Storie d’un tempo, favole nel presente: seconda istantanea da Segnali

La compagnia Teatro Prova ha aperto la seconda giornata di Segnali al Teatro Verdi con il suo T-REX. Gli amici non si mangiano. Nelle poltrone delle prime file i giovanissimi spettatori, con le giacche a mo’ di cuscino per farsi più alti, sono sprofondati in un religioso silenzio non appena un tirannosauro senza nome, alias Stefano Mecca, è apparso sul palcoscenico per inseguire un piccolo robot telecomandato travestito da animaletto fantastico. Il solitario dinosauro è alla ricerca di un amico, ma il suo stomaco non gli permette di avvicinare nessuno, se non per mangiarselo. Sarà un’aspirante cuoca, Romina Alfieri nei panni del topo Molly, l’unica a riuscire a non farsi divorare da lui, complice una finta formula magica che, al grido “Bubu”, renderebbe la sua carne immangiabile.
Munita di un navigatore satellitare sempre in aggiornamento e di una cucina portatile che racchiude tutte le sue speranze, ammicca al pubblico – di adulti – in una velata critica al mondo d’oggi, perché le favole come il teatro, si sa, parlano sempre del presente. Un presente in cui incontrarsi non è semplice, e lo ha esplicato bene il pianto di un bambino che, dopo aver capito di non essere al cinema ma di fronte ad attori in carne e ossa, si è andato a rifugiare tra le braccia della maestra spaventato dalla possibilità che gli “animali” sul palco scendessero in platea.
Fa da sfondo a questa moderna favola per bambini una giungla surrealista in cui si perde la topolina, alla ricerca di rari ingredienti per creare la torta perfetta, unica possibilità di vincita in un prestigioso contest di cucina. Il confusionario dinosauro e l’ordinatissimo topo sembrano troppo diversi per poter andare d’accordo: Molly, spingendo il suo antagonista ad ascoltare la propria voce interiore, si sente rispondere che la voce “dalle interiora” lui la ascolta spessissimo, ma nonostante le incomprensioni non demorde e troverà infine nel goloso T-REX un alleato indispensabile. Solo il coraggio di chiedere aiuto permetterà al tirannosauro di scoprire l’amicizia e il suo nome, Bubu, come la finta formula magica usata da Molly, e solo la collaborazione renderà possibile creare quella torta perfetta che è dolce simbolo degli ingredienti necessari per un’amicizia. L’improbabile incontro tra Bubu e Molly racconta dell’opportunità di conoscersi se solo si trova la forza di chiedere aiuto, o di prendersi per mano.

Se Amleto avesse avuto il coraggio di parlare e di scoprire le proprie carte non avremmo però mai sentito la sua storia e non potremmo continuare a raccontarla. Il secondo appuntamento della giornata di Segnali, al Teatro Sala Fontana, ha visto in scena Rossella Rapisarda, Andrea Ruberti e Dadde Visconti nelle vesti di tre Orazio contemporanei che da oltre cinquecento anni girano il mondo per tenere vivo il ricordo della tragedia del Principe di Danimarca. L’Amleto degli Eccentrici Dadarò, in prima nazionale, non usa scenografie elaborate: un quadrato nero, sullo sfondo un telo per proiezioni, un paio di bauli, qualche abito di scena. Qui ciò che interessa sono le cause, i motivi di quello che sta accadendo sul palco. Quali sono le motivazioni dei personaggi, perché agiscono in quel modo, cosa giustifica i loro desideri? In una messa in scena che strizza l’occhio alla Commedia dell’Arte i tre guitti protagonisti vestono i panni di tutti i personaggi di una delle storie più raccontate del teatro occidentale, declinandola in domande appartenenti alla nostra quotidianità. In un mondo in cui vendetta, odio, potere e denaro sembrano i principali motivi di ogni azione e scelta, anche di Stato, cosa noi, da spettatori, cittadini, esseri umani riteniamo giusto o, almeno, giustificabile? In nome di cosa ci si può arrogare il diritto di uccidere? Non solo per ragazzi, lo spettacolo cala il sipario chiamando direttamente in causa il pubblico: mentre Albert Camus riteneva ci fosse sempre qualche ragione per uccidere un uomo, gli Eccentrici Dadarò chiedono a noi se siamo in grado di trovarne almeno una. (c.f.)

