“La parabola dell’animazione teatrale” di Piergiorgio Giacchè

Ripubblichiamo in questa sezione materiali, spunti, interviste già edite altrove in passato ma che ci paiono ancora utili per una discussione sulle forme del teatro che dialoga con diverse generazioni.
A seguire un saggio di Piergiorgio Giacchè, rivolto ai prodromi e ai movimenti dell’animazione teatrale, tratto da
Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte (a cura di Debora Pietrobono e Rodolfo Sacchettini, Edizioni dell’asino, 2011). “La parabola dell’animazione teatrale” rientra fra gli interventi di artisti, studiosi, critici e operatori (fra gli altri: Maurizio Braucci, Vittorio Giacopini, Franco Lorenzoni, Giuliano Scabia, Virgilio Sieni, Emanuele Valenti) raccolti nel testo in seguito al convegno “Teatro e infanzia”, promosso da Goffredo Fofi e Marco Martinelli, e organizzato nel 2009 a Scampia da Punta Corsara. Un insieme di riflessioni teorico-pratiche e un’istantanea necessaria su alcune esperienze artistiche di rilievo, “con” e “per” i ragazzi, incentrate sul rapporto tra teatro e processi educativi.

 

0.
Chi non ha mai fatto l’animatore, scagli la prima pietra. Non c’è educatore, insegnante o perfino genitore che nel sociale, nella scuola o appena in famiglia non sia stato convertito o contaminato dall’animazione artistica e spettacolare. Sono decenni che l’animazione è diventata l’integratore dell’intrattenimento sociale e il redentore dell’educazione infantile e adolescenziale, per due motivi: uno vecchio come la scuola e riassumibile nel motto Delectando discitur e uno nuovo come la società dei consumi che, dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, è passata dall’abbondanza alla creatività. L’animazione ha combinato e riassunto in sé il tempo della ricreazione e il modo della creazione, diventando la parola d’ordine e l’attività di disordine di tutto il processo educativo. Ancora oggi si valuta più l’inventiva che la competenza quando si parla di insegnanti; ancora oggi si crede più nella (immediata) liberazione che nella (faticata) libertà quando si parla di studenti. Ancora e soprattutto oggi ci sono animatori in ogni reparto del nostro immenso paese dei balocchi, sia pure ridotti a commessi del giocare per forza e del creare per finta. In particolare, l’animazione teatrale è sfuggita presto di mano ai suoi coraggiosi inventori e si è dichiarata – da tutti e per tutti – una facile scoperta.

1.
C’era una volta l’animazione teatrale, e da qualche parte magari c’è ancora. La sua breve storia teatrale è stata oscurata dalla sua geografia sociale. Oggi è un servizio esteso e invadente, ieri era un’esigenza artistica precisa e importante. La trasformazione – o il tradimento – a seconda dei punti di vista – è stata segnalata in tempo, ma la cultura di massa e la società democratica non hanno raccolto né l’allarme né tanto meno la scomunica [1]; anzi, non vedevano l’ora che l’arte si facesse da parte per poter disporre di un nuovo fattore e di un nuovo settore del proprio mercato, pardon “progetto”.
Invece la prima animazione aveva ambizioni e faceva rivoluzioni di una certa importanza, almeno per quelli che facevano o che fruivano teatro, e sarebbe bene ricordarne – sia pure in sintesi – il senso o forse i due sensi in cui si è spesa e da cui ha tratto qualche guadagno.
Io ero l’albero e tu il cavallo, si intitolava un libro di Franco Passatore. Io sono il cavallo, Marco Cavallo, rispondeva Giuliano Scabia [2].
La prima stagione dell’animazione teatrale ha esplorato da subito due vie: una si è coniugata con il gioco e si è immersa nell’isola dell’infanzia, l’altra si è combinata con il rito e si è mossa verso il continente degli adulti. Erano anni in cui la pedagogia e l’antropologia erano due dimensioni rinnovate o ritrovate, due discipline quasi coincidenti e nemmeno divise per classi d’età.
L’animazione teatrale – è bene ricordarlo e rivendicarlo – non è nata come un trucco per la sopravvivenza del teatro o come una trovata per piazzare spettacoli semplici e artisti deboli. È stata invece il prodotto esuberante e il processo di conquista di un teatro in grande stato di salute, che credeva di potersi sviluppare e di doversi proiettare negli atti e nei fatti della vita sociale.
C’è stato un momento in cui il teatro era diventato importante non solo per quei vertici di teoria e di regia che sono giustamente ricordati come i maestri, ma anche per la proliferazione e la generosità di quei “gruppi di base”, che insieme facevano “la somma degli attori”: attori intenti a riprodursi prima che a produrre, e attenti più al processo artistico che al prodotto spettacolare, più alla cultura teatrale da rifondare, da sviluppare, da diffondere che alla società del teatro così com’era ancora concepita e istituzionalizzata (e come è ancora adesso). Il teatro – quel teatro “terzo” che per un periodo non è stato secondo a nessuno [3] – si sentiva dunque così forte, nella sua povertà e nella sua differenza, da esplorare altri spazi e conquistare altri tempi. Intanto, gli spazi allora canonici e politici della scuola, fabbrica, quartiere, ma poi anche gli spazi dimenticati delle campagne e delle montagne e quelli vietati dei manicomi e delle prigioni… E quindi i tempi arretrati delle tradizioni o appena dei loro ricordi, ma poi anche i ritmi feriali di una quotidianità nevrotica ma insoddisfatta. E ancora e di più, i tempi negati delle condizioni più emarginate e sofferenti.
L’animazione teatrale non avrà fatto gran che, ma in quella prima stagione ha promosso il tempo festivo e lo spazio liberato dove e quando e per quanto gli è stato possibile. E – bisogna ricordare e sottolineare – sempre di arte del teatro si trattava, e non del suo uso strumentale o della sua funzione sociale [4]. L’essere strumento era semmai la sua premessa motivazionale, e guadagnare una funzione appena la sua ricaduta. Ma in mezzo e nel profondo c’era la cultura e l’arte teatrale con il suo senso (liberatorio) o il suo non senso (provocatorio): il suo linguaggio da alimentare e da sperimentare, e il suo coraggio di rischiare… Per una posta in gioco che era perfezionare il suo gioco e far proliferare il suo rito (in altri termini, la sua Finzione e la sua Relazione), e – quando si trattava di un buon teatro e di una buona animazione – l’obiettivo del gioco e del rito era la sua arte. Non la sua parte.

2.
Se si considera in tutta la sua ampiezza ed esuberanza, si può leggere quel momento o quel movimento di “animazione” – con la sua specializzazione pedagogica e attenzione antropologica – più che attraverso il segno che ha lasciato nel rapporto con l’infanzia e con la scuola (il “teatro ragazzi” nasce allora e poi magari cresce troppo), come il sogno di una ritrovata “infanzia del teatro”: infanzia segnata anche da una letterale perdita della parola a vantaggio del suono e del gesto [5], ma infine caratterizzata da una forte corrispondenza fra la illimitata esportazione del gioco del teatro e la sostanziale importazione di progetti e soggetti sociali a vantaggio dell’arte del teatro. Non si è trattato infatti solo di conquista di luoghi insoliti ma anche di modi finora estranei alla cultura teatrale, attraverso molte “spedizioni antropologiche” degli esploratori del teatro verso gli indigeni del sociale (i bambini in prima fila, ma non solo i bambini).
L’animazione ha avuto un doppio risultato: non solo quello relativo all’intervento teatrale proiettato all’esterno, ma anche quello di una altrettanto importante ri-animazione interna al teatro stesso. Nella gratuità e nella liminarità dell’animazione si sono potute scomporre e ricomporre le componenti dell’arte scenica, non solo con obiettivi funzionali ma anche con effetti rigeneratori. Ci si è aperti cioè a contaminazioni con le forme e le sfide di altre arti e linguaggi, situando il teatro al centro di una piattaforma performativa più ampia e più ricca. Il teatro e il suo attore – o “animatore” – si è esposto e proposto al centro delle varie forme espressive, in qualche modo “teatralizzandole”: dalla musica alle arti plastiche e visive, dalla poesia alla letteratura orale… Si può dire allora – per fare un esempio – che la rinascita e il successo degli attori-narratori è una delle eredità indirette dell’animazione; così come si può dire che, prima ancora dello sviluppo abnorme del teatro-ragazzi, l’animazione ha stimolato il recupero di stili oratori e oratoriali, di forme fiabesche e circensi, di oggetti e di corpi e di animali e di piante che da allora abitano ormai la scena – ogni scena – e la aprono a tutto quello che si può rapire e trasferire dal “teatro del mondo” al “mondo del teatro”.
Infine – anche per via e per merito dell’animazione – si è scoperto un pubblico più vasto, non solo come quantità ma come qualità e provenienza; un pubblico contattato e quindi catturato più attraverso il fare che il vedere teatro, un pubblico spesso battezzato da primitive esperienze sceniche e quindi cresimato come complice, e come ospite, e infine come parente. In effetti – come si sa – negli anni e per via degli atti della prima animazione, il “fare teatro” è diventato più diffuso e più importante del “vedere teatro”, e questo cambiamento ha allevato molti attori e rieducato molti spettatori. Anche se ha finito poi per eccitare fin troppi “assessori”, che – come si sa – non sono stati estranei al suo eccessivo sfruttamento e definitivo mutamento…

