L’universo è un materasso. Il tempo del teatro

Per Maggio all’Infanzia 2017 , al Teatro Kismet di Bari abbiamo visto L’universo è un materasso, di Francesco Niccolini, diretto e interpretato da Flavio Albanese. Recensione.

È proprio vero che quando ci si diverte il tempo trascorre più in fretta e quando ci si annoia non c’è modo di mandare avanti le lancette. Il teatro ci insegna, volta per volta, anche questo, che il tempo che ci prendiamo per assistere a uno spettacolo è di certo sottratto ai ritmi e alle logiche del vivere quotidiano, riorganizzato dentro codici e sistemi che sono e resteranno misteriosi. Invece di adeguarsi alle frenesie del presente, il teatro conserva l’opportunità di un’alternativa, uno iato che permetta di respirare, voltarsi indietro, perdersi. E a volte ritrovarsi.
È successo con L’universo è un materasso (e le stelle un lenzuolo), scritto da Francesco Niccolini per la regia e la potente presenza scenica di Flavio Albanese. La Compagnia del Sole (di cui avevamo parlato anche qui) ha la grande capacità di attraversare i generi in maniera orizzontale, tenendo vivo quell’artigianato della scena che si compone di pochi e vincenti elementi.

Lo spazio del Teatro Kismet di Bari si offre a una platea gremita di adulti e bambini, in una delle giornate della ventesima edizione di Maggio all’Infanzia diretta da Teresa Ludovico. Gli spalti rumoreggiano, le teste dei più piccoli si voltano di qua e di là in un buio che rende tutti sagome. Ma da quando luce si accende a quando si spegnerà per l’ultima volta, l’attenzione è tutta per Flavio Albanese.
L’attore pugliese indossa un completo scuro su una maglietta, bianca come i sottili guanti che vestono le mani. La folta barba castana macchiata d’argento e i lunghi capelli mossi lo disegnano nei panni perfetti di un personaggio della mitologia. Eppure non è solo questo. Per parlare del tempo, la scrittura rapida e precisa di Francesco Niccolini si fa bacchetta magica che tramuta costantemente l’unica figura sul palco: ora è narratore puro, presto diverrà Crono, messo “sotto processo” da tutti coloro che, nei secoli, si sono posti le grandi domande sul mondo.

Il racconto si snoda in quattro capitoli: dalla Teogonia di Esiodo attraversa l’epoca aristotelica, quella copernicana e infine approda a quella contemporanea, in cui calcoli irrazionali sembrano riportare nella mente degli scienziati lo stesso caos che aveva spinto Crono a separare la madre Gea dal padre Urano, dividendo finalmente la terra dal cielo. Alla grande razionalità di questa struttura drammaturgica si mette al servizio un vero e proprio mattatore, in grado di percepire le minime frequenze di attenzione del pubblico, di far dialogare fino a quattro personaggi grazie a minuscole variazioni nel registro della voce e di disegnare nel vuoto interi pezzi di universo.
L’immagine del materasso e del lenzuolo, allora, non è solo un modo per spiegare che il tempo ci può avvolgere, ma risuona nella grande elasticità di questa prova scenica, basata – ancor prima che sulla didattica – su una relazione di divertimento. Niccolini e Albanese non mettono a punto un’opera di puro intrattenimento, ma collaborano nel racchiudere una quantità (forse addirittura eccessiva) di informazioni dentro la vitalità del corpo in scena, ben sostenuto dalla semplice scena di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto, una trapunta nera che – come scandendo scena per scena – si illumina come un puntaspilli di stelle.

Il grande pregio di questo lavoro sta nella sapienza con cui i mezzi del teatro vengono impiegati in un’operazione di accompagnamento rispettoso dei ritmi e dell’immaginario del bambino e, insieme, dell’adulto. Il viaggio – pur così ampio nel raggio cronologico e a volte complesso negli snodi essenziali – procede senza alcuna concessione alla concitazione esagerata né all’esasperazione di pose e macchiette, correndo piuttosto una maratona eccezionalmente regolare, che porta quasi di sorpresa alla constatazione finale.
Le nuove frontiere della fisica quantistica e della teoria della relatività sono in grado, tramite il pensiero umano, di uccidere ogni dio e, forse, ogni tiranno, restituendo il controllo di un caos generativo alla capacità umana per eccellenza: la fantasia. In questo appassionante viaggio interstellare, allora, il teatro è la forma delle forme, lo spazio dove tutto compare e tutto scompare. «Le cose esistono solo se le fai esistere; le cose si vedono solo quando le illumini».

Sergio Lo Gatto

[Planetarium è un progetto di collaborazione tra diversi spazi online. Il diritto d’autore e la responsabilità dei contenuti di questo articolo appartengono a Teatro e Critica]

Teatro Kismet, Bari – per Maggio all’Infanzia 2017.