Il programma del Festival prosegue con Ruote Rosa della compagnia bergamasca Luna e GNAC Teatro. La storia della ciclista Alfonsina Morini Strada, riscritta e firmata nella regia da Carmen Pellegrinelli, diventa l’occasione per illuminare storie dimenticate, tante delle quali raccontano di donne. L’immaginario visivo e il rapporto con l’illustrazione ci aprono le porte della storia immergendoci in un ambiente dal sapore d’antan.
Le interazioni tra attori e immagini create con lavagna luminosa e l’uso di proiezioni, sono una cifra di Luna e GNAC fin dai suoi esordi: la compagnia nasce, infatti, dal guizzo di Michele Eynard, illustratore e fumettista e dall’incontro con Federica Molteni, attrice, che in scena veste i panni di Emma, la sorella maggiore di Alfonsina. Giovane e misurata, Laura Mola è un’Alfonsina tenace e vigorosa, indomita – “la bici è roba per chi dentro alla regole non ci voleva stare, proprio come me”. Il racconto della passione e delle avventure da “eroina” inizia quando Alfonsina per la prima volta, a dieci anni, sale su una bicicletta e si conclude con la gloriosa avventura del Giro d’Italia del 1924 dopo essere riuscita a vincere due Giri di Lombardia, superando scandali e umiliazioni di ogni sorta. La storia della “mangia tortellini” ci agguanta e commuove, non solo per la passione che racconta, ma anche per la possibilità di porci con estrema lucidità dinanzi alla differenza che passa tra l’essere vivi e lo scoprire di esserlo in qualcosa di specifico. Davanti ai nostri occhi viene data vita e corpo a un vero e proprio romanzo di formazione dove l’evoluzione della protagonista è incarnata con grande abilità da Laura Mola che riesce a modulare le diverse intensità e a calibrare il vigore della protagonista senza esserne schiacciata, mettendosi al servizio di una storia e di un personaggio con sensibile consapevolezza artistica.

Di tutt’altra temperatura è il Barba Blu della compagnia franco-italiana Le nuvole nere per la regia di Martina Raccanelli, al primo confronto con una fiaba. La vicenda del sanguinario uxoricida viene musicata e cantata dalle quattro performer (Eva Durif, Marion Lherbeil, Laure Nonique-Desvergnes e Martina Raccanelli nel ruolo della moglie di Barbablù) sulle note, e le parole, di Donna lombarda antico canto popolare e altri canti di tradizione francese. Vocalità, movimento e narrazione si intrecciano creando un immaginario dark ai limiti dell’incubo che attorno a un grande armadio trasforma mondo, immaginazione, incubo e proiezione del vero in un’unica magmatica realtà. La scena, spoglia ed essenziale, viene riempita dal turbine di voci che si rincorrono narrando e musicando la celebre fiaba che, nel suo finale, viene rivisitata: non sono più i due fratelli che irrompono appena in tempo per salvare la sorella più giovane dalle mani di Barbablù ma, lei stessa, in preda alla follia o a una allucinazione, si salva, seguendo le voci delle altre donne morte che la consiglierebbero di gettare la chiave nel lago oscuro che circonda il castello. Un finale aperto a diverse interpretazioni per uno spettacolo che ha scelto un ingresso preciso per indagare un grande classico della letteratura per l’infanzia. (a.d.)