3.
Se si guarda – per  una volta – al pulviscolo delle presenze attive e delle iniziative diffuse che costituiscono la nebulosa del teatro e – soltanto dopo – si considerano le stelle di prima grandezza artistica, ci si può accorgere di come il “teatro antropologico e pedagogico” di trent’anni fa, sia rapidamente passato da fermento artistico a fenomeno sociologico per non dire politico, con conseguenze imponenti sia per la vita sociale che per la sopravvivenza teatrale.
In sintesi bruciante e in modo approssimato si può riassumere questo capitolo della sua “capitolazione” – se così si può chiamare il passaggio dal senso alla funzione. Il teatro di base e quindi di ricerca e infine di sperimentazione è un fenomeno troppo vasto e vario per essere contenuto in una sola parabola. E però si può disegnare una linea generale, che magari non spiega quasi nulla ma che riguarda quasi tutti i gruppi teatrali nati negli anni settanta e ottanta e vivi ancora oggi: le “isole galleggianti” (per usare la metafora e la ricetta di Eugenio Barba) che avevano attivato il loro commercio teatrale con la terra ferma del sociale [6], usando le regole primitive dello scambio reciproco ovvero del dono (donare animazione al sociale per ottenere spazi e fondi utili alla sperimentazione teatrale), si sono trasformate – prima – in penisole di un’attività festiva e di consumo saldamente ancorata all’istituzionalizzazione dell’effimero (leggi: assessorati alla cultura). Ed hanno finito – poi – per sistemarsi fra i settori di un’attività feriale e di servizio che ancora oggi assicurano la sacrosanta sopravvivenza a centinaia di attori che di giorno fanno gli operatori e di notte gli artisti, dividendosi a metà fra la parte e l’arte. Così, fra la funzione da vendere e il senso da acquistare è nato un difficile equilibrio; e fra gli atti di vita artistica e i fatti della sopravvivenza degli artisti è sorta una certa contraddizione.
Niente di male, anzi un po’ di squilibrio e di contraddizione non guasta affatto il teatro: lo mette in condizioni di toccare terra e darsi una ragione, ma al contempo lo può spingere verso l’urgenza di sragionare in modo diverso e di poter guardare al cielo. Niente di male, soprattutto per tutti quelli che man mano perdevano la voglia o non avevano il talento per dare scalate o occhiate al cielo: comunque sia, il diffuso e confuso “teatro servizio” non è un “peccato”, ma anzi introduce una selezione benefica e una stratificazione necessaria, che mantiene un humus fertile indispensabile all’ecologia del teatro e all’agricoltura della sua arte…
E il teatro e l’arte – come si sa – si sviluppano meglio in un terreno abitato e lavorato: ognuno in effetti può vedere (e dovrebbe aver già visto) che è nelle zone geografiche e nei momenti storici di maggior densità teatrale che nascono proposte spettacolari e ricerche estetiche più alte (sia da parte degli attori che da parte degli spettatori, anzi di sempre nuovi attori e nuovi spettatori).
Tutto sta ad essere consapevoli della situazione, tutto sta a saper sfruttare lo squilibrio e saper scegliere dentro la contraddizione, a vantaggio del senso (teatrale) e non della funzione (sociale).
E allora quasi tutto sta su chi tiene il problema politico per il manico, altrimenti il tema poetico può avere un brutto svolgimento.

4.
Restando al teatro (ma davvero si potrebbe allargare il campo e lo sguardo a tutte le attività culturali) i personaggi e gli interpreti del dramma di una “politica culturale”, da allora in continua espansione e in altrettanto continuo svuotamento, sono due: l’attore e l’assessore. Direi anzi che l’attore è stato quasi sempre l’affannoso interprete di un personaggio politico e amministrativo fin troppo dominante. Ormai, il “regista” degli eventi, il costruttore dei “contenitori”, il promotore e il direttore delle arti e degli spettacoli è il Politico di turno, peraltro sempre meno attento al sociale e sempre più intento all’elettorale. Ma, perversioni a parte, il fatto è che il rapporto tra assessore e attore è stato fin da subito male impostato, e non poteva che portare a una forma di pesante subalternità, in definitiva suicida per la cultura e in fondo anche per la politica.
Fra attore e assessore (come fra animatore e preside, tra operatore e organizzatore…) non si dovrebbe mai porre una questione di potere ma di sapere. Sul piano del potere l’artista non ha voce e la contesa non ha storia. Su quello del sapere invece, le competenze si dividono e i ruoli possono anche stratificarsi in modo “rivoluzionario”, dando al Cesare di turno soltanto quello che gli compete e all’Io di chi propone e si espone una quota non indifferente di autorità (e di responsabilità). In breve, il saper fare dell’artista deve mantenere la sua autonomia e rivendicare una sua preminenza, altrimenti lo squilibrio e la contraddizione non sono più agibili né visibili. E l’enigma complesso del teatro – della sua organicità e gratuità e relazionalità – finisce per degenerare in un equivoco.
Quale equivoco? Quello di un teatro “applicato” e spesso “smembrato” (in dizioni e lezioni, traduzioni e drammatizzazioni, addestramenti e abbellimenti, volta a volta orientati a soddisfare i più diversi clienti e obiettivi), che può giustamente essere meglio amministrato da un assessore che non da un attore, meglio da un preside che da un animatore…, più consapevoli e veri responsabili del servizio culturale e sociale a cui molti teatri si iscrivono e al quale tutto il teatro finge di (e finisce per) sottomettersi. In effetti, rivendicare una funzione e contribuire a un servizio è di vitale importanza per i teatranti (se non per il teatro), e tuttavia non è mai artisticamente conveniente (ma solo politicamente convincente) ridurre l’autonomia della cultura teatrale o nascondere (e nascondersi) la questione prioritaria del senso o del non-senso del teatro.
E però così è andata, se si guarda al seguito della annosa parabola dell’animazione: sempre più in crescita quantitativa come servizio (soprattutto scolastico), e in calo qualitativo come sfida (soprattutto sociale). Anche il più agguerrito “teatro sociale” (recentemente ribattezzato) non riesce più a rovesciare la frittata del potere dalla parte del sapere. Si spende in sacrosante manovre difensive, ma continua a scontare lo scarto fra la sua esplicita e inevitabile integrazione, e l’implicito e spesso inconfessato valore della sua provocazione [7].
Forse era tutta qui la forza dell’animazione negli anni della sua prima e bella stagione: lo stato di salute del teatro lo si misura anche e soprattutto sulla sua capacità di inserirsi nel sociale come contraddizione, e perfino come contrapposizione.

5.
Intanto però, a tutt’oggi – limitando l’osservazione al rapporto tra teatro e scuola – si può dire che il consolidamento dell’animazione procede, ma in modo inversamente proporzionale alla sua incisività. In ogni scuola di ogni ordine e grado gli animatori teatrali sono più numerosi e forse meno precari dei supplenti. Anche se si giocano ogni anno il loro “contratto” nel saggio di fine d’anno obbligatorio e consolatorio: uno spettacolo superaffollato sia in scena che in platea cui è affidato il compito di realizzare quella quadratura del cerchio fra diritto al gioco e dovere dello studio di antica tradizione.
Sono ancora frequenti nei palcoscenici scolastici le tragedie greche o le commedie in inglese, ma sempre più spesso si tratta di libere composizioni o ardite interpretazioni di temi – più che di testi – che una faticosa drammaturgia-coreografia deve mettere in bella, perché sia insieme la mostra e la festa della scuola. Ma non sono questi i tempi di gloriose tradizioni ma di stantie abitudini, e il teatro della scuola più insiste e meno resiste alla concorrenza, più si consolida e meno risponde all’esigenza della novità; si vuol dire che sta invecchiando come proposta espressiva verso gli studenti, e che sta scadendo come portatore dell’immagine di una scuola sempre all’arrembaggio dell’aggiornamento. Le sue qualità funzionali di ausilio didattico e di effetto terapeutico e di corroborante della sociabilità sono ancora indiscusse e però sono già “scadute”, come avviene per un vecchio prodotto, un vecchio consumo [8].
Così inevitabilmente e inesorabilmente, la diversità e la disobbedienza, la libertà e la provocazione del teatro fatto dai ragazzi non è più un valore, e nemmeno un colore. Parlo della sua “immagine” nel mercato del servizio, e non della sua effettiva sostanza ed efficacia. Parlo di come se ne parla (o non se ne parla più), guardando al fenomeno del teatro a scuola su vasta scala, del suo generale impianto sociologico e del suo generico impatto culturale. In questo giudizio o in questo destino non sono e non si sentiranno coinvolte le esperienze di punta (corsara e non), o le realtà artistiche più alte e più solide. Ma chi crede di sentirsi lontano e diverso da ciò che succede nell’humus, ovvero nello strato ecologico più basso del pianeta teatrale, sbaglia. E sbaglia due volte.
Primo, perché la valutazione del teatro nell’attuale cultura politica e politica culturale è influenzata più dalle iniziative diffuse e confuse che non dalle poche esperienze di riconosciuto valore o di accertato successo. Secondo, perchè non è affatto vero che, nelle infinite realtà minori dell’animazione scolastica, manchino idee ed energie significative; e non è vero che i loro esperimenti spettacolari ed elaborazioni culturali siano di nessun conto o di nessun effetto. Molti animatori e attori continuano a lavorare nelle scuole con la massima serietà e con la massima fantasia, senza disattendere al compito di contribuire – anch’essi – alla ricerca di senso dell’arte scenica, sia pure dimensionato e orientato verso gli attori “in erba” e gli spettatori “per caso” del teatro scolastico.
E fra gli attori e gli spettatori di questo vivaio, alcuni si staranno già mettendo alla ricerca del teatro di domani; e prima o poi anche loro cominceranno a fare i conti con la funzione da vendere, magari nascondendosi il tema del senso da acquistare…
Ma non è detto che sia inevitabile. E dunque non va detto.