L’UNIVERSO È UN MATERASSO (E LE STELLE UN LENZUOLO)
Diretto e interpretato da Flavio Albanese
Scritto da Francesco Niccolini
Collaborazione artistica e Luci Marinella Anaclerio
Scena da un idea di Marco Rossi e Paolo Di Benedetto
Assistente alla regia Vincenzo Lesci
Foto e Video DIANE Ilaria Scarpa­ Luca Telleschi
Consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti
Consulenza musicale Roberto Salah-addin ReDavid
Si ringraziano per la collaborazione e il sostegno: Piccolo Teatro di Milano, Ammirato Culture Club House, Santarcangelo dei Teatri, Alcantara Teatro e Marta Marrone




Semplice o semplicistico? Terza istantanea da Maggio all’Infanzia

Ventidue spettacoli in quattro giorni, distribuiti in diversi spazi (Teatro Kismet, Teatro Abeliano, Casa di Pulcinella e la Libreria Svoltastorie), ma Maggio all’Infanzia non è tutto qui.
Tra uno spettacolo e l’altro, il giallo foyer del Kismet è popolato di bambini, con le voci che si sovrastano l’un l’altra; a sala riempita, le sedie blu rimangono vuote, tirate da un lato, pastelli a cera e fogli mezzi disegnati abbandonati sui tavolini.
Alla Casa di Pulcinella il pubblico arriva e può godersi la bella mostra dedicata a Emanuele Luzzati, con burattini e pupazzi in pezza, legno e gommapiuma, ma i più piccoli si misurano anche con la costruzione di figure di carta, sacco e pop-up nel Laboratorio di Pulcinella. Così come c’è modo, per gli studenti delle scuole superiori, di misurarsi con grandi temi contemporanei, nel laboratorio curato da Graziano Graziani attorno alla Costituzione e all’Utopia.
Questo per dire che abbiamo notato anche una grande attenzione alla dimensione dello “stare” del pubblico, una cura ricondotta alle pratiche della relazione, all’accoglienza di scuole e famiglie come incubatori dell’immaginario dei giovani spettatori.

 

Un’attenzione e una cura messe intorno a una programmazione che, soprattutto a confronto con quella di altri festival, si presenta però densa e concentrata. Se ci si sofferma sul cartellone, un calendario così serrato – che non sempre lascia a chi voglia seguirlo tutta il tempo per metabolizzare i pensieri – risponde di certo alla pluralità di esigenze introdotta da vent’anni di cittadinanza sul territorio ma, di conseguenza, pone la questione della qualità media delle produzioni.

Un aspetto su cui ci si è molto interrogati tra foyer e tragitti in pullman è il ruolo fondamentale assunto, in un festival di “teatro ragazzi”, dalla composizione della platea. Assistere all’intera vetrina con occhi adulti – appartengano essi ad artisti, critici o operatori e operatrici – rischia di tramutarsi in un atto limitante se quegli occhi non hanno modo di dotarsi, sempre, della presenza dei giovani spettatori. Soprattutto in quelle opere che misurano ritmi e snodi drammaturgici sulla percezione e sull’immaginario dell’infanzia, sarà per l’adulto difficile entrare se non “accompagnato” da un bambino. È stato il caso di La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, nel quale gli adulti hanno da un lato individuato alcune fragilità soprattutto nel passaggio da una sequenza all’altra di questo viaggio iniziatico, dall’altro riconosciuto l’impossibilità a vestire comodamente i panni del target per cui lo spettacolo era pensato. Perché, in parte minore o maggiore, sempre questo passaggio richiede una sponda di percezione in più, non necessariamente condivisa da tutti gli adulti in sala. In altre parole, di fronte a uno spettacolo ad essa indirizzato, la presenza di una collettività di bambini sarà sempre e comunque il termometro essenziale per stabilire la temperatura di una visione.

E tuttavia abbiamo anche abitato platee in cui l’adulto era “in minoranza”, confrontandoci con linguaggi che, programmaticamente, ordinavano i propri elementi in funzione di una fruizione infantile. Lorenzo Donati ha già parlato qui del paradigma del rispetto, su cui ci sembra di dover tornare nell’analisi delle forme di alcuni lavori.
L’arca di Silvia Civilla e Marco Alemanno (Terramare) ha proposto una volta di più lo stereotipo dell’adulto che scimmiotta il bambino, sintetizzando quest’ultimo in una creatura che si muove con grandi gesti didascalici, piange battendo i piedi e agitando i pugni e sgrana gli occhi per mostrare meraviglia. In questa fiaba originale i due, in un lungo sogno, soccorrono dal diluvio un’arca piena di peluche e dialogano con Noè. Il messaggio ambientalista contro lo spreco dell’acqua si innesta in un’odissea fantasiosa per superare la lontananza dai genitori: lo sforzo di magia scenica è però ridotto ai minimi termini, non riesce a proporre alcuna tridimensionalità e anzi scompone i passaggi di senso in quadri frontali su una scenografia immobile sotto alle (coloratissime) luci a led. Il rapporto con l’oggetto-peluche, che pure potrebbe portare a un interessante transfert e affrontare davvero i concetti di accudimento e protezione, è reso in una manipolazione poco curata e che dunque fallisce il salto verso una vera e propria animazione, perdendo più volte il contatto con lo spettatore (dai 3 anni).

Il colorato esperimento del Teatro Vascello su La Gabbianella e il gatto (adattato e diretto da Manuela Kustermann) sconta in parte la stessa criticità. Sul grande palco del Teatro Abeliano scenografie dipinte e ritagliate su pannelli di legno, appaiate in maniera poco chiara con fotografie proiettate sul fondale, non riescono a definire lo spazio, che finisce per essere occupato da parate e schiere di attori in costumi carnevaleschi, portati da un testo troppo verboso (a fronte della sintesi poetica del plot) a scivolare su stereotipi dialettali e su una scurrilità ripulita. L’inserimento delle canzoni e della musica, poi, non riesce a creare un vero e proprio contrappunto (su cui Schiaccianoci Swing, ad esempio, era in grado di fondare un’intera drammaturgia quasi senza parole). Anche stavolta, dunque, l’attenzione si perde, forse eccessivamente bombardata da dialoghi che non lasciano respiro alla riflessione.