Agnese Doria, Camilla Fava




Viaggiare senza muoversi: prima istantanea dal festival

Segnali compie 27 anni, ma, nonostante la maggiore età acquisita da tempo, invita sempre i più piccoli a teatro per creare un legame duraturo con loro, giovani spettatori che, grazie a uno sguardo ancora bambino, si rivelano spesso il pubblico più ricettivo, critico e sincero.
Educare il giovane pubblico al teatro, “conducendo fuori” da ogni spettatore il suo modo di vedere e percepire ciò che lo circonda portandolo oltre, in una realtà altra, è un compito arduo in una società abituata a ricevere risposte più che a porsi domande, a consegnare immaginari preconfezionati anziché spingere il singolo a crearne di nuovi.
Segnali prosegue il proprio percorso di promozione del teatro per ragazzi in Lombardia, per raccontare un teatro che è prima di tutto luogo d’arte, di scambio e d’incontro.
La storia del Festival affonda le sue radici all’inizio degli anni Novanta, in quel teatro ragazzi che era riuscito a superare la sua fase pionieristica e ad affermarsi come uno degli elementi fondanti della produzione teatrale italiana.
Dal 1990 – anno della prima edizione tenutasi negli spazi dell’Ansaldo di Milano – a oggi, il contesto storico è cambiato ma Segnali continua ad accogliere compagnie nazionali e internazionali rivolgendosi sia al pubblico che agli operatori di settore, con il desiderio di creare momenti di scambio e confronto tra artisti e generazioni.

Il sipario si è aperto sulla XXVII edizione del Festival, sempre attenta a un teatro che sappia parlare anche agli adulti senza dimenticare il mondo dell’infanzia, ribadendo con forza il suo essere forma d’arte capace di raccontare l’essere umano ad altri uomini, nel presente storico in cui avviene. (c.f.)

Una figura dal portamento elegante, scalza, vestita in doppio petto di velluto, parla con un’intonazione distinta, una lingua che non conosciamo, ma di cui afferriamo tutto il senso. Anche la bimba di quattro anni che all’inizio interviene con voce cristallina chiedendo: «Ma che dici?» poco dopo si inabissa nel racconto catturata dal grammelot di Paolo Cardona, autore, attore e scenografo dello spettacolo che, a mo’ di vela per salpare, porta il nome dell’autore de I viaggi di Gulliver. Swift! è il lavoro di SKAPPA! & associès – Teaser, (compagnia italo-francese fondata nel 1998 dallo stesso Paolo Cardona e da Isabelle Hervouët), che ha inaugurato Segnali 2017, ma è anche una parola che torna sul palco e declina il proprio senso di volta in volta, a seconda dell’uso. Viaggiare senza muoversi, avendo però la possibilità di perdersi per ritrovarsi, paiono gli elementi alla base di quest’opera che è stata capace di trasportarci per un’ora dentro un’isola immaginaria, fatta di oggetti riciclati e colorati, un’isola delimitata dalle rotaie circolari su cui naviga una barca a vela, fendendo il mare di bottigliette di plastica vuote.
L’attore si sdraia a terra, il suo profilo viene proiettato sul fondo della scena e sui contorni di questa figura si avvia l’immaginifica costruzione di una metropoli composta da un enorme cumulo di oggetti da discarica, che pian piano assumono nuova vita facendosi torri e grattacieli. Qui i suoni della natura, gli eco degli uccelli e il frinire delle cicale, si alternano a elementi elettronici e sintetici, in un accostamento che seppur stridente non diventa mai minaccioso. Gli oggetti compongono e ricompongono mondi così come si può far esplodere una lingua, masticandola in bocca fino a risemantizzarla e a risputarla diversa.
Il racconto offre diverse sfaccettature e possibilità interpretative, a partire dal continuo sdoppiamento di piani con cui immagini, proiezioni e ombre investono l’attore e l’occhio a tratti smarrito dello spettatore che ha così la possibilità di spaesarsi rimanendo tuttavia sempre agganciato al meccanismo scenico proposto. Swift! combina I viaggi di Gulliver e Peter Pan in un intreccio che potrebbe rimandare anche ai viaggi fantastici e “immobili” di Judith Schalansky e all’interno di queste suggestioni mobili e “morbide”, lo spettatore è condotto, solleticato e sollecitato a crearsi un proprio itinerario di navigazione.

Il protagonista, nel corso dello spettacolo, reclama “Me black”, sorta di suo alter ego o anima, ombra proiettata sul fondo della scena che a un certo punto letteralmente prende vita autonoma e affianca l’attore sul palco. Me black, come nel Peter Pan di Barrie, è motore di azioni e avventure e, soprattutto, non risponde al suo legittimo proprietario, anzi ne rappresenta ulteriori “io possibili”, beffardi e picareschi. L’ombra si perde incarnando così la possibilità di interrogare (e interrogarsi) su quale sia, e soprattutto dove possa collocarsi, la parte più autentica di noi, quella parte così profonda e oscura che a volte capita ci sfugga, confondendosi nell’ambiente. Me black me? Dove vai? è una delle possibili domande che adulti e piccini si portano a casa come eredità di Swift!. L’opera è riuscita a mantenere la difficile china dell’apertura e, dentro a una complessità di rimandi, a rilanciare verso il pubblico la possibilità di intessere il proprio unico spettacolo, dimostrando ancora una volta come il teatro e le sue domande continuino anche dopo la chiusura del sipario. (a.d.)

