzi occorre occuparsi; considerando poi un andamento storico che, a partire dagli anni ‘70, vede gli artisti italiani “uscire dai teatri” in cerca di nuove domande e ossigeno, per rigenerare il teatro e la società, di teatro per e tra le generazioni occorre necessariamente occuparsi, in cerca dei fili nel presente che ci riportano a quella vocazione “fondativa”.
Questi e altri motivi immediati ci fanno affermare che il teatro ragazzi va seguito da vicino, dismettendo una colpevole disattenzione della quale pochissimi possono dirsi immuni (come il maestro Mario Bianchi). Dal canto opposto però non va fatto l’errore di pensare al teatro ragazzi come a un’arte della quale si possa discettare senza rinnovare gli strumenti della critica teatrale. Di teatro che si rivolge all’infanzia ci si deve occupare provando a nutrirsi di domande almeno in parte di provenienza pedagogica ed educativa, perché altrimenti rischiamo di fare un’approssimazione potenzialmente dannosa. Il pubblico di questo teatro non ha scelto di stare a teatro, c’è sempre qualche adulto che sta operando una scelta in sua vece; il pubblico di questo teatro è un pubblico che sta crescendo, dunque l’esperienza artistica non può che entrare a far parte del percorso di crescita dei bambini e adolescenti, magari per contestare le loro domande sul mondo e le nostre domande educative, o spaesarle e confermarle e aprirle.
Che possa esistere – o che per certi versi anche “debba” – una vocazione a rivolgersi all’infanzia ci pare dunque importante e cruciale, se per infanzia intendiamo la tensione a porsi una domanda sull’origine. Infanzia, o “ragazzi”, dunque non come categoria da intrattenere accomodare e divertire (anzi: mai da intrattenere accomodare divertire se è solo questo lo scopo di fondo), ma come occasione per domandarci qualcosa sull’origine delle cose, rimettendo al centro collettivamente le grandi domande dell’esistenza. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché moriremo, cos’è l’amore. Abbandonando magari certe pretese estetiche “adulte”, che a volte rischiano di trasformarsi in pretenziosità. Avendo cioè il coraggio di ritrovare anche una forma “gioiosamente infantile” con cui porci quegli interrogativi, una semplicità che non sia semplicismo. In una piccola inchiesta che abbiamo condotto l’anno scorso, Simone Guerro diceva che trattare “tematiche difficili” con i bambini significa «trovare la matrice da cui le cose partono e si diffondono», negli automatismi del pensiero in primo luogo, nella società, fin quasi nell’immaginario collettivo di un’epoca.
Vista da questa prospettiva, l’etichetta del “teatro ragazzi” non solo è chiara e immediatamente utilizzabile, ma può individuare una tensione da incoraggiare e un’area da praticare, anche da chi non l’ha mai considerata, anche da parte di chi pensa di non esserne “titolato”. Perché, come sostiene Piergiorgio Giacchè nel suo importante saggio, prima che diventasse un “servizio” l’animazione teatrale e le sue forme storiche (fra le quali il teatro che dialoga con l’infanzia) sono state e possono tornare a essere il manifestarsi nell’arte di una domanda sul proprio senso, a un tempo dolorosa e non nichilista. Vista da questa prospettiva, ci sia concessa un’amichevole polemica con la provocazione di Renzo Francabandera, quando propone la nuova etichetta di “teatro ad alta accessibilità”. Quella di Francabandera è una sollecitazione che ha il grande merito di tenere acceso un dibattito che pochi scelgono di praticare (segnaliamo anche in questo senso l’intervista a Tam Teatro Musica firmata da Renata Savo su Scene Contemporanee, oltre all’importante contributo di Mario Bianchi su ateatro sui tabù). Ma, segnalto il merito del dibattito ed entrando nel merito della questione, ci sentiamo di dire: altro che accessibilità! Quando ci poniamo le domande dell’origine stiamo facendo un’operazione di complessità, ci stiamo affacciando sul vuoto, stiamo prendendo per mano i bambini, i ragazzi, i giovani e insieme a loro stiamo guardando l’abisso. Di fronte a un abisso si piange, si ride, ci si commuove e ci si dispera. Torniamo allora a parlare delle grandi questioni che ci legano, come umani, e non di un’accessibilità che rischia di incoraggiare, alla lunga, la percezione di una spettatorialità incapace di raggiungere certe vette, alla quale va facilitata la comprensione rimuovendo ostacoli e barriere. Dovremmo allora probabilmente dismettere il concetto stesso di accessibilità culturale, non quello di teatro ragazzi, un concetto che deve continuare a farci discutere e a discutersi, senza ritenersi in pace con se stesso, “contestandosi” dall’interno per provare a uscire dal ghetto che anche per proprie colpe è stato creato negli ultimi decenni. Sapendo che per uscire da questo isolamento è necessario porsi domande difficili, non semplificate: se la cultura è quello che ci tiene insieme, rarissime volte questa sarà un pranzo di gala, quasi sempre invece si rivelerà un processo complesso, denso, faticoso. Un sentiero ripido da scalare e pieno di insidie, ma quanta aria circola quando siamo lassù insieme di fronte all’abisso! Di abissi accessibili non se ne sono mai visti.
Lorenzo Donati
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