Che cosa accade, invece, agli spettatori di Le 12 fatiche di Ercole del Teatro della Tosse? Ancora una volta sullo sfondo di una scena dominata dalla bidimensionalità, il divertimento si trasforma in intrattenimento frontale. Il fondale di legno che ospita un tabellone da gioco dell’oca diventa una teca dove, casella per casella, ospitare i trofei delle prove superate dall’eroe greco. Ma il tono generale, che nella sfida finale esplode nel goffo tentativo di coinvolgere l’intera platea di una domenicale, è vicinissimo all’animazione da villaggio vacanze. Se non si presta sufficiente attenzione al controllo delle forme, anche il contenuto si distorce: così incasellati, i simboli dell’antagonismo messi in fila dal mito arcaico si appiattiscono all’insegna della logica dell’affastellamento propria dei format televisivi. Nonostante il gran dispendio di energie dei due “conduttori” – perché mai la loro presenza si definisce in una pur distaccata mimesis attoriale – il messaggio si disperde e a essere sconfitto è il ragionamento del bambino, costantemente tirato per la giacchetta da un fuoco d’artificio all’altro.

Abbiamo però visto anche esperimenti più raffinati, come Vassilissa e la Babaracca di Kuziba, che in una scena cupa e ambrata organizza una meditazione sulla dualità tra accettazione e rifiuto. A partire dalla leggenda slava della Baba Jaga, la strega dei boschi che nella fiaba slava schiavizzava Vassilissa la bella, prende forma una sorta di “preferirei di no” bartlebyano usato come forma di redenzione a una totale remissività. Pur scontando qualche affanno nella gestione della corporeità dei due interpreti (divisi dalla baracca mobile che da elemento di meraviglia si trasforma presto in ingombrante architettura), la regia di Raffaella Giancipoli compone una guida originale verso un’iniziazione all’età adulta. Che infatti raccoglie e posiziona bene l’attenzione, con pochi segni e molta semplicità.

Sulla semplicità si fonda anche Il re clown di Pietro Naglieri (Skèné), una favola quasi patafisica che sembra fare il verso all’Ubu Roi – a sua volta caricatura del dramma moderno – per consegnare ai bimbi dai 5 anni un messaggio chiaro sulla creatività, sul potere dell’arte, sulla condizione di emergenza degli artisti, sulle distorsioni del potere. Uno spettacolo che potrebbe stare in una piazza come in un salotto, perché ben piantato su codici scarni, leggibili e rispettosi della fantasia dello spettatore. La qualità sta anche qui, nel saper condensare in una struttura rigorosa le potenzialità del divertimento, l’interazione e dunque la collaborazione tra palco e platea nella costruzione di un immaginario che non senta il bisogno di storpiare accenti, ritrovando invece nella caricatura la scintilla della satira culturale per tutte le età.

Più che con una diretta intenzione di critica negativa, certi esempi portati qui servono a individuare una possibile chiave, forse proprio quella di proporre, in forza di un “diritto del bambino al rispetto”, una feconda semplicità. Mettere a punto un sistema di segni che abbia il coraggio di porre domande e di lasciare aperta – nei ritmi e nelle forme del teatro, più che mai malleabili – la via per una risposta imprevedibile.

Sergio Lo Gatto




Il teatro, la musica, i bambini. Intervista a Cosimo Severo

Dopo Schiaccianoci Swing di Bottega degli apocrifi (lo abbiamo raccontato qui), per la regia di Cosimo Severo, abbiamo incontrato il regista per farci raccontare qualcosa del processo di lavoro. Ne è venuta fuori una breve conversazione riguardo i complessi e affascinanti rapporti fra musica e sguardo teatrale dell’infanzia, che qui trascriviamo in forma di dichiarazioni (a cura di Lorenzo Donati).


La musica e i bambini e il teatro-ragazzi
In Schiaccianoci Swing ci concentriamo sul rapporto fra musica e bambini. Mi chiedo sempre come fare perché la musica non distragga dall’aspetto narrativo: la musica sa raccontare mondi, ma se comincia il ritmo i bambini possono essere spinti a seguire solo quello, dimenticandosi di ciò che stanno guardando. Non si tratta di “mediare” fra musica e racconto: è più un lavoro per cercare le chiavi che permettano alla musica di essere racconto. Abbiamo lavorato molto perché i brani non iniziassero e finissero tirandosi l’applauso, ma ci accompagnassero piuttosto da uno stato d’animo all’altro.
C’è un pubblico che non bisogna mai tradire, ed è quello dei bambini. Si può fare un brutto spettacolo per gli adulti – qualche concessione alla superficialità la posso anche contemplare, con gli adulti – ma con i bambini questo non deve accadere. I bambini sono il pubblico più onesto possibile, e noi dobbiamo essere altrettanto onesti quando ci rivolgiamo a loro. Per me il teatro-ragazzi è una forma di rispetto, non un linguaggio. Si tratta di teatro, non penso che ci siano differenze negli strumenti linguistici che utilizzo, la costante è che cerco di sciogliere la complessità, per renderla immediatamente chiara. Quando facciamo uno spettacolo non possiamo pensare solo a noi, il teatro vive di una continua interlocuzione con gli spettatori, a maggior ragione se sono bambini.