Agnese Doria, Camilla Fava




Festival Segnali. Intervista a Renata Coluccini e Giuditta Mingucci

Dal 2 al 5 maggio si svolge la XXVII edizioni del Festival Segnali, organizzato dai Centri di Produzione Teatrale Teatro del Buratto e Elsinor. Ospiti di Segnali, che si svolge a Milano al Teatro Verdi e al Teatro Sala Fontana e a Cormano saranno 19 spettacoli tra cui 5 produzioni di Compagnie Lombarde sostenute da NEXT, progetto della Regione Lombardia per la produzione e circuitazione della compagnie del territorio. Un cartellone nutrito e variegato che vuole rivolgersi sia ad addetti ai lavori sia al pubblico cittadino, con 12 debutti nazionali e due ospitalità dall’estero. Oltre agli spettacoli si segnala il convegno Teatro è scuola (mercoledì 3) con i rappresentanti del Mibact e Miur, delle Istituzioni Regionali, delle Università, delle Associazioni di categoria e degli operatori di settore e lo storico appuntamento con la consegna degli EOLO AWARDS organizzati dalla rivista di teatro ragazzi Eolo e dedicati a Manuela Fralleone, premi destinati agli spettacoli e agli artisti che si sono distinti nell’ambito del teatro ragazzi.

Abbiamo incontrato le direttrici artistiche Renata Coluccini e Giuditta Mingucci, chiedendo loro di approfondire alcuni nodi legati a Segnali e in generale alle arti in dialogo con le giovani generazioni.

Segnali è un festival di lungo corso, quali sono le domande che lo nutrono, e come sono cambiate nel tempo?

Renata Coluccini La storia di Segnali è complessa perché il festival nasce innanzitutto come vetrina promossa dalla Regione. Inizialmente, dunque, non era organizzato soltanto da Elsinor e Teatro del Buratto ma anche da altre realtà lombarde. Al di là dell’aspetto di vetrina annuale di produzione, il festival ha sempre voluto rivolgersi a un pubblico ampio pur partendo dalla specificità dello sguardo dei ragazzi. Negli ultimi anni ci sono stati dei ripensamenti strutturali, da un’iniziale sostegno molto forte da parte della Regione, che ha generato tra l’altro un’apertura internazionale del festival, siamo passati a un periodo in cui Elsinor e Teatro del Buratto sono state le sole realtà organizzative. Quest’anno annunciamo il ritorno del sostegno della Regione che si concretizza nel progetto Next – Laboratorio delle idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo, un’iniziativa che si rivolge a un pubblico di adulti ma ospita la parte relativa al settore ragazzi all’interno di Segnali. Pensiamo dunque di poter rimarcare una certa solidità del festival, anche durante i tempi di “crisi”, ottenuta anche grazie al completo appoggio delle compagnie che vi hanno di volta in volta partecipato.

Giuditta Mingucci Nell’edizione che sta per iniziare sperimentiamo una spiccata apertura verso la città, parte di un generale ampliamento e maturazione del festival. Accennavamo prima alla questione del tout public, il nostro volerci rivolgere a tutti: quella del “teatro ragazzi” è una definizione che rischia di chiudere, invece è necessario ribadire come sia una forma d’arte potenzialmente fruibile da qualsiasi tipo di spettatore. Ovviamente i ragazzi rimangono i referenti principali, ma resta “teatro”, dunque una proposta fruibile da diverse collettività; assistere a una replica di teatro ragazzi costituisce un prezioso momento di scambio all’interno delle famiglie o nuclei che si presentano in sala con i bambini, ma anche fra le diverse famiglie. Quella che avviene a teatro è una relazione che accade in ambito artistico e culturale, non in un centro commerciale, luogo di incontro che rischia ormai di restare l’unico per le famiglie, a Milano come altrove.