6.
Vada come vada, è comunque sul senso del teatro che si dovrebbe tornare a fare movimento e opinione. A fare cioè resistenza e disobbedienza, per rimettere al centro dell’attenzione la contraddizione o almeno la competizione fra il “sapere” e il “potere”. Ma chi può davvero permettersi di riequilibrare il rapporto tra senso e funzione del teatro, tra sapere e potere, tra fare e vendere arte e cultura?
Prima di tutto gli spettatori-critici. È inutile che ci nascondiamo le responsabilità di quei pochi spettatori che si occupano e si preoccupano del teatro, che hanno domande aperte e un rispetto fiducioso verso gli artisti. Sono (o siamo) pochi, e circondati da un pubblico e da un politico che non si deve mediare ma contrastare. E l’assessore – almeno qui da noi – è infine la figura che suo malgrado incarna di buon grado il “politico pubblico” e il “pubblico politico”. Bisogna smettere di credersi intercessori delle grazie politiche e dei fondi pubblici, scribacchiando lodi e segnalando premi qua e là. Sia verso il pubblico che verso il politico (a cominciare dall’assessore ma a finire con l’abbonato), è un altro l’atteggiamento critico efficace e non più rinviabile: “Colpirli tutti per educarne anche solo uno”, è il compito attuale del critico, che deve finirla di ritenersi un recensore ormai senza lettori e senza valori.
Il teatro è aperto a tutti ma non è di tutti: non tutti partecipano alla sua relazione ma appena al suo consumo. Lo “spettatore teatrale” deve essere invece partecipante e infine parente – anche terribile – di chi il teatro lo fa: non è l’arbitro del gusto o il giudice del successo ma la controparte di un’arte dalla quale deve trarre profitto, interesse, guadagno culturale. Per questo ha il diritto dovere di fischiare o di applaudire, ma per davvero: per esempio applaudire non come si fa ai funerali, ma come non si fa mai alle nascite!
Poi, ma certamente più importanti degli spettatori e dei critici, devono e possono fare resistenza e disobbedienza gli attori e i registi della ricerca del teatro (più che del teatro di ricerca), i quali non sono le “avanguardie artistiche” ma quelle davvero “politiche” del mondo teatrale.
Non fraintendiamo. la politica del teatro è una poetica, anzi molte poetiche purché consolidate ed efficaci: consolidate nella loro inquieta direzione di ricerca ed efficaci per quanta inquieta riflessione riescono a stimolare negli spettatori. Si potrebbe dire gli artisti “bravi”, ma è meglio dire “buoni” e, se e quando ci riescono, “belli”. Si dovrebbe però precisare – per evitare l’equivoco di un giudizio di valore – “quegli artisti che sanno di avere o di essere un teatro affermato”, nel senso di riconosciuto dagli altri e per se stesso. O meglio: quelli che si trovano – per avventura e per scelta – in una posizione di forza provvisoria ma di libertà stabile. Teatranti liberi stabili: non tutti gli artisti della scena sono liberi di stabilizzare la propria domanda di senso – e forse questa della libertà è una definizione di genere migliore di sperimentazione, innovazione, ricerca, avanguardia, eccetera…

7.
Ma cos’è questo misterioso senso del teatro? È appunto il suo mistero.
Il senso del teatro non sta tanto nel suo trucco (artigianale) o nel suo segreto (sapienziale), ma nell’esigenza e nella possibilità – che non è di tutti i teatri – di sfiorare e sfidare il suo mistero: qualcosa di semplice a dispetto della parola, poiché è insieme ovvio e misterioso il suo stesso desiderio o bisogno di rappresentare altro e di incontrare l’altro. A partire dal più banale e immediato ‘altro’ – quello del personaggio da interpretare e quello dello spettatore da coinvolgere – fino al più difficile e confuso ‘altro’ che è infine la dimensione avvolgente e incombente della sacralità.
In parole povere e davvero laiche, anche per il teatro e nel teatro vale quella relazione con il sacro che è da sempre la miniera che attrae le sonde conoscitive e le danze performative dell’arte (come anche della religione, della magia, della follia…). Quell’alterità intima e insieme quell’alterità verticale (alta o profonda, tragica o comica… è lo stesso) verso la quale il teatro muove le sue finzioni e fabbrica le sue illusioni, inseguendo ma insieme irridendo il suo mistero. Nella libertà e nell’obbligo di consistere nella parodia del Senso maiuscolo, sta la differenza e la disobbedienza del senso minuscolo del teatro.
Infine tutto il teatro è minuscolo, anzi è un nonnulla, in tutti e due i contro-sensi (nulla e non nulla) e nel loro non-senso. Il teatro non è e non costruisce mondi alternativi. Il teatro non è un mondo alla rovescia ma appena un modo alla rovescia. Anzi un continuo arrovesciamento: un arrevuotamento, per dirlo con i ragazzi di Scampia…
Il suo modo è speculare e quindi mai coincidente con la realtà oggettiva verso e contro la quale si espone. Le sue regole e sapienze e tendenze (trucchi, segreti e misteri) non hanno nulla di alternativo ma viaggiano dentro una convenzionale e a volte convincente alterità. Piccole deviazioni e non devianze, ma in grado di trasmettere leggere mutazioni e ansie di divenire nello spazio tempo sospeso e festivo di poche ore di incontro-scontro con un pubblico.
Il suo miracolo, quando si avvera sia pure per pochi istanti, induce un’azione riflessiva vitale in chi lo fa e chi lo guarda. Niente di più, ma niente di meno, quando è efficace.
La battaglia per la sua efficacia di senso è improba, non vince quasi mai e convince ancora meno. Ma il teatro ha appena questo senso. E il teatro funziona solo quando questo senso si fa apprendere e detta le regole e le possibilità del fare.
Ci vorrebbero un attore estetico e uno spettatore critico. Ma forse addirittura il contrario: ci vorrebbe – come diceva Carmelo Bene – un attore critico e uno spettatore estetico… E qualche volta si ha la sensazione – in scena e in platea – che qualcuno ci possa riuscire davvero.

8.
Chi ci riesce? Restando nei limiti dell’animazione scolastica e nel quadro del rapporto tra “teatro e infanzia”, ci riesce chi fa teatro per ragazzi o chi fa fare il teatro dei ragazzi? Forse nessuno dei due.
Ci riesce quel teatro che difende la sua acqua sporca con dentro il bambino o il ragazzo che avrà definitivamente rapito. Chi cioè fa teatro “con” bambini e “con” ragazzi, nel senso di un complemento più di materia che di compagnia. Gli esperimenti di teatro infantile e le esperienze di teatro adolescente rispettivamente dei Raffaello di Cesena e delle Albe di Ravenna non saranno modelli ma sono precisi esempi “storici” di questo complemento in ablativo semplice (come lo è – nel suo ambito – il teatro della Fortezza di Volterra che ha finto di chiudersi in carcere per catturare prigionieri).
Ci riescono quegli attori e animatori che non si rifiutano di fare dell’animazione un servizio, ma sono attenti a tradurlo e tradirlo nella ricerca del senso del proprio teatro. Ci può riuscire in definitiva chi mette sempre il teatro al primo e al secondo posto, e quando se lo può permettere anche al terzo posto, spiazzando le logiche del potere con le sfide del sapere e – per buttarla in politica – sottomettendo l’assessore all’attore, se non altro in virtù di un’etimologia che vede l’assessore (adsideo) seduto sulla cultura e l’attore in piedi, nell’atto di viverla e respirarla come l’aria.
“La cultura è l’aria e non un’area” – diceva ancora Carmelo Bene tanti anni fa [9], prima della primitiva animazione e della sua successiva irresistibile ascesa e poi discesa in tutto l’orario e il calendario della politica culturale. Prima dell’espansione del teatro-consumo e della sua promozione in teatro-servizio. Prima delle stagioni eccezionali dell’effimero e del successivo paradossale postulato della sua permanenza. Eccetera, eccetera.
In quest’aria – è bene ricordarlo – vivono e dovrebbero crescere tutti gli attori sociali e non solo quelli teatrali. Anche gli attori sociali più piccoli, che anzi devono imparare a respirarla e a farla propria. La funzione pedagogica del teatro è tutta qui, nella sua vocazione a fungere da anticamera del senso.
Il teatro e l’infanzia hanno una storia vecchia come il cucco. Il teatrino fino a qualche decennio fa faceva parte dei giocattoli, anzi tutti o molti giocattoli funzionavano come un teatrino. Forse però “il teatro del gioco” non è troppo cambiato, anche se non lo si scopre più baloccandosi con bambole e soldatini e tappini di birra ovvero “animando” tutte le cose che capitavano nella scena di quell’attore (appena) nato. È il passaggio tra il teatro del gioco e il gioco del teatro – quello più adulto e consapevole – che sta diventando problematico; certo per via dell’arcaicità che sconta il linguaggio teatrale rispetto ad altri mezzi più magici o soltanto più potenti. Ma anche per via della pesantezza ideologica e della responsabilità didattica che (nella scuola ma anche in famiglia) ha inquadrato di fatto l’animazione teatrale tra le materie d’istruzione, anziché lasciarla agire di diritto come letterale “ricreazione”.