Schiaccianoci Swing e lo sguardo dell’infanzia nel processo
Il nostro Schiaccianoci Swing è passato prima attraverso una costruzione musicale, curata dal nostro responsabile musicale, il violinista Fabio Trimigno (in scena nello spettacolo), che ha iniziato a rielaborare le musiche di Čajkovskij. Poi con Fabio – che studia da tempo la relazione fra musica e infanzia attraverso laboratori di musica d’insieme e percorsi tattili di creazione musicale in cui sperimenta la possibilità di far suonare insieme bambini e ragazzi da 4 a 12 anni – ci siamo domandati in che modo quella musica potesse “giocare” e arrivare fino ai bambini.
Infine abbiamo lavorato con Stefania Marrone, che ha dato un occhio sulla costruzione drammaturgica, cercando di capire se nei vari passaggi ci fossero coordinate capaci di rimandarci a una storia, che a sua volta è partita da Hoffmann per trasformarsi nella storia di una passione (una bambina che vuole suonare la fisarmonica). A quel punto è cominciato il rapporto con i bambini, non solo con le prove aperte ma attraverso laboratori che ci hanno permesso di rivolgere loro delle domande in modo diretto e di lasciar emergere le risposte un po’ alla volta.
Produrre uno spettacolo per adulti non mi fa lavorare in modo diverso, non si tratta di linguaggi differenti o di mettere a punto misure per alleggerire o semplificare, si tratta sempre di accogliere la complessità e, come dicevamo, di scioglierla senza semplificarla. Quando si semplifica si cade nell’errore e si finisce per fare uno spettacolo per bambini. Ma i bambini sono più intelligenti! Dalle loro idee dovremmo imparare e alla mia attrice ho chiesto di guardarli, di capire come osservano, come rispondono. Mai scimmiottarli, mai fare le vocine!

Nella musica s’intuisce che qualcosa sta cambiando
Ho chiesto alla musica di non prendersi troppo sul serio, di giocare con se stessa, di non farsi protagonista per esserlo davvero, le ho chiesto di essere umile e di avere autoironia.
Per questo abbiamo scelto di usare nello stesso spettacolo molteplici arrangiamenti della partitura di Čajkovskij; e per questo ci siamo presi la libertà di inserti inaspettati, da Morricone, al Can Can a Le Cicale.
Ognuno di questi inserti spalanca nuovi mondi: nella scena dell’arrivo dei topi Morricone da un lato ti fa sorridere perché non pensavi di trovarlo lì, e quindi spezza la paura, ma dall’altro ti apre al western, dunque a uno spiazzamento che ti rimanda a quegli intensi momenti prima dello scontro cruciale, dove l’emozione passa attraverso primissimi piani amplificati da una musica pontentissima, che ti fa pensare «Fra un po’ arriva il cattivo» (che poi è esattamente quello che accade quando nello spettacolo stanno per arrivare i topi!)
La musica amplifica l’emozione, è vero, ma Sergio Leone – visto che orami lo abbiamo tirato in ballo – va oltre la semplice empatia della musica. Così noi stiamo provando a fare in modo che i musicisti, che io tratto assolutamente come attori, lavorino per non essere parte integrante della musica, ma per essere il personaggio che suona, che come testo ha quelle note, suonate proprio in quella maniera. Questo li porta in alcuni momenti a lavorare in contrasto rispetto a quanto accade musicalmente, loro ci stanno perché lo facciamo assieme: dopo ogni replica rimetto in discussione delle parti dello spettacolo, vanno trovati dei modi per non sedersi e non accontentarsi dell’empatia della musica.
La musica è un elemento drammaturgico a tutti gli effetti in questo spettacolo, e sappiamo che errori possa portare compiacersi della drammaturgia, delle parole.
Le parole in scena sono azioni, sono al servizio e solo per questo preziosissime; la stessa cosa avviene in Schiaccianoci Swing per la musica.




L’istinto dello spettatore bambino. Intervista a Michelangelo Campanale

Abbiamo visto Biancaneve, la vera storia, prodotto dal Crest di Taranto con testo e regia di Michelangelo Campanale. Abbiamo intervistato questo artista attorno al suo processo creativo e all’esigenza di fare teatro per un pubblico di bambini.

Perché hai deciso di occuparti di teatro-infanzia?

Nel teatro delle nuove generazioni sento che c’è ancora il teatro. Nel teatro ragazzi il confronto è alla pari, è onesto, ti fa capire che le famiglie hanno bisogno di grande rispetto. Per questo è giusto affrontare il teatro ragazzi con molta meticolosità nel tentativo di portare il linguaggio del teatro per intero. Guardando mia figlia e il rapporto con la scuola, credo che il problema sia che oggi si affronta un solo linguaggio, quello verbale. Il teatro ha di certo il linguaggio verbale e forse uno dei principali problemi di oggi in Italia è che spesso solo quel livello viene considerato. Eppure i bambini hanno ancora tutti i linguaggi pronti, il punto è svilupparli: il teatro ti dà questa possibilità. È capace di inglobarli tutti, compresi cinema e nuove tecnologie. C’è la parola, sì, ma c’è l’immagine, la pittura, la luce, i costumi, le scenografie.
Si tratta di un passaggio fondamentale: in teatro si ha la possibilità di dimostrare ai bambini che non esiste solo la parte verbale e che la drammaturgia non è solo questo. Non è solo la parola, è anche la parola, tutto quanto deve arrivare insieme. Per me è importante, specialmente lavorando con le fiabe, comprendere che i discorsi vengono veicolati non solo dicendoli ma anche mostrandoli, mettendo un elemento accanto all’altro. Nella fiaba, un archetipo può essere forte nel momento in cui semplicemente arriva allo spettatore, non solo indicando le cose e chiamandole con il loro nome, per capirci, non solo dicendo che il fuoco brucia, ma dimostrando questa realtà attraverso tutti i linguaggi. Io, che ho un problema di dislessia, ho avuto difficoltà proprio in questo, non potevo passare soltanto attraverso la parola, dovevo arrivarci in qualche altra maniera.  Se la drammaturgia ospita tutti i linguaggi allora prorompe completamente la forza che deve avere il teatro.