R. C. Per noi il teatro ragazzi deve essere innanzitutto un atto d’arte con una dimensione educativa. Ne rifuggiamo però una concezione esclusivamente didattica e divulgativa, che sfocia spesso in un atteggiamento didascalico (concezione che a volte viene applicata al teatro in generale). Esiste cioè una sorta di “plusvalore” del teatro ragazzi: si tratta di avere una chiara consapevolezza rispetto al pubblico ma cercando anche gli strumenti per parlare a tutti, di modo che lo spettacolo possa diventare un momento d’arte e, come tale, di comunità e condivisione.

G. M. Il festival non è un luogo in cui gli spettatori sono passivi e gli artisti semplicemente espongono ciò che hanno creato, ma vorrebbe porsi come occasione di un confronto reale, affinché oltre agli strumenti di crescita ed educazione che noi adulti offriamo ai ragazzi si creino le condizioni per capire cosa possiamo imparare noi dai giovanissimi.

R.C. I concetti che sono tornati più spesso nei nostri discorsi sono “responsabilità”, “verità” e “onestà”: parole d’ordine che vediamo come centrali per chi si occupa di teatro ragazzi oggi.

 

In cosa consiste la particolarità dei ragazzi a teatro e in che modo tale particolarità può essere “trascesa” in vista di quell’allargamento a un pubblico più ampio cui fate riferimento?

R. C. Diciamo che ogni operazione di creazione teatrale ha di fronte a sé un pubblico, ideale o reale. Nel nostro caso si tratta di un tipo molto concreto di spettatore e questo implica che non ci si può adagiare su preconcetti o astrazioni, a maggior ragione se pensiamo al fatto che siamo immersi in un’epoca di cambiamenti sociali velocissimi e costanti. È come se per ciascuno spettacolo, al di là ovviamente della professionalità raggiunta, partisse una scommessa inedita perché il pubblico a cui ci rivolgiamo cambia senza sosta. Il teatro ragazzi non ti può far invecchiare, ti costringe a un movimento incessante e non ti consente mai di dire: «Ho acquisito il mio linguaggio e il mio stile e ora lo posso riproporre». Oltre a variare gli spettatori poi variano anche le persone che si occupano dell’infanzia e della cultura in generale con cui devi fare i conti, variano le idee dunque… Non a caso il teatro ragazzi agli inizi si trovava in stretta prossimità col teatro di ricerca. Il teatro ragazzi è o dovrebbe essere ricerca, una ricerca che non può avere fine.

G. M. I ragazzi sono un pubblico particolare perché non hanno alcuna ragione per starti a sentire se non il loro sincero interesse. È dunque un tipo di pubblico estremamente onesto e, proprio per questo, per certi versi difficile. Reagisce molto, magari negativamente, ma riesce a dare tantissimo a chi sta in scena. Ed è molto curioso. Capita a volte che gli adulti vengano a complimentarsi dopo uno spettacolo. I ragazzi invece non ne sentono il bisogno perché sanno di averlo già fatto ampiamente in sala, percepiscono di essere in un contatto molto stretto con gli artisti. Io credo che in questo momento storico la condivisione con i ragazzi sia fondamentale per recuperare il loro sguardo sulla realtà. Un modo di vedere le cose più ingenuo, meno influenzato dall’esperienza, dunque più “pulito” ma anche più “creativo” perché non guidato da sovrastrutture. La condivisione di uno spettacolo fra generazioni diverse diventa allora un momento speciale proprio per questa disomogeneità di esperienze che dà impulsi e spunti ulteriori a tutti.

R. C. Qui torna il concetto del teatro come comunità in cui la diversità riesce a farsi “valore di confronto”. Entrando un po’ nello specifico del programma del festival, abbiamo invitato spettacoli per tutte le fasce di età che comunemente rientrano nella definizione di teatro ragazzi. Siamo riusciti ad abbassare la “soglia di partenza” rivolgendoci anche ai bebè, poi ci sono ovviamente offerte per le altre fasce dei piccolissimi, degli “intermedi” e degli adolescenti.