9.
E che rapporto c’è poi tra l’infanzia e il teatro d’arte, quello dei grandi e quello vero dove si portano spesso anche le scuole, una volta finito il gioco del teatro a scuola?
I bambini hanno un diritto di cittadinanza naturale nel teatro, anche se non si sa bene dove metterli, se in scena o in platea, visto che in loro la scissione dei ruoli non è chiara o non è ancora nata.
Eugène Ionesco, intervistato su quando aveva cominciato a far parte del teatro ha risposto “da quando avevo 9 anni”, ricordando la sua “prima volta” a Parigi quando lo avevano portato ai giardini del Luxembourg a vedere i Guignols.
Quando dunque si comincia a far parte del teatro? Da quando il bambino apprende o si sorprende a incantarsi davanti a una grande scatola di “gioco da vedere”, che sospende ma poi alimenta il suo instancabile “gioco da fare”. Quando dunque il teatro del gioco non basta o non soddisfa, andrebbe ricaricato e  aiutato dagli interventi adulti di “gioco del teatro”. Ma allora – anche prima di scomodare i veri attori – ci vorrebbe qualcuno che si infili dentro un teatrino o dietro le pagine di un libro; basterebbe un gesto che si accende come una luce oppure una voce che si nasconde nel buio, per svegliare o per addormentare… In realtà, per “assognare”, ovvero per accompagnare il bambino (attore e spettatore insieme) non dentro il mondo dei sogni ma dentro il sogno di un gioco capace di trionfare sulla realtà.
Ma oggi non ci sono più né zie né lettori [10]: non ci sono più né babbi né burattini. I genitori e gli animatori non si divertono a costruire pinocchi e non giocano più approfittandosi dei bambini. Si gioca per i bambini ma non con i bambini, nella migliore delle ipotesi. O più spesso si resta spettatori dei giochi dei bambini, come quelle platee di amici e parenti che – agli spettacoli di fine d’anno scolastico – incoraggiano e festeggiano l’azione espressiva dei bambini, senza accorgersi di svalorizzare e mortificare l’azione riflessiva. Applaudono ogni loro esibizione, ma intanto hanno paura che si perdano nell’incantazione: vogliono dei bambini disincantati e insieme incantevoli, come richiede la società o il mercato dello spettacolo. Riducono il gioco del teatro alla mostra di sé, mentre il teatro del gioco si confonde e affonda nella quotidianità di un’infanzia senza fine e senza un fine.
Sono persino in troppi ad amare e animare l’infanzia, tra genitori e insegnanti e infermieri clown e giocolieri prezzolati nelle feste di compleanno, ma nessuno le fornisce più i miti e i riti, i personaggi e gli interpreti, i modi e i mezzi che con cui a loro volta possono animare il mondo o scoprire il mondo dell’anima. Invece – a dispetto di quel che credono i grandi – la piccola scatola del gioco teatrale potrebbe essere ancora l’unica o l’ultima in grado di contrapporre l’incanto all’anestesia, la riflessione all’esibizione, l’ambizione del divenire altro alla pigrizia dell’essere come si è.
È un gioco adulto il teatro d’arte, anche quando è fatto con i bambini: è un gioco difficile da maestri e un po’ da orchi, che si fa per continuare a crescere e a trasformarsi, mangiando i bambini… insieme ai bambini.
E infine, per quanto riguarda il suo apprendimento o la sua condivisione, la più grande difficoltà sta nel liberare la sua facilità. Il teatro non va insegnato ma fatto funzionare, e il gioco è fatto. Il suo rapporto con il gioco e con il rito e con la festa è già dentro la scatola, sia pure nei piani più alti o più profondi della sua confezione.
Il teatro-bambino della Socìetas Raffaello Sanzio e il teatro-ragazzo del Teatro delle Albe, per esempio, lo hanno capito e lo hanno fatto. Lo hanno scoperto e lo hanno inventato. Puntando in alto e non guardando in basso, sfidando e non consolando i loro giovani abitanti, li hanno catturati e in qualche modo se li sono mangiati – spettatori o attori che fossero.
Sinite parvulos venire ad me – diceva un grande maestro di teatro sacro. Ma non viceversa.

 

(Piergiorgio Giacchè, “La parabola dell’animazione teatrale”, in Il teatro salvato da i ragazzini, a cura di Debora Pietrobono e Rodolfo Sacchettini, Edizioni dell’asino, Roma 2011; pp. 46-65)

 

[1] Nel 1980 «Scena», la rivista più significativa del “movimento teatrale” di quegli anni (fin troppo dimenticata, ma all’epoca più importante di «Sipario»), decideva di togliere la parola “animazione” dal sottotitolo della sua testata e di pubblicare un manifesto che ne decretava pubblicamente la “morte”. Remo Rostagno, primo firmatario assieme a Marco Baliani e Maya Cornacchia, ha recentemente ricordato questo fatto in un’intervista pubblicata in: Catarsi. Teatri della diversità, nn. 49-50, giugno 2009, (Crf. P. IV della sez. Documenti).

[2] Io ero l’albero (tu il cavallo) è il titolo di un famoso libro sull’animazione curato da Franco Passatore (Guaraldi, Rimini-Firenze, 1972) mentre l’azione di Marco Cavallo ha riempito e qualificato il lavoro condotto da Giuliano Scabia all’ospedale psichiatrico di Trieste durante la “rivoluzione” di Basaglia.

[3] “Terzo teatro” è stata una corretta definizione data da Eugenio Barba al vasto fenomeno del teatro di gruppo degli anni Settanta e Ottanta: autodidatta ma professionista, nato e cresciuto fuori dalle scuole ufficiali e dal “primo” teatro istituzionale, ma anche diviso e diverso dalle avanguardie che avevano da tempo costituito una “seconda” possibilità.

[4] Sulla questione del rapporto tra la funzione sociale e il senso teatrale, maggiori dati e più approfonditi commenti si trovano in: P. Giacchè, Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp.  40 – 64.

[5] Ci si vuole riferire non tanto alla svalorizzazione della letteratura drammatica (che non è più sinonimo di teatro), quanto alla valorizzazione dei linguaggi non verbali, alla ritrovata preminenza del corpo dell’attore sulla mente dello spettatore – fenomeni che hanno caratterizzato sia le poetiche che le politiche del “nuovo” teatro, a partire dalle avanguardie degli anni ’60 e ad arrivare alle dimensioni o aspirazione di un “teatro antropologico” e del suo mercato transnazionale.

[6] Le isole galleggianti sono una celebre e perfino abusata metafora coniata da Barba e dall’Odin Teatret, che ha funzionato per anni da “ricetta” politica e poetica per moltissimi gruppi di teatro anche di orientamento ideologico e stilistico diverso: c’è stato un lungo periodo in cui ha funzionato lo “scambio” fra un’attività animatoriale da offrire a enti pubblici e privati, e la concessione di spazi e tempi, fondi e riconoscimenti, da investire sulla produzione spettacolare e sulla ricerca artistica.

[7] “Teatro sociale” è una recente e ampia autodefinizione del mondo del teatro impegnato e applicato in vari ambiti sociali; un convegno a Milano di qualche anno fa, con la presenza e sotto l’egida di Richard Schechner, ha cercato di raccogliere quest’area e di rilanciarne le proposte; non si vuole dare uno sbrigativo giudizio da scettici, ma soltanto sottolineare l’importanza di un nodo irrisolto – fra integrazione e rivoluzione – quando si ha a che fare con i due modi e momenti non sempre sovrapponibili dell’intervento sociale e dell’esperienza artistica.

[8] Cfr. P. Giacchè, Le bugie della scuola e quelle del  teatro, «Art’O», n. 4, gennaio 2000, pp. 42-45.

[9] Le citazioni rubate a Carmelo Bene si trovano in: Carmelo Bene, La voce di Narciso (a cura di Sergio Colomba), Il Saggiatore, Milano, 1982.

[10] Al mondo ci sono più zie che lettori è il titolo di un piccolo prezioso saggio di Peter Bichsel (Marcos y Marcos, Milano, 1989), pieno di suggestioni e saggezze utili a chi riflette sul tema della cultura e sul mondo dell’infanzia.

 




Incubo

di Michele Bandini

L’incubo appartiene a quella sfera privata e solitaria della notte in cui si proiettano paure e inquietudini… è un agguato silenzioso del pensiero che ci sorprende nella notte… è la traduzione mostruosa di ciò che ci spaventa alla luce del sole… è una dimensione solitaria, arcaica ed immaginifica… è il risultato di un turbamento della nostra coscienza, un sguardo furtivo e confuso dal buco della serratura nella nostra stanza nascosta… la stanza del simbolico e del sommerso… l’incubo è quel passaggio incerto sull’abisso dentro ognuno di noi… una mostruosità fraterna… è un rifiuto inconsapevole della mente… è quella risposta muta alla nostra domanda sospesa… e come ogni intima manifestazione del caos interiore è vissuta ed esperita in solitudine.

Il teatro e l’arte dovrebbero agire su tutti quei livelli che caratterizzano l’incubo, che lo stratificano come esperienza verticale, ma tenendosi ben lontano da ogni possibile interpretazione psicologica o sociologica, ambito che non ci interessa né riguarda in nessun modo, bensì ripensando l’esperienza e reinventandola come azione pubblica e corale.

Il teatro e l’arte possono e dovrebbero confrontarsi con il nascosto e lo spaventoso, ma attraversandolo in modo corale e collettivo. Il teatro e l’arte hanno bisogno di confrontarsi con la parte oscura e terminale per risolvere simbolicamente e socialmente la questione… il teatro può, come un richiamo collettivo, far condividere le segrete del proprio io, trasformandolo in un grido dalla finestra, una chiamata in strada. Le nuove generazioni come le vecchie hanno bisogno di un teatro e di un’arte che collettivamente si confronti con il dubbio, l’incertezza, la morte, la perdita attraverso il simbolo, l’astrazione, la scrittura, esprimendosi attraverso il gesto corpo/voce, l’azione individuale e corale.
I giovani possono più di chiunque altro lavorare su questi elementi, in un’alternanza dinamica che può oscillare tra energia e dolcezza, tra forza e leggerezza, seguendo assi verticali e orizzontali, fatti di profondità ed energia, di libertà e rigore, di paura e meraviglia. Dall’infanzia fino all’adolescenza fare teatro significa divertimento corale, significa perdersi alla scoperta di sé stessi, ma con il sostegno e la guida degli altri, significa mostrarsi, inteso come necessità espressiva, come attestazione di presenza nel mondo, senza i rischi dell’autocompiacimento o gli egocentrismi degli adulti, significa confrontarsi con l’errore e l’incertezza, ma anche con la libertà e la grazia. I giovani di oggi hanno il bisogno di viversi collettivamente, di unire la propria voce a quella degli altri, di più ora forse rispetto che in passato, ora che il virtuale diventa luogo sociale e doposcuola digitale. Ora che la comunicazione si sviluppa prevalentemente su supporti digitali e che il linguaggio scritto si articola a partire da emoticon e abbreviazioni in cui il linguaggio si fa strumentale all’intrattenimento di una relazione e non più a un reale rapporto relazionale, diventa fondamentale quel teatro che si propone di essere luogo di condivisione, in cui si condivide uno sguardo, una voce. Condivisione intesa come un vedere insieme, condividere uno sguardo vuol dire guardare la stessa cosa dallo stesso punto, con la stessa prospettiva, ma con la variabile del sentimento personale, lavorare insieme vuol dire metterci del proprio e cooperare al raggiungimento di un obiettivo comune, che però non ha niente a che fare con un obiettivo tangibile e quantificabile.