Esiste una vocazione pedagogica nel teatro ragazzi? Come è possibile evitare il didattismo? Come il vostro lavoro riesce a non limitarsi a insegnare ma invece riesce ad accogliere delle istanze dentro la consegna di una visione?

Mi piace sempre lasciare che uno spettacolo abbia molte interpretazioni. Se lavoro spesso con la fiaba è perché la fiaba è antica, ed è stata scremata dal tempo; ha poche parole, ma sono quelle giuste, e – se aperta il più possibile e se viene il più possibile rispettata – mette sempre le persone in discussione. Spesso, nei miei spettacoli, mi capita che per la stessa scena gli spettatori piangano o si arrabbino. Nella maggior parte dei casi non è perché lo scelga veramente, ma perché raccontando la fiaba fino in fondo, portando il racconto alla radice, guardando la fiaba anche dal punto di vista antropologico, questa muove elementi di cui io stesso non sono consapevole. Se si vuole fare arrivare un certo messaggio è secondo me importante lasciare alcune ambiguità, in modo che lo spettatore bambino possa lasciar agire il proprio istinto.

Parlando de Biancaneve, la vera storia, ho trovato molto forte l’idea dello specchio come figura che divide due metà: quella della madre e della figlia, che per tutta la drammaturgia non fanno che inseguirsi in una somiglianza. Mi sembra un tema molto attuale. Come si affrontano i temi problematici della contemporaneità con un pubblico di giovanissimi?

Io vorrei sempre tentare di non essere retorico. E dirselo è già sbagliato. Penso che se ci si mette al servizio del racconto si scoprono i suoi elementi. Ad esempio, l’idea di lavorare su Biancaneve è venuta osservando mia moglie e mia figlia a tavola. Nelle piccole cose mi sono reso conto che quello è un luogo di battaglia, dove si può decidere tutto: io ti ho dato la vita, ma posso darti anche la morte. Nella crescita ti rendi conto che quell’intimità è importante. Ho osservato tutti gli allievi che ho conosciuto nei laboratori che la mia compagnia – La Luna nel letto – conduce e tutte le persone che in questi venti anni hanno lavorato con me, incontrando – a stretto contatto anche con la psicologa che segue tutti i miei lavori – anche persone affette da anoressia o bulimia. A un certo punto Biancaneve racconta della madre e ho scritto il testo pensando proprio a questo: «Ci sono madri che possono dare alla luce e madri che possono spegnere la luce».
Ho tante persone in compagnia e ho visto quanto le madri entrino in confusione proprio a tavola; le lotte di potere arrivano proprio lì, se il bambino non vuol mangiare, ad esempio. Siccome quello è un fatto istintivo, il bambino riconosce tale dinamica ed è lì che nasce il ricatto, il potere. È lì che, se le carte non vengono giocate bene, può succedere un guaio.

Il potere è al centro della tua lettura, dunque…

È difficile inquadrare Biancaneve, perché è una fiaba così piena di materiali che non voglio costringerla al solo ragionamento sul potere. Però questo è un tema a cui sono molto legato. Io mi sono innamorato di Il trono di spade, ci sono infatti anche molti riferimenti nei costumi. In una delle prime puntate un grande re spiega a un ragazzino che si appresta a governare che cosa sia il potere. È molto affascinante. Il potere tra la madre e la figlia è complesso, perché tutto il lavoro sta sulle piccole cose, i ricatti si muovono sui dettagli. Io ho visto ragazzine distrutte dalle madri. E allora ho pensato che di attuale c’è questo. Tuttavia sento il bisogno di tenere un’ambiguità sul ruolo della madre. Tutti i bambini, quando per alzata di mano faccio questa domanda, per difendersi dicono che quella madre è una “matrigna”. L’escamotage della parrucca che cambia spinge i bambini a identificare un passaggio da madre a matrigna, la vedono diversa da quella che è all’inizio. Però, voglio dire, pensiamo a Medea, una storia che arriva da molto lontano. Quante madri, in senso metaforico o reale, uccidono i propri figli? I bambini non possono sopportare questa idea, però nella storia originale – non quella dei Grimm – pare che quella matrigna sia invece proprio la madre di Biancaneve. Io tengo quell’ambiguità, ho tolto la battuta che chiariva questo passaggio, su consiglio della psicologa, e ora ognuno ci vede quello che vuole.