 

Vista la sua fisionomia, il teatro ragazzi può costituire un’occasione di dialogo intergenerazionale per affrontare le tematiche sociali più complesse. Va “salvaguardato”, protetto, il pubblico di ragazzi e bambini o gli si può mostrare tutto?

G. M. La riflessione sui temi, in particolare quelli considerati socialmente dei tabù, riguarda il teatro ragazzi a livello mondiale. L’Assitej (International Association of Theatre for Children and Young People) negli ultimi anni ha dedicato differenti attività proprio a questo discorso. In generale la risposta è sì, con i ragazzi si può affrontare qualsiasi tematica, chiaramente è necessario trovare le modalità giuste per farlo.

R. C. In questo momento c’è anche da pensare a quanto certi argomenti possano “fare mercato” e attirare un certo tipo di attenzione. Ad ogni modo, è vero: ci sono temi difficilissimi da affrontare con i più piccoli, come la morte, generalmente però non sono i bambini a scappare, ma gli adulti che li accompagnano.

Che tipo di ragionamento e di azioni può mettere in atto una struttura teatrale perché si instaurino relazioni virtuose con chi si occupa della mediazione, con la scuola, le famiglie?

R.C. Il problema oggi non è semplice. Fra l’altro la scuola in alcuni casi subisce le pressioni delle famiglie, può accadere per esempio quando un insegnante fa una scelta rischiosa. Proprio per questo bisogna insistere ancor di più sia nel riprendere un dialogo realmente diverso con la scuola – e io credo sia una necessità condivisa da entrambe le parti – sia nel ripensare i momenti d’incontro che riuniscono questo pubblico eterogeneo, come le repliche domenicali per le famiglie. Non possiamo banalizzare, a volte accusiamo di cecità gli insegnanti perché decidono di non prendere alcuni spettacoli, senza considerare che loro subiscono diverse pressioni o operano scelte legate alle necessità didattiche. È anche vero, però, che secondo me questi sono tempi in cui è urgente riaffrontare certi temi, riparlare di educazione, e non didattica, di responsabilità e di etica (altra parola che mi piacerebbe tornasse nel vocabolario). Educazione al teatro e all’andare a teatro, perché a volte s’è persa anche quella. C’è molto lavoro da fare.

G.M. Il discorso sulla mediazione credo debba tener conto anche di come è strutturato il teatro ragazzi in Italia. Confrontandoci con alcune esperienze europee ci stiamo accorgendo che diversi tentativi vanno nella direzione di sollecitare, soprattutto negli adolescenti, l’attivazione di relazioni autonome con il teatro, e quindi di lasciarli liberi di scegliere cosa vedere. Questo anche perché vengono fatte loro proposte che possono cogliere in autonomia, non legate all’orario scolastico, per esempio, ma a momenti in cui possono muoversi da soli, così come del resto accade per il normale teatro di prosa. Certe questioni riguardano da vicino la struttura che si occupa della proposta e potrebbero essere un’occasione per ripensare approcci, strategie diverse. Con questo festival, sia in fase di programmazione che di promozione, in qualche modo ci abbiamo provato. L’apertura alla città, la scelta di non rivolgere l’invito solo agli operatori cercando il contatto diretto con il pubblico di riferimento, vanno in questa direzione.

 

Siamo giornalmente esposti a forme di intrattenimento culturale fondate sulla velocità di trasmissione e di fruizione. Come può il teatro tener conto di questi ritmi, entrarvi in relazione?

G.M. Credo che il teatro abbia tutto l’interesse e il desiderio di dialogare con questa dimensione. Poi può trovare le forme più diverse per includerla o meno. Senz’altro, però, il teatro ha come specificità il qui e ora, quindi l’incontro; è un gioco che si fa tra attori e pubblico, una parte attiva, anche se con minori responsabilità. Nel qui e ora si dà la possibilità di confrontarsi con questa domanda, che non è detto interessi tutti gli artisti come tematica o strumento (penso all’uso della tecnologia, che è innanzitutto un grande strumento).