Fare Teatro e assistere al Teatro (parola con la maiuscola e in grassetto per evitare di generalizzare pensando che basti recarsi a teatro), vuol dire riconoscere valore a una inutilità che è fondamentale e fondante per la nascita di quella comunità che si origina a partire dal sentire insieme, e dal condividere una pratica, un agire collettivo che proponga un’interpretazione del mondo e delle cose, dei particolari e degli universali, e che in questa creazione si senta come voce e corpo, presenza ed essenza, di un’azione che amplifica e celebra la vita e tutte le sue sfumature, siano esse limpide e manifeste, siano esse oscure e notturne. Il fare insieme diventa l’antidoto alla solitudine dell’esperienza incubotica, diventa una una pratica collettiva di esplorazione delle oscurità e delle inquietudini, ed è in questa ottica corale che si rende possibile quella trasformazione. La paura di sentirsi inadeguati, il terrore che si cela dietro l’umiliazione che potrebbe seguire l’errore, la ricerca difficile di quell’equilibrio tra la voglia di abbandonare per la paura di esporsi e la forza di mostrarsi nonostante il rischio del fallimento, sono questioni che collettivamente vengono risolte attraverso quel rituale potente e catartico che il teatro celebra.

Michele Bandini è attore e regista, co-fondatore della compagnia Zoeteatro. Esperto di pedagogia teatrale, ha realizzato numerosi progetti rivolti a giovanissimi e adolescenti, tra i quali Salti Immortali che si è svolto nel contesto di Scampia. È direttore artistico, assieme a Emiliano Pergolari, dello SpazioZut a Foligno nonché guida della non-scuola fondata dal Teatro delle Albe.




Nudoecrudo Teatro – 4

Nel teatro ragazzi in generale dovrebbe esistere ed è importante che ci sia un’attenzione all’aspetto pedagogico. Oltre a creare potenziali nuovi spettatori, il teatro con l’infanzia dovrebbe servire a questo – a tener viva una sensibilità, un ascolto, una curiosità. Nel suo percorso Nudoecrudo Teatro ha scelto di mischiare fra loro diverse competenze, artistiche, pedagogico-educative. In più lo spettacolo Ecco io qui è nato all’interno degli asili nido, quindi ci siamo confrontate molto con le educatrici, sul tipo di offerta scenica e sulle risposte dei bambini, abbiamo costruito insieme. Ma poi c’è un aspetto pedagogico che potremmo rivolgere agli adulti: l’esperienza teatrale fornisce possibili traiettorie di relazione, di approccio alla creatività e al gioco anche agli adulti che accompagnano i bambini. Può essere formativo per esempio vedere come affiancarli senza parlare o sovraccaricarli di stimoli. In generale, comunque, nel momento in cui viene fatta una proposta teatrale all’infanzia è importante che questa contempli e preveda anche la presenza di un adulto, che non sta lì per guardare il cellulare o farsi i fatti suoi, ma può essere coinvolto. Questo restituisce un senso molto più profondo all’intero processo: io scelgo di andare a teatro con mio figlio, con mio nipote … e vivo un’esperienza insieme a lui.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Nudoecrudo Teatro – 3

Cerchiamo di ricostruire un tempo e un luogo, un ritmo, molto umani. Andiamo un po’ in controtendenza. Nello specifico, Ecco io qui, presentato quest’anno a Segnali, prende spunto dal lavoro di Bruno Munari e vuole recuperare l’esperienza sensoriale, concreta, con i materiali e col mondo, aspetto che per una contemporaneità fatta prevalentemente di virtuale diventa quasi una missione. Ed è bellissimo prepararlo, andare a rimettere le mani e il corpo in questa dimensione a contatto diretto con gli oggetti, per poi vedere che di fronte a una proposta del genere la ricettività del pubblico è molto alta. Anche perché il momento finale vede scomparire l’adulto che la realizza, tutto è stato pensato prima ed è stato creato un mondo ad uso del bambino, che si sintonizza sulla sua lunghezza d’onda. Ecco che allora il discorso è sintetico, è un lavoro a sottrarre, chiaramente essendo teatro si mantiene viva una proposta poetica, ma qui il bambino prende il proprio spazio.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Nudoecrudo Teatro – 1

Il teatro con i bambini ci offre un modo per esplorare insieme i vari linguaggi espressivi, ma al tempo stesso anche un modo diverso di stare e di relazionarsi. Il nostro lavoro è per i piccolissimi, partiamo dai sei mesi, e con questa fascia d’età tutto è ridotto all’essenziale, al minimo; siamo obbligate a tener conto solo di ciò che è strettamente necessario: nella scelta di quello che viene proposto loro, negli stimoli che diamo. Questo dà molta pace e allo stesso tempo ci riporta all’origine, al nucleo delle motivazioni che ci hanno spinto a fare questo lavoro. Inoltre il linguaggio del corpo così come il linguaggio magico della metafora sono talmente connaturati al bambino che, per certi versi, il teatro con la primissima infanzia è più facile, oltre che bello. E porta in prima persona a riscoprire l’incanto, che si va perdendo. L’essenzialità allora serve per fare spazio e recuperare un certo grado di apertura e di stupore verso le cose che ci circondano.

(Alessandra Pasi, Judith Annoni e Francesca Maggioni)




Daimon

ph: Nicholas Prior

di Daniele Villa

La matematica del DAIMON*

(+) somma
(-) sottrazione
(:) divisione
(x) moltiplicazione

Daimon = {angelo custode + fantasma + demone} x le varie sfaccettature del carattere
Conoscere il daimon = Socrate + Jung + Hillman + quella strana chiamata interiore che avverti a partire dall’infanzia e anche se fingi di non sentirla ti tormenta chiedendoti di fare qualcosa della tua vita, a volte una cosa specifica
Daimon + adolescenza = sogno
Daimon + età adulta = progetto
Daimon + vecchiaia = {rimpianti : gratificazioni} x {energie + aspettative di vita nella zona di mondo in cui ti trovi}
Daimon – patologia mentale + tempi oscuri = Adolf Hitler
Destino = daimon : le infinite variabili della vita
Vita = daimon : {le infinite variabili di contesto come condizioni economiche di partenza + cultura d’appartenenza + Spirito del Tempo + guerre + catastofi + relazioni interpersonali + fortuna ecc.}
Conoscere se stessi = ascoltare il daimon + rimanere sani di mente x Jung©: “Una vita che non si realizza è una vita sprecata”
Diventare se stessi = {ascoltare il daimon : fare di tutto per conservare uno straccio di equilibrio interiore} x Beckett© “Ho sempre fallito. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”
Mediocrità = {vita appagante – daimon} x {benessere psicofisico + conformismo – rischio}
Invidia = {daimon + rischio} – {benessere psicofisico + vita appagante +€}
Fallimento1 = {uccidere il daimon + rimanere comunque vivi – coltivare il dubbio} : fare figli e proiettare il tuo daimon su di loro
Fallimento2 = {seguire il daimon sempre e comunque + confronto con la vita degli altri : uso di sostanze allucinogene} + pensiero ricorrente al suicidio
Piano B = {daimon : vita vissuta a pieno} + {buon senso x le infinite variabili della vita}

*Liberamente ispirato a New Math: equations for living di Craig Damrauer

 

Daniele Villa lavora come co-regista e drammaturgo nel collettivo Sotterraneo (Firenze, 2005) le cui produzioni teatrali replicano in molti dei più importanti festival e teatri nazionali e internazionali – tra i premi ricevuti: Premio Lo Straniero, Premio Speciale Ubu, BeFestival First Prize. Interviene inoltre con contributi scritti in numerose riviste e pubblicazioni di settore o di ambito universitario.




Alan e il mare di Giuliano Scarpinato. Una favola di redenzione

Alan e il mare ha debuttato in prima nazionale al Teatro Verdi di Milano, nel Festival Segnali. Recensione di Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica.

La fotografia del piccolo Alan Kurdi riverso sulla spiaggia turca di Bodrum l’abbiamo vista tutti. Tutti. La reazione di tutti è stata anche la nostra. O almeno questo crediamo.
C’è un fatto, ci sono dei testimoni. Ci sono dei riceventi di quella testimonianza. E poi quella testimonianza scompare. Diventa una nuvola tossica che investe anche coloro che avrebbero preferito non sapere nulla. Persiste una sorta di abuso del reale che ricostruisce la verità dentro un suo riflesso immediatamente inaggirabile, surrogato, sinistro.

Tramutare la cronaca in fabula, depredare i fondamenti della realtà per ricostruire attorno a un fatto reale e puntuale un effetto poetico e universale. Questo sembra essere il progetto di Giuliano Scarpinato, che con Alan e il mare ha debuttato al Teatro Verdi di Milano per la 28° edizione del Festival Segnali. Il progetto di Scarpinato – giunto a compimento per la produzione del CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG e Accademia Perduta Romagna Teatri – è infatti rivolto ai giovani spettatori e arriva mentre è ancora fresco il sofferto successo di Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, che ha infiammato tribune e bacheche e sbattuto nelle prime pagine culturali la questione dell’identità di genere. La sala è piena ma, prima, il foyer è pieno di aspettativa, per questo artista che, dalla vittoria del Premio Scenario Infanzia alle infuocate polemiche per il precedente lavoro, è stato visto come un pericolo per il pubblico degli adulti più conservatori, una novità problematica per i bambini e per il sistema teatro a loro dedicato.

Una nota necessaria a margine di questa visione deve riguardare il contesto. Alla prima nazionale la platea era piena soprattutto di adulti, tra cui un numero nutrito di artisti e operatori. Una insufficiente rappresentanza di bambini e ragazzi non ha forse permesso di osservare l’opera attraverso gli occhi di questo particolarissimo target, spostando l’attenzione su codici di ricezione più adulti.