Anche il rapporto con il cibo è a mio modo di vedere molto attuale. Quella battuta della madre – «Mastica e ingoia» – è presa fedelmente da una conversazione udita in un ristorante, era una madre a parlare alla figlia. Quell’«ingoia» riduce a qualcosa di meccanico un atto conviviale. Infine, il tema dell’invidia: quante madri si vestono come le figlie e non vogliono invecchiare? Nella scena finale abbiamo inserito Sei bellissima di Loredana Bertè. Quella canzone è meravigliosa perché quel suo conflitto con Dio, sulla bellezza che lei pure aveva da giovane, l’ha portata a quello che è oggi, lei è proprio una strega. Bertè avrebbe dovuto morire a 27 anni come tutti i cantanti rock maledetti, sarebbe stato un mito, perché lì senti proprio lo struggimento e la potenza di questa artista; quel testo, allora, diventa giusto per quella scena, si tratta di simboli che identificano il rapporto delle madri con l’invecchiamento e la perdita della bellezza.
L’attualità sta anche nell’ultima battuta. Adesso si parla di immigrazione e della tragedia dei profughi bambini. Io dico ai bambini spettatori che sono già fortunati per il fatto di essere nati in Europa e non in un paese in guerra, sono fortunati di trovarsi ora in un teatro. Noi raccontiamo di un bambino (il nano Cucciolo, ndr) che ha conosciuto Biancaneve, ma quando siamo andati a fare ricerca sulla fiaba originale abbiamo scoperto che nella foresta dello Spessart, in Germania, dove è ambientata, fino a poco tempo fa nelle miniere non lavoravano solo i nani, ma anche i bambini.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale è sempre più rapido e incontrollabile. Come tieni conto di questi nuovi ritmi? Può il teatro entrare in relazione con quei ritmi?

Se c’è rispetto dell’arte teatrale intesa come artigianato, che nel corso dei secoli ha inglobato praticamente tutti i linguaggi, allora sarà di per sé già in dialogo, in confronto con il modo contemporaneo di comunicare.
La mia compagnia ha da poco prodotto un allestimento de L’abito nuovo, testo scritto da Pirandello e De Filippo. In questo testo si vede proprio la differenza tra i due: il secondo ha respirato il palcoscenico, è nato lì sopra, infatti c’è stato un conflitto da un teorico e un pratico. Le parole di De Filippo parlavano al pubblico, non sempre anche quelle di Pirandello. De Filippo si domandava sempre come e soprattutto perché dire questa o quella battuta. Aveva 30 anni quando ha scritto quel testo insieme a un Premio Nobel.
Dunque dico che se si porta la sapienza del teatro con tutti i suoi linguaggi, basta quello.
Nello spettacolo ho voluto lasciare momenti di silenzio assoluto, di ritmo basso, ma se c’è tensione quella tensione se la godono tutti. In Biancaneve c’è una scena in cui la protagonista si avvicina lentamente alla mela offerta dalla madre e in tutte le repliche si produce a un’attenzione assoluta, un assoluto silenzio.
Il teatro è allora un’occasione per impostare un ritmo alternativo, ma non puoi non tenere conto del modo in cui gli spettatori sono abituati a interagire. Per me il contatto con i bambini è fondamentale nei laboratori, proprio per capire quali sono le domande, di che cosa bisogna parlare, che cosa bisogna studiare approfonditamente. E nei laboratori e nelle prime presentazioni al pubblico devo immediatamente capire che ritmo hanno i bambini, un ritmo che cambia di anno in anno e che ha bisogno di una precisa qualità dell’attenzione, che va creata. Devi misurarla con loro, che possono essere molto più onesti e diretti degli adulti. Allora i ritmi dello spettacolo si assestano facendolo, la tensione va creata ogni volta, devi capirlo insieme a loro.
La bellezza è che i bambini, interrogati, ti rispondono in maniera diretta dicendo che si annoiano, quella è la bellezza del teatro ragazzi. Torno qui alla prima domanda. Io faccio anche regie di prosa, ma non è la stessa cosa. Qui incontri il pubblico, senza nessuna costruzione dietro, incontri persone che non sono mai entrate in un teatro. Alle domenicali trovi bambini, genitori e nonni, tre generazioni di spettatori nella stessa platea. È lì che respiri il teatro, è la più grande soddisfazione.

 

Sergio Lo Gatto




La menzogna la sessualità la crescita. Intervista a Claudio Intropido

Abbiamo visto L’arte della menzogna di Manifatture Teatrali Milanesi, un monologo scritto da Valeria Cavalli e interpretato da Andrea Robbiano, che narra di un adolescente tormentato dalle bugie come via d’uscita verso una complessa situazione identitaria. Abbiamo incontrato il regista Claudio Intropido per un’intervista che approfondisce alcune scelte artistiche attorno a una tematica ancora oggi considerata spinosa, quella dell’omosessualità. Glo abbiamo posto due domande legate al procedere drammaturgico e alla scrittura di scena.
La bugia e l’identità
Siamo partiti dall’atto di raccontare bugie. Le bugie ci appartengono, servono per difenderci e per attaccare, per esprimere delle paure e per molte altre cose. È emersa subito questa tendenza a raccontare bugie sulla propria identità, accorgersi a un certo punto che c’è qualcosa dentro che si prova imbarazzo a esprimere. Volendo lavorare sulla menzogna siamo partiti dal desiderio di Diego, il nostro personaggio, di confessare al padre fin da subito questa “menzogna più grande”. Abbiamo pensato a un inizio dove Diego arriva in una sorta di confessionale in cui parla al padre, dunque abbiamo cominciato dalla fine. Da lì Diego si stacca e riavvolge il nastro per ripartire dall’inizio.
Un giorno Valeria mi ha detto che per raccontare la menzogna più grande e tornare indietro a tutte quelle che hanno caratterizzato la vita del protagonista, sentiva la necessità di scrivere la storia di due gemelli. A volte succede che le mamme si sentano in colpa di aver generato un figlio “non giusto”. Ma non c’entra niente il pensiero del “giusto/non giusto”: dalla stessa madre possono nascere, anche contemporaneamente, due figli con due diverse identità sessuali. Sulla base di questo Valeria ha cominciato a scrivere. Una volta istituito tale collegamento abbiamo tradotto in immagine tutto quello che Valeria aveva depositato su carta, partendo dalla sequenza iniziale (che cronologicamente corrisponde al finale) e snocciolando tutto il percorso. Ci è sembrato di essere arrivati a parlare di un argomento delicato senza però porre l’omossessualità come fuoco centrale.