R.C. Rispetto ai cambiamenti delle modalità di fruizione secondo me si tratta di questioni di cui chi fa teatro, per necessità, sta tenendo conto. In realtà non mi sembra sia un problema perché il discorso può essere integrato in maniera organica nelle domande che, da artisti, ci poniamo riguardo il linguaggio da usare. C’è una cosa comunque che vorrei dire: chi fa teatro ragazzi, a mio parere, deve partire da un’urgenza comunicativa che a sua volta rispecchi la dimensione comunicativa del pubblico dei ragazzi. È necessario sapere quali sono le istanze che li fanno vibrare, e cercare di “lavorarle” sia sul piano contenutistico che linguistico.

Come fa questa urgenza comunicativa, che quindi si tramuta in linguaggio pensato per i più piccoli, a non lasciare fuori e “funzionare” anche per gli adulti che accompagnano i ragazzi a teatro?

G. M. In generale possiamo dire che il linguaggio funziona se l’adulto ha a che fare quotidianamente con i ragazzi; poi ovviamente può succedere che il lavoro vada a segno sui ragazzi e non sugli adulti, ma questo evidenzia una differenza generazionale e personale.
Il rischio ci può essere ma allo stesso tempo è un’occasione per interrogarsi: portare il proprio figlio o i propri alunni a vedere qualcosa che entusiasma i giovanissimi ma non gli adulti può rappresentare l’apertura di un dialogo sulle ragioni che portano le due generazioni a sentire qualcosa vicino o distante. Inoltre gli spettacoli vengono costruiti su più livelli: basti guardare per esempio ai film di animazione che sembrano pensati per i bambini e di fatto sono rivolti agli adulti che li accompagnano… ma pensiamo anche al teatro greco in cui la commedia presentava diversi livelli di lettura andando dalla comicità più popolare a quella ideata per un pubblico dotato di una comprensione più raffinata.

 


Riannodando un po’ i fili della conversazione, e senza pretendere di essere esaustivi, vorremmo chiedervi se secondo voi sono ravvisabili delle tendenze estetiche e poetiche negli ultimi anni…

G. M. Sicuramente ce ne sono – penso al tipo di interpretazione, per esempio – ma non è una domanda facile a cui rispondere; da un lato faccio fatica, dall’altro non vorrei proprio rispondere per non ingabbiare alcune specificità che si trovano nel teatro ragazzi italiano che ha anime diverse…

R.C. Per esempio un fattore comune può essere rappresentato dall’utilizzo delle nuove tecnologie… Ma per aggiungere altro ci devo pensare almeno 2 o 3 giorni! (ride, ndr).
Quest’anno facendo le scelte artistiche mi sono posta diverse domande a cui non ho ancora dato delle risposte; preferirei coltivarle ancora un po’. A volte si scelgono gli spettacoli dicendo: «Questo è per il festival, questo no anche se…». A mio parere il teatro ragazzi è andato avanti per anni senza porsi troppe domande ed è arrivato il momento in cui tutti torniamo a porcele, in maniera profonda. È necessario coinvolgere altri sguardi e persone che mettano in discussione il sistema, perché il rischio è diventare una famiglia in cui tutti si conoscono, dando per scontate alcune cose, impedendoci di mantenere uno sguardo aperto.

G. M. In questo momento, generazioni diverse abitano il teatro ragazzi, lo portano avanti e vi si confrontano. È un momento di grande apertura rispetto all’estero, è in atto un confronto anche con quanto accade in altri Paesi che sta portando a interrogarci sul nostro stesso modo di operare, manifestando altre possibilità. È una sfida che riguarda più settori, non solo il nostro.
R.C. Spostare lo sguardo per tornare al proprio punto di vista o per andare altrove è fondamentale. Io faccio parte della “vecchia guardia” del teatro ragazzi e posso dire che nei primi anni si avvertiva ed era in atto un confronto che è andato via via sparendo, lasciando spazio alle esigenze del mercato, alle urgenze più aziendali che artistiche…

G. M. Quando poi si trova un linguaggio comune o dei punti su cui ci si intende, ci si ritrova a darli per scontati…

R.C. Una delle mancanze di una certa generazione è non aver tramandato la storia di quello che è accaduto. Le conoscenze, gli stili, i modi, le visioni sono state trasmesse solo in minima parte alle generazioni successive.

G. M. Le generazioni successive servono a fare delle domande! A mettere in crisi le cose.

 

A cura di Francesca Bini, Francesco Brusa, Carlotta Tringali