La scena è sgombra, sul fondale una parete di pannelli translucidi ritagliati come un mosaico scaleno, una sorta di vetro frantumato che si illuminerà di videoproiezioni e animazioni grafiche, facendo da sfondo a un’azione tutta concentrata sui corpi dei due protagonisti, Federico Brugnone e Michele Degirolamo. Uno alto e barbuto, l’altro minuto e glabro, sono un padre e un figlio. Stando alle note di regia, i nomi sono quasi l’unico riferimento puntuale al fatto di cronaca. Perché l’intenzione sembra essere quella di comunicare al pubblico che di storie come quella del “piccolo Alan” ce ne sono state e ce ne saranno centinaia.
Il padre sveglia il figlio e lo affretta a vestirsi, ché «oggi non si va a scuola, oggi c’è la gita». Perché la scuola, l’intera scuola, non c’è più. I due si imbarcano su un gommone che naufraga poco dopo, travolto da un’onda di cui vediamo e udiamo la furia sullo schermo e nelle orecchie. Ci sarà il tempo per contare le stelle e immaginare costellazioni, dopodiché il bambino verrà inghiottito dal mare.

Il resto della vicenda sembra svolgersi nella mente del padre, alla ricerca di una strategia per convivere con un lutto così atroce. La moglie compare, quasi sempre silenziosa, avvolta nel suo velo e con lo sguardo fisso di chi non è più lì, fantasma al quale parlare da sdraiati, con il corpo scosso dalle convulsioni.
Alan, intanto, si è trasformato in pesce. Nei deliri del genitore un incontro è possibile, ma non la parola. Il corpo del bambino è diventato quasi molle e senza scheletro, le articolazioni non legano più, Alan è un essere abituato alla libertà del fluido liquido, sguscia tra le braccia del padre in impossibili valzer, guizza di qua e di là per poi tornare fatalmente nella sua nuova Atlantide. Il fondale si apre e lo ingoia dietro uno schermo che ne offusca la messa a fuoco; uno specchio diafano gli doppia i movimenti. A dispetto dell’enormità del mare, dove si può fare amicizia con alghe e anemoni e immaginare mondi immensi, il suo angolo è stretto e limitato, è una bara di luce che non contiene più di una persona.

In questa favola lirica, incorniciata dai colori sgargianti delle animazioni (fluide e ben curate da Daniele Salaris), i tragitti a piedi diventano grotteschi videogame da abitare con gesti meccanici, il lungo tragitto per lasciare la Siria e raggiungere la Svezia attraversa capitali/cartolina, ma c’è spazio anche per la schiacciante pressione dei media, quando il profugo deve rispondere a mille domande sotto il peso dei microfoni o imparare un arzigogolato e poliglotta decalogo di regole da rispettare.
L’uso del codice della favola sembra avere l’intento di rendere universale un capitolo orribile della storia etica del mondo contemporaneo, astraendosi dalla brutalità del fatto così come è stato diffuso e recuperando una forma di affezione verso immagini vive, firmando un’alleanza rinnovata con la materialità dei corpi, curata infatti nei movimenti scenici fino a un dettaglio quasi coreografico.

Sappiamo che la foto di Alan con il volto affondato nella sabbia – qui mai mostrata, solo evocata nella posa iniziale di Degirolamo e nel rosso/blu dei suoi abiti – ha aperto cuori e coscienze degli utenti dei media di massa e digitali, ha aperto il portafogli degli stati europei al cospetto dell’inferno dei rifugiati. Ma quanto realmente ci riguarda tutto ciò che sta dietro?
Nell’elegante costruzione visiva e nella scansione drammaturgica resiste ancora qualche concessione a una sorta di barocchismo, a un’apparenza plateale: una più massiccia presenza di spettatori bambini, portatori di un immaginario più libero del nostro, garantirebbe forse un terreno di ricezione più neutro. Se Fa’afafine discuteva un’evidenza contemporanea lontana dalla maggioranza delle biografie degli spettatori, Alan e il mare maneggia un tema scottante, ma ancor di più punta a stemperarne quell’oscenità messa a punto dai media, di cui siamo tutti responsabili.

L’operazione corre così sul filo della sollecitazione retorica, eppure mira a sollecitare un’immaginazione attiva (dagli 8 anni in su): per mettere a punto questo scarto poetico il segno registico tenta allora di ricompensare lo spettatore (senza età) con un preciso controllo dei mezzi e dei modi, in equilibrio tra il rituale di espiazione e la denuncia alla superficialità, fotografando il fatto reale sullo sfondo di una disperata battaglia con la nostra relativa percezione.

Ogni riferimento alla cronaca, la quale guadagna una nettezza agghiacciante solo nel finale, subisce in quest’opera una sorta di redenzione del linguaggio. Allora poesia e fiaba sono usate qui non come zucchero per far mandare giù una pillola, ma come grido disperato per mostrare il livello carnale – e, per contrasto, immaginifico – di un’esperienza mediatica che tutto il mondo ha vissuto nella piattezza della bidimensionalità.
Soprattutto le immagini fotografiche, che nella puntualità fondano la propria estetica, si posizionano in un “tempo-senza-tempo”, per dirla con Manuel Castells, in cui non sembra esservi speranza di radicarle nel terreno della coscienza. Navighiamo nella ormai proverbiale atemporalità dell’evento: nella società della condivisione e della trasparenza ogni contenuto si fissa istantaneamente e, in quello stesso istante, il suo impatto smette di progredire, sommerso dall’onda delle “reazioni”. Allora, forse, la risposta sta nell’immaginazione e nel corpo.

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

ALAN E IL MARE
testo e regia Giuliano Scarpinato
assistente alla drammaturgia Gioia Salvatori
interpreti Federico Brugnone, Michele Degirolamo
in video Elena Aimone
scene Diana Ciufo
luci Danilo Facco
videoproiezioni Daniele Salaris
movimenti scenici Gaia Clotilde Chernetich
costumi Giuliano Scarpinato
progetto grafico Rooy Charlie Lana
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Accademia Perduta Romagna Teatri




Alla riconquista del futuro: quinta istantanea da Segnali

Racconto alla rovescia di Momom e Nido di Teatro Telaio
Se la vita è un conto alla rovescia, allora la morte è la regina dei conti alla rovescia. Ma cosa accade quando il contare si trasforma in un raccontare? Racconto alla rovescia della compagnia Momom, che narra l’incontro del piccolo Arturo con una Morte più ironica che temibile, ruota attorno a un cambio di prospettiva: il conto alla rovescia non è la fine di qualcosa bensì il tempo per fare qualcosa. A capirlo è proprio il curioso Arturo che, aprendo uno alla volta i doni della Morte con un conto alla rovescia del pubblico in sala, riscopre il suo piccolo ma ricco bagaglio di esperienze: il tempo impiegato per capire il significato del sì e del no, quello per capire che si è uguali ma anche diversi dagli altri, il tempo per fare silenzio. All’apertura di ogni regalo le parole del narratore, e unico attore in scena, Claudio Milani si interrompono per dare spazio a corde, palloncini, fiori e farfalle che, interagendo con il protagonista, raccontano per metafora l’insegnamento di Arturo. Narrazione e linguaggi visivi si alternano sistematicamente sul palcoscenico, dando vita a una fiaba contemporanea, ironica e poetica, per sua stessa natura accessibile, a più livelli e in modi differenti, a tutto il pubblico in sala.

 


Di un linguaggio non verbale (fatto di gesti e di un fischietto/richiamo per uccelli) si serve anche la compagnia Teatro Telaio per Nido, terzo spettacolo della “trilogia degli affetti” che nei due capitoli precedenti, sempre senza l’utilizzo della parola, raccontava ai bambini l’amicizia (Storia di un bambino e di un pinguino) e l’innamoramento (Abbracci). Due uccellini, alle prese con il loro primo uovo, cercano in tutti i modi il luogo adeguato per proteggere il prezioso dono. Al centro del palco un complicato nido che gli uccellini, con bastoncini di legno, costruiscono e ricostruiscono per tutta la durata dello spettacolo: lunghissime pagine di istruzioni, litigate, capricci, colpi di genio e richieste di aiuto da parte degli amici, per arrivare a rendersi conto che alla fine ciò che serviva era sempre stato lì, a portata di mano. Con delicatezza lo spettacolo racconta ai più piccoli non solo le difficoltà, i tempi e la felicità di diventare genitori, ma, più in generale, il faticoso percorso per realizzare qualcosa di importante: la costruzione (nello spettacolo concreta e centrale) necessita di tempo, di impegno e di moltissimi tentativi. (c.l.)

Ok Robot di Teatro delle Briciole
La fantascienza è un genere letterario tra i più significativi del Novecento, anche se in Italia solo da una ventina d’anni si considera culturalmente rilevante. Eppure autori come Wells (da rileggersi La macchina del tempo nella bellissima traduzione di Michele Mari appena uscita), Asimov o, più di recente, Vonnegut o Dick o Ballard hanno influenzato moltissimo il nostro immaginario e sono autori che si prestano bene ad essere letti in classe, perché offrono moltissimi spunti. Sono, come si diceva un tempo, ricchi di “immaginazione sociologica”. Ci si interroga su cosa sarà l’uomo e il mondo in un prossimo o remoto futuro per capire qualcosa in più di chi siamo oggi. Il cinema è stato, e continua ad essere, l’alleato più forte della fantascienza, anche se spesso gli esiti sono tristemente appiattiti sugli effetti speciali e di poca sostanza. Il teatro ha fatto sempre più fatica a immergersi nella fantascienza, anche se, per un’area della ricerca, certe opere e alcuni autori sono stati molto citati e masticati, con esiti spesso felici. È questa solo una premessa per dire che Io robot del Teatro delle Briciole, per la regia di Beatrice Baruffini, è molto interessante, anche per quanto concerne la tematica scelta. Il nostro presente, come disse Ballard pochi anni prima di morire, è ormai già intessuto di futuro e i cambiamenti sono così rapidi che diventa difficilissimo fare previsioni o immaginare altri orizzonti. Compiere un “esercizio di futuro”, in relazione ai cambiamenti già in atto, è utilissimo per mantenere vivo quello sforzo di “prefigurazione” che è alla base sia del discorso educativo, sia dell’analisi critica. Siamo tutti immersi nella rivoluzione digitale/robotica e il rapporto tra tecnologia e infanzia si trova ad essere sempre più discusso (vedi i vari interventi ad esempio di Franco Lorenzoni).

