Sotto l’egida di una donna dagli occhi chiusi, forse sognante o forse una Medusa che attende di aprire gli occhi per trasformarci tutti in pietra, sul palco troneggia un teatro per burattini fatto di stoffa e pareti dipinte. Siamo davanti al Teatro Medico Ipnotico che ha proposto per il Festival Teatro fra le Generazioni di Castelfiorentino Leonce und Lena, un lavoro crepuscolare e magico capace, come la luce del tramonto, di far svanire i contorni delle cose sciogliendole le une nelle altre. Uno spettacolo di burattini per adulti o, più semplicemente, uno spettacolo di teatro che racconta una storia usando personaggi fatti di legno e carne.
Stupefacente è infatti la maestria di Patrizio Dall’Argine e Veronica Ambrosini, aiutati da Thea e Virginia Ambrosini, nel trasformare i personaggi inanimati in creature vive che offrono le loro vicende alla poesia e ai lazzi del testo e, a volte, anche a quelli del nostro tempo. Leonce und Lena racconta la storia di un principe e di una principessa di due regni vicini, obbligati a un matrimonio politico. I due giovani decidono di ribellarsi al loro destino e di fuggire, ma durante la fuga si incontrano in una locanda e si innamorano, senza conoscere le loro vere identità. La vicenda si conclude con un matrimonio proprio nel giorno della cerimonia ufficiale, voluta ugualmente dal re nonostante l’assenza dei due promessi, prontamente sostituiti da due automi. Il principe e la principessa riassumono le loro identità e trasformano le nozze politiche in un matrimonio d’amore.
C’è, nella cornice offerta alla commedia di Büchner un riferirsi alle vicende dell’oggi, non tanto nella forma dell’attualità ma in quella universale dell’esperienza umana. In fondo, come declamano i tre diversi imbonitori all’apertura del sipario, in questa storia possiamo leggere ciò che preferiamo: un dramma sociale, che parla delle nostre vite prigioniere di percorsi già tracciati; un dramma morale; o forse niente di tutto questo, la storia di poveri diavoli come noi, né santi né eroi.
Tuttavia Dall’Argine non rinuncia ad allusioni e battute che colpiscono l’oggi con sagace precisione e che vengono dosate in una mistura scenica capace di unire la poesia con la vocazione popolare, il mondo lunare e misterioso del teatrino con quello, assai meno affascinante, che ci aspetta al di fuori del teatro. È proprio questa sapiente dosatura di poesia e arte popolare, unita alla raffinata bellezza di ogni dettaglio, di ogni minimo elemento proposto sulla scena, e alla gestione dello spazio e del tempo scenico a trasformare uno spettacolo di burattini in un’opera d’arte al di là di ogni categoria.
Il mastro burattinaio sfonda i confini dello spazio, davanti e dietro, dentro e fuori, in un’ossatura ritmica dello spettacolo che coreografa le parole del dramma e i movimenti delle creature di legno, arrivando anche a irrompere sulla scena per il monologo del re, quando il capocomico, evasi i confini del suo teatrino e seduto in proscenio di tre quarti, indossa una marionetta e un guanto, per “ricordarsi di pensare per i suoi sudditi”. Una presenza inattesa, prosaica eppure ambigua come un sussurro, un momento di estrema intimità con gli spettatori, come a svelare un mistero, un trucco che già dimenticavamo di conoscere.
Tutto nella messa in scena è rapinoso, dai fondali, a volte quasi espressionisti, poche pennellate decise solcate da cromatismi violenti, alle scenografie oltremondane fatte di alberi pallidi, e di nuvole diafane che si illuminano d’oro al variare della luce, alla musica, creata per lo spettacolo da Marco Amadei e Luca Marazzi. Patrizio Dall’Argine, pittore e scultore, riversa tutto il suo talento nella creazione dei burattini. Ogni minuzia conta, e ogni personaggio ha la sua fisicità, i suoi dettagli unici, persino il suo tipo di legno. Alcuni burattini sono mobilissimi con gambe per danzare, la testa dura da sbattere per terra e mascelle per divorare polli arrosto, altri invece sono ieratici, eleganti, apparizioni quasi spettrali dall’anima di legno. Lo scenario abitato dalle marionette amplia la visione, richiamando nel formato lo schermo cinematografico e l’attenzione all’immagine creata è quasi fotografica, con la sua trama di luce e ombre, di colori e offuscamenti. Il lavoro sui movimenti dei personaggi, sul ritmo delle apparizioni, sull’abitare lo spazio scenico è quello di una danza, mentre le voci ci portano dal canto alla risata, dalle domande esistenziali al puro intervento comico. La scrittura scenica, a sua volta, attraversa un caleidoscopio di esperienze e di saperi e alterna lirismo e commedia fino a strizzare l’occhio al teatro contemporaneo come nell’intervallo tra i due atti, quando la presenza interlocutoria e abissale delle due ragazze con una maschera di legno si manifesta davanti al pubblico, mentre una voce fuori campo recita una lezione di tedesco, cedendo solo al nettare di un canto che a un certo punto si leva.
Sul finale, come uno squarcio su un mondo passato, la copertura inferiore del teatrino si solleva e ci rivela gli artisti di questa Baracca, in un momento di riposo dopo aver appeso i burattini ai loro sostegni. Un’immagine a ritroso, che condensa il tempo nell’arco di un instante mentre ci racconta una storia perduta. Il teatrino è finito ma la magia rimane, ed è quella di un’arte complessa, fatta di artigianato e dell’essenza misteriosa della bellezza che il Teatro Medico Ipnotico sa distillare come pochi altri.
Lucia Oliva
GRAZIE, LUCIA