Una storia sull’omosessualità?
Non è questo. Un adolescente a un certo punto si pone delle domande, riceve dei messaggi, sente nascere qualcosa, sente che c’è o un cambiamento o una persona in particolare, una calamita che lo attira, una situazione che lo distrae o lo spinge a pensare, senza giudizio. Questo percorso in cui l’adolescente entra deve sbocciare da qualche parte, il protagonista ha bisogno di uscirne fuori.  Abbiamo a un certo punto capito che nel suo gioco – siamo partiti da bugie incredibilmente semplici come la torta della nonna che non piace – inevitabilmente il personaggio si scontrava con la bugia, che Diego scopre quasi senza saperlo. La svolta avviene a una festa, quando la bella Eleonora lo bacia e lui pensa: questo bacio non mi ha fatto pensare a niente, non mi ha fatto né caldo né freddo. Ma a un adolescente può capitare di baciare una ragazza e non sentire niente. Magari quella non è la ragazza che fa per lui: non necessariamente quel passaggio deve diventare così importante nel suo percorso di crescita.
Siamo andati a scomodare Rimbaud e Verlaine perché, secondo Valeria, dal momento in cui l’adolescente sente di aver trovato una scintilla che lo porta alla riflessione, che gli fa pensare di stare finalmente tirando fuori qualcosa, da lì in poi il suo percorso cambia. Nello spettacolo abbiamo voluto infondere un grande rispetto nei confronti di una scelta simile a quella del nostro protagonista, la scelta di mentire a se stesso ma di fedeltà al padre, di lealtà con la famiglia. Diego pensa di essere leale anche con se stesso ma, nel momento in cui scopre l’amore, forse gli si accende la luce che pone una domanda: «Perché mi sono sempre nascosto dietro le bugie? Che cosa nascondevo?» Forse era diventata un’abitudine per difendersi o per compiacere, ma la verità meravigliosa dell’amore sblocca la situazione. Non vale la pena nascondersi, tutto è così bello, semplice, naturale, a portata di mano, condivisibile.

Le domande dei ragazzi
Le tappe che abbiamo percorso per arrivarci sono state una prima lettura, ma soprattutto abbiamo discusso molto l’argomento, come affrontarlo. Volevamo arrivare a fare della crescita un filo conduttore, come se fosse la sua esperienza a portare Diego a essere sincero con se stesso e con quello che gli sta capitando. Quando Diego incontra l’amore pensa di essere arrivato. A questo punto la costruzione del proprio io è compiuta.
Tuttavia, ripeto, non è uno spettacolo sull’omosessualità. Il confronto con i ragazzi – sia i più grandi che quelli delle medie – ci ha dimostrato molta lucidità e chiarezza: parlano anche loro di amore. Quando a un certo punto Diego dice: «Bastavano due parole: sono innamorato», un ragazzo di un liceo ha gridato: «Giulia, ti amo!». Alla fine dello spettacolo si è scusato, ha preso la parola dicendo: «Probabilmente sono frocio anch’io, perché ho pianto tutto il tempo», aggiungendo però che lo aveva fatto perché era un momento così intenso che lo aveva portato necessariamente a esprimersi.
Le domande che i ragazzi pongono sono sempre sul sentimento, sull’esperienza. Non solo sull’esperienza dell’identità sessuale che viene a galla, ma anche sull’amicizia, sulla lealtà, sull’onestà, sull’essere sempre a disposizione. Non solo i ragazzi del liceo, ma anche quelli delle medie. Per esempio a Latina sono rimasti molto silenziosi durante lo spettacolo, ma dalle loro domande finali non è emersa nessuna questione stupida; quasi fatalmente arriva una domanda per l’attore, gli si chiede se anche lui sia omosessuale, ma con il procedere della discussione i ragazzi e le ragazze riflettono sull’amore in forma assoluta, non necessariamente sull’orientamento sessuale.
Si sente di tutto e di più attorno a questo argomento, oggi. Abbiamo portato lo spettacolo a Roma e una sera abbiamo invitato le insegnanti, un centinaio. Abbiamo poi ospitato un piccolo incontro e abbiamo verificato la difficoltà delle insegnanti a proporre – inevitabilmente, aggiungo io – un percorso che conduca a una chiarificazione dell’esperienza e quindi a essere sinceri nel raccontare un fenomeno come questo. Ma che male c’è? Il fatto di poterlo esternare purtroppo ancora oggi è un tabù per i genitori.
Il linguaggio della scena: c’è solo l’attore
Certo, è una scelta, volevamo un racconto in prima persona portato da un personaggio. Andrea Robbiano, come attore, attraverso la parola riesce ad avere un feeling molto diretto, a tenere bene la concentrazione, ha la capacità di farsi ascoltare. Così pensiamo faccia vivere la propria esperienza anche agli spettatori. In quel momento si tratta di spettatori passivi che ascoltano, ma a cui l’attore muove inevitabilmente delle corde emotive. Qualsiasi cosa noi vediamo sulla scena muove delle corde emotive, che sia molto scenografico o molto verbale, muto o musicale.
Siamo partiti dalla storia che va raccontata. Io me lo immaginavo seduto su una sedia a raccontare, nelle prove Andrea ha portato la chitarra, quindi è iniziato un percorso attraverso la musica grazie a delle sue proposte che abbiamo esaminato e discusso. Non ci sembrava assolutamente utile porre qualsiasi elemento scenografico in più, abbiamo deciso di aggiungere solo qualche sedia e un tavolo, per creare una situazione casalinga in cui si muove la storia, articolata anche in una serie di luoghi concreti e metaforici come la stazione, la partenza, il rapporto con il padre ecc. Abbiamo dunque scelto degli elementi semplici, è una storia che l’attore racconta, io credo che la magia del teatro sia proprio quella di un attore che si siede su una sedia e racconta facendo immaginare qualsiasi cosa.