Lo spettacolo sceglie come protagonisti due robot dell’ultima generazione, che capitano in un luogo che non conoscono e che poi scoprono essere la “pancia della grande ruspa”. Non sanno perché sono stati scartati. Tutto funziona correttamente. In questo strano luogo incontrano altri due prototipi di robot: prima una sorta di “casco virtuale” che fa loro girare la testa, come una droga o un sogno indotto, poi un piccolo robottino degli anni venti, un po’ giocattolo, un po’ da museo meccanico. L’idea è bella. C’è una prospettiva anche temporale della tecnologia che, seppure per piccoli tratti, offre la possibilità di ragionare su una “storia delle scienze robotiche”. I due attori (Simone Evangelisti e Agnese Scotti) sono bravi a utilizzare la voce metallica e a segmentare il movimento secondo lo stereotipo del robot-burattino. Si solletica l’immaginario collettivo (dai cartoni al cinema, ma soprattutto si cita il mondo dei video musicali da Laurie Anderson con O Superman, che nel 1981 fu anche performance, a Bjork con All is Full of Love e poi Lady Gaga e cento altri), facendo indossare bianchissime tute spaziali ai due attori e creando uno spazio vuoto di sospensione. I due robot nella ricerca del loro difetto iniziano a fare domande sempre più “esistenziali”, uscendo fuori dai binari della meccanica e intraprendendo una sorta di viaggio di conoscenza nella natura umana, come fu per il mitico e citato Blade Runner. È proprio su questo piano che si ricercano agganci con il pubblico dei più piccoli per mettere al centro una questione sulla “diversità” e sulle “grandi domande”. I robot, in un certo senso, nel loro spaesamento sono alla ricerca di una propria strada, sono come “bambini” che chiedono e interrogano. La drammaturgia si inventa anche un bel gioco, adoperando il meccanismo dell’ipertesto, o per meglio dire delle “connessioni” che crea in automatico google. I due robot parlano come macchine, le frasi spesso sono luoghi comuni oppure sono citazioni di qualcosa (film, teatro, libri…). Anche se i riferimenti spesso non sono subito evidenti, è piuttosto chiaro il procedimento. La lingua di google o le definizioni enciclopediche di wikipedia si mescolano a vicenda, con un’idea di lingua meccanica che potrebbe avere molte implicazioni. Complessivamente il lavoro offre moltissimi spunti, però, forse anche perché fresco di debutto, ha qualcosa che non funziona. O almeno questa è l’impressione, anche se andrebbe visto con un pubblico di bambini e ragazzini. Tutti gli ingredienti sono intelligenti, però sembra ancora che vada trovato il ritmo giusto, che si creino, soprattutto nel testo, maggiori porte di ingresso, per favorire frizioni e anomalie. Potenzialmente lo spettacolo sarebbe anche molto divertente, perché cova allo stesso tempo un’ironia sottile e momenti di comicità da teatro dell’assurdo. Ma entrambe le dimensioni faticano ancora a emergere. “C’è qualcosa che funziona poco”, come si chiedevano appunto i robot, “ma non sappiamo cosa”. E dunque la ricerca può diventare l’ottima occasione per continuare ad andare a fondo. (r.s.)

 

Camilla Lietti, Rodolfo Sacchettini




Minoranze schiacciate: quarta istantanea da Segnali

In anni recenti è stato un fiorire di storie legate allo sport. Quando le vicende di un campione si mescolano a scelte politiche controcorrente o a ingiustizie subite, queste somigliano alle gesta di un eroe dei nostri tempi: forza fisica, abilità, innovazione, coraggio… La narrazione contemporanea difficilmente ha creato altre figure dai connotati così epici, dai richiami così antichi. Via da lì. Storia del pugile zingaro di Pandemonium Teatro racconta di Johann Trolmann, detto Rukeli, un pugile zingaro, il cui filo biografico viene tagliato in un campo di concentramento tedesco nel 1942. Ma il nazismo aveva fin dal 1933 colpito il pugile “ballerino”, con l’accusa di muoversi in maniera scomposta, di saltare da una parte all’altra del ring, di utilizzare una tecnica ritenuta “effeminata” e perciò indegna della razza ariana. Il movimento di gambe, un atteggiamento apparentemente selvatico e l’agilità del fisico portarono Rukeli a imporsi presto come campione della Germania nella categoria mediomassimi, ma a vedersi annullato il titolo dal potere nazista. Lo spettacolo segue – così come è accaduto in questi anni nel cinema, in trasmissioni televisive, in teatro e in letteratura – una parabola di crescente pathos e coinvolgimento. Il naturale parallelismo è con il ballerino Muhammad Ali, alle prese con gli odi razziali nell’America guerrafondaia degli anni Sessanta e Settanta. Ma tra partite di calcio nei campi di concentramento, atleti di colore con il pugno chiuso, campioni ebrei perseguitati, le possibili similitudini potrebbero essere davvero tante. Lo sport è diventato un serbatoio ricco di storie che a contatto con la grande Storia producono esempi di soprusi o di riscatto. Delle tante minoranze perseguitate gli zingari continuano ad essere i meno raccontati, e questo rende ulteriormente interessante lo spettacolo.
Inizialmente il lavoro – con la duplice regia di Lucio Guarinoni e Walter Maconi, che è anche l’attore in scena – pare un po’ bloccato nelle dinamiche meno convincenti del teatro di narrazione, poi la storia prende letteralmente “corpo”, incarnandosi nei gesti dell’attore, che con equilibrio restituisce la forza e l’ostinazione del pugile, e la sua origine zingara. La Storia viene proiettata su dei pannelli che circoscrivono la scena e assume i connotati delle parate naziste e dei volti di noti gerarchi. Le modalità narrative ed emotive sono più o meno le stesse di sempre. Ma aver sentito cento volte storie simili, non toglie allo spettacolo una sua originalità e una sua onestà. (r.s.)

Ripropone la trama shakespeariana de La Tempesta lo spettacolo diretto da Roberto Capaldo, per un progetto di Rebelot Teatro prodotto da Residenza IDra. Prospero e la figlia Miranda, di nobili origini ma finiti sull’isola abitata dal mostro Calibano e dallo spirito Ariele, si muovono in un habitat essenziale e artigianale fatto di canne, tende e lucine tipiche delle feste di paese – creato da Antonio Catalano – dove fanno capolino a poco a poco anche gli altri personaggi noti della storia, naufragati per via di un sortilegio voluto dallo stesso Prospero. I tre attori in scena – Sacha Oliviero, Francesca Perilli e lo stesso Roberto Capaldo – interpretano tutti i personaggi di Tempesta 6+ attraverso travestimenti, un utilizzo delle maschere della commedia dell’arte e un gioco di luci e ombre. Lo spettacolo diventa però sovraccarico di segni, dal ritmo incespicante, e più indicato per un pubblico di ragazzi in grado di seguire un’architettura complessa dove il testo ha una forte componente, nonostante le tante immagini create dalle luci di Iro Suraci. Il punto forse più interessante dello spettacolo risulta infatti l’idea di offrire oggi agli spettatori giovani la riflessione ereditata dal bardo inglese sulla potenza del perdono e del pentimento: solo con questi antidoti speciali la vendetta non genera odio ma un mondo migliore in cui si trova spazio per sognare. (c.t.)

Premiato agli Eolo Awards come miglior novità 2017, Piccoli Eroi del Teatro del Piccione raccoglie storie di migrazione. A partire dal potenziale evocativo della fiaba di Pollicino, tre donne (interpretate da una sempre credibile e intensa Simona Gambaro, che firma anche la drammaturgia, diretta da Antonio Tancredi) abitano altrettante stanze, distanti tra loro eppure unite da una stessa comune storia. Accogliendo attorno a un tavolo sette visitatori arrivati da chissà dove, le donne raccontano le diverse facce del viaggio, di chi parte per trovare un futuro migliore: la madre che ha lasciato andare i propri figli, la donna vittima di un “orco” da cui non può scappare, la moglie di un uomo venuto da lontano. Lo spettacolo coinvolge il pubblico in un’esperienza che va oltre la semplice visione: sette spettatori sono i “viaggiatori”, i piccoli eroi che vengono fatti accomodare attorno al tavolo, coinvolti in minute azioni sceniche. Il resto del pubblico (per un massimo di ottanta persone) è “testimone” e osserva la scena oltre un filtro di rami che delimita la stanza ed evoca la presenza di un bosco a circondarla. Passando da scene di buio totale all’intimità di un lume di candela, dalla condivisione di un piatto di patate alla lettura di lettere custodite in un cassetto, dalle rassicuranti parole di una madre alle grida violente di una donna disperata, lo spettacolo costruisce un percorso di partecipazione e ascolto. Il viaggio, la partenza, la lontananza, l’abbandono, la speranza, la paura della crescita e di un futuro ignoto diventano il centro delle infinite storie di migrazione che accompagnano tutte le epoche. Il Teatro del Piccione affronta questi temi con misurata delicatezza e, allo stesso tempo, senza la necessità di costruire intorno alla durezza del reale un filtro di protezione per gli spettatori. La paura è un’emozione che si può vivere, anche a teatro. (f.s.)

 Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti, Carlotta Tringali




Tristezza, dolore e riscatto: terza istantanea da Segnali

La terza giornata di Segnali ha portato l’eterogeneo pubblico, piccolissimi spettatori, ragazzi, famiglie e operatori, in un luogo prezioso: Bì, la fabbrica del gioco e delle arti. Uno spazio polifunzionale e dinamico che ospita un caffè, la biblioteca di Cormano, il museo del giocattolo con oltre 900 pezzi fra macchinine, bambole, trenini e tutti quei giocattoli che hanno accompagnato la crescita dei più piccoli tra il Settecento e la seconda metà del Secolo Breve, e il Teatro del Buratto.
Il Centro dell’infanzia di Cormano, nato nel 2010, fin da subito si è affermato come un’eccellenza, unico spazio dell’hinterland milanese completamente dedicato ai bambini. Molti i commenti sorpresi di genitori e nonni, più emozionati dei piccoli spettatori per la scoperta di un luogo unico nel panorama meneghino.
Gli oltre duemila metri quadrati di questa ex fabbrica dei primi del Novecento hanno iniziato a risuonare di risate, giochi e scaramucce fin dal mattino, prima degli spettacoli Un amico accanto della Compagnia Mattioli e Nemici di Panedentiteatro.

È una figura fantasiosa ad aprire Un amico accanto della Compagnia Mattioli  (spettacolo consigliato per i bambini dai 3 ai 7 anni): due corpi per una giacca, quattro braccia per due maniche e sei scarpe che si muovono, ma che non sono al loro consueto posto e ingannano la normale percezione. Le due attrici sul palco, Monica Mattioli (anche regista dello spettacolo assieme a Monica Parmagnani) e Alice Bossi, dopo essersi contese la giacca, diventano la prima il draghetto solitario protagonista di questa storia, e l’altra il servo di scena di nero vestito che con efficacia muove i semplici e pochi oggetti presenti nel lavoro. Stufo di giocare solo e ritagliare omini di carta, Drotto parte alla ricerca di un amico e lo fa con l’aiuto della fantasia: un semplice palloncino in mano, la valigia nell’altra e lo sguardo pieno di stupore gli permettono così di volare mentre le stagioni passano evocate dalle foglie autunnali portate dal vento, da coriandoli bianchi che ricreano la neve, rami di alberi fioriti in cui si imbatte il draghetto desideroso di confronto. Se elementi di leggerezza e giocosità non mancano, aleggia però su tutto il lavoro una costante tristezza: nel suo viaggio Drotto incontra dei personaggi buffi e curiosi che appaiono e scompaiono ma con cui è impossibile comunicare; l’unica infatti a parlare con lui è una mela che, essendo però commestibile, viene divorata da un tricheco. Al suo posto non rimane che un torsolo e la gioia del protagonista, di nuovo triste e solo, è confinata nella possibilità di giocare e correre intorno a un melo cresciuto grazie agli amabili resti della sua amica: forse in una società in cui le persone hanno “La fretta”, come dice spesso Drotto, e gli esseri umani non comunicano tra loro, l’unica consolazione è imparare a stare bene con se stessi, apprezzando la poche piccole cose che ci circondano, come la natura. (c.t.)

Siamo di fronte a uno spettacolo che parla di guerra, e che vuole farlo con i ragazzi più piccoli, dagli 8 anni in su, ma senza per questo tralasciarne le immagini più inquietanti e spaventose. Nemici della compagnia Panedentiteatro solleva delle questioni fondanti per chi pensa allo spazio teatrale come a un luogo di resistenza, in grado di infondere nel pubblico il desiderio di lottare, in particolare contro una visione del mondo che ci viene data da altri, dall’alto.
Una buca da trincea in cui si nasconde un solitario soldato, interpretato da Enrico De Meo, che non si chiama più per nome, ma con un codice identificativo, qualche barattolo di latta vuoto e un manifesto appeso ai sacchi di sabbia che lo proteggono dal nemico sono tutto ciò che compone la scena. Una scena circolare come i movimenti del soldato che, incalzato da una voce in falsetto fuori campo, continua a ripetere, giorno dopo giorno, le stesse azioni, senza senso, senza inizio né fine, senza la possibilità di fuga da quel buco claustrofobico in cui ha trascorso oltre 1200 giorni. La voce lo osserva, lo sprona all’odio per il nemico, non gli lascia respiro nemmeno negli unici momenti della giornata in cui potrebbe darsi pace: il pasto e la notte. Il soldato senza nome prepara la tavola con quel che ha: un baule, due bende, sei scatole di piselli, una gavetta, un elmetto e l’oggetto più prezioso, insieme al manuale del buon soldato, la foto di sua moglie, sola vera interlocutrice da quando il “compagno di buca” è morto. L’unico pasto della giornata viene interrotto dall’obbligo di ripetere l’alfabeto del nemico: A come abominevole, B come bestia, C come codardo e così via fino alla Z di zozzo. Dopo un’attesa da Deserto dei Tartari in un mondo tanto simile a 1984 di Orwell viene chiesto l’ultimo sforzo al soldato: attaccare il nemico, uno, solo, nella buca di fronte. Il cerchio della scena si ribalta, il nemico è scappato, e il nostro protagonista si ritrova in un mondo che è l’esatto speculare del suo: una trincea identica, gli stessi piselli, la stessa voce che parla in una lingua diversa, unica differenza… (c.f.)

Alle dieci del mattino il Museo del giocattolo di Bì, la fabbrica del gioco e delle arti è gremito di bambini piccolissimi, dai pochi mesi fino ai tre anni. Un pubblico tutto particolare quello di Ecco io qui. Narrazione sensibile per piccoli spettatori di Nudoecrudoteatro. Alessandra Pasi e Judith Annoni cantano una filastrocca, ammaliando i bambini, catturandone l’attenzione, riuscendo fin dai primi minuti a coinvolgerli nello spazio della scena. Questo è il fine di Ecco io qui, permettere ai più piccoli di sperimentare con tutti i loro sensi, guidati dalle attrici, i materiali e gli oggetti più disparati: cuscini di iuta, di lana, riempiti con grano e profumati come fiori, grandi quadrati di legno in cui entrare, tende di seta, specchi in cui riconoscersi o riconoscere l’altro, pezzi di legno da toccare o da suonare. Il vero spettacolo qui sono proprio i bambini che, sotto il vigile sguardo delle due attrici e delle mamme, sperimentano un mondo a loro misura, iniziano a conoscersi, giocano insieme, si prendono per mano per far scoprire al nuovo amico appena incontrato un cuscino particolarmente profumato, i giochi di luce che si possono creare con uno specchietto, la musica che può scaturire da una semplice corda tesa. Per tutta la durata dello spettacolo neanche una scaramuccia, nemmeno un pianto o un litigio e le attrici, spentesi le luci sulla scena, accendono piccole torce e cantano una canzone d’arrivederci di fronte allo sguardo luminoso dei loro piccoli spett-attori. (c.f.)

I trecento posti del Bì Teatro alle 11.00 sono gremiti di pubblico: nelle prime file i bambini e dietro di loro una folla di spettatori di ogni età. In scena c’è Becco di rame di Teatro del Buratto, uno spettacolo tratto dal libro del veterinario Alberto Briganti alla cui ideazione hanno lavorato Jolanda Cappi, Giusy Colucci e Nadia Milani, Matteo Moglianesi e Serena Crocco, questi ultimi anche in scena.
Ci accoglie all’apertura del sipario una notte senza stelle in cui le uniche luci provengono da piccole case fluttuanti nel nero della scena. Becco di rame è infatti uno spettacolo su nero in cui i protagonisti, tutti animali di stoffa, prendono vita grazie ai tre attori che li muovono senza mai far percepire la loro presenza, con grande stupore dei piccoli spettatori. Nello stile di un classico romanzo di formazione scopriamo la storia – vera – di un pulcino, salvato da un mercato e portato in una fattoria. Inizialmente solo, timido e spaesato incontrerà tre curiose galline, un po’ diffidenti perché incapaci di dargli un nome, troppo diverso da qualunque animale abbiano visto: è un cigno, o forse una papera? Il piccoletto non lo sa, si sente rifiutato, ma la conoscenza di Madame C., una cicogna viaggiatrice, e come tutti i viaggiatori esperta del mondo, gli permetterà di scoprire chi è: una regale oca Tolosa, capace di instaurare ottimi legami con tutti gli animali che la circondano. Il pulcino, accompagnato dalla sua famiglia adottiva, una coppia di innamoratissimi maiali, inizia a crescere: i click di una fittizia macchina fotografica fissano i momenti salienti della sua giovane vita. La mente corre all’infanzia di noi spettatori adulti, ogni frame ci appartiene, accomunandoci a tutti i bambini che assistono ridendo al primo compleanno del protagonista, ai suoi giochi, al primo bagnetto dal quale uscirà ormai grande. Divenuto oca da guardia il piccoletto è ora sicuro di sé e tiene al sicuro tutta la fattoria, ma un’enorme volpe meccanica si sta avvicinando pericolosamente. Nella lotta, un combattimento in perfetto stile disneyano, l’oca Tolosa perde la parte superiore del becco, ma riesce a scacciare il malvagio predatore.
Sarà un veterinario, quell’Alberto Briganti che ne ha scritto la storia, a salvargli la vita con una protesi in rame per il becco ed è a questo punto che tornano la paura di essere diverso e il timore di sentirsi nuovamente rifiutato. Invece la sua storia lo rende un simbolo di forza d’animo e coraggio, il suo becco sfavillante un esempio per tutti, grandi e piccini, del fatto che essere diversi non significhi essere peggiori. Alla fine dello spettacolo un emozionato Alberto Briganti è entrato nel Bì Teatro con una grande sorpresa per tutti: il vero Becco di rame sale sul palco, le sue grandi e grigie ali spiegate verso una tournée in scuole, teatri e centri culturali per far ammirare il suo lucente becco, per raccontare a chiunque abbia voglia di ascoltarla la sua storia. (c.f.)

Camilla Fava, Carlotta Tringali