Il diritto del bambino al rispetto. Seconda istantanea da Maggio all’Infanzia

Un attore sul palco indossa un abito dai colori spenti, tutto lo spazio è suo, lo guardiamo raccontare la storia di Don Lorenzo Milani, la sua voce è amplificata da un microfono ad archetto, la voce interrompe il silenzio, il campo visivo è tutto aperto, la sua figura sta al centro di un piccolo boccascena. Racconta da attore rivolgendosi a noi spettatori, a tratti interpreta “cadendo” nel personaggio, secondo gli essenziali pauperitstici e ricorrenti stilemi della performance epica di narrazione. Racconta di Lorenzo mettendo in luce soprattutto i suoi burrascosi rapporti con la chiesa, la cacciata da Calenzano, gli strali dei cardinali, con i tentativi di isolamento che finirono per aumentare la risonanza dell’azione del parroco, almeno nel tempo successivo alla sua morte. Tratteggia velocemente il suo “fare scuola”, dove a turno si diventava maestri e allievi perché la sapienza appartiene a tutti, dimostrando che dal confronto e scontro e dialogo “vero” con i bambini non possiamo che imparare tutti, quotidianamente. Guidare qualcuno e che nessuno resti indietro, ci ricorda Don Milani nel racconto appassionato dello spettacolo Cammelli a Barbiana di Inti / Thalassia (di e con Luigi D’Elia, scritto insieme a Francesco Niccolini e diretto da Fabrizio Saccomanno). Il primo passo necessario è guardare a noi, al nostro rapporto con i bambini, alle parole che usiamo per parlare con loro, ai discorsi e alle immagini che mettiamo loro di fronte agli occhi. Se “fare scuola” è un modo per “liberare”, allora raccontare attraverso il teatro dovrebbe essere un tentativo di liberazione con altri mezzi. Ogni opera d’arte che affermi di voler dialogare con bambini e ragazzi dovrebbe avere da qualche parte un nocciolo che lavora per “liberare” i più giovani, almeno dai gorghi uniformanti dell’intrattenimento che spegne ogni domanda sulle bruttezze del mondo, dalla solitudine innescata dall’uso solipsitico dei social media come surrogati delle relazioni (famigliari, in primis), ma anche dalla tensione fruitiva frammentata imposta dai mille “tasks” dei nostri dispositivi, quando predomina il lato che disincentiva la capacità di autonomi procedimenti di simbolizzazione e interpretazione. Che senso ha, un’arte per l’infanzia, se almeno in parte non prova a coltivare questo spirito?

Grazie al meritorio lavoro delle Edizioni dell’Asino, negli ultimi anni è stato riscoperto un fondamentale testo del medico e pedagogo Janus Korczak, vissuto durante la persecuzione razziale e morto in campo di sterminio. Il “diritto del bambino al rispetto” è una delle sue formule più note, presenti in scritti dove si afferma che “piccolo” non può né deve essere sinonimo di minore, o mancante, o debole (qui si possono trovare diversi materiali di approfondimento, come una lettura del testo di Moni Ovadia in mp3). Citiamo Korczak perché alcuni spettacoli del cosiddetto teatro ragazzi sembrano dimenticare il principio del rispetto, ma anche le generali idee di liberazione di Don Milani, producendo linguaggi non all’altezza della grande sfida dell’infanzia. Si potrebbe descrivere così questo principio: siamo a teatro insieme a bambini e ragazzi, quello che vediamo riguarda noi come loro, ci entreremo con domande diverse ma il mistero del teatro, la sua alterità, la sua ricerca di senso devono investirci ugualmente. Fate vedere ai bambini quello che vorreste vedere voi, diremmo con una massima quasi evangelica. Tenendo anche presente l’universo audiovisivo nel quale siamo tutti immersi, prodotto maturo dell’ideologia dei nostri tempi, il consumo, per il quale conta prima di tutto intrattenersi, divertirsi, cazzeggiare e mai fermarsi a pensare e dubitare.
La coppia di bambini raccontata in Fratellino e sorellina di Ruotalibera mostra una condizione infantile scimmiottata da due attori adulti con mossettine del corpo e vocine sottili, un fingersi bambini senza giocare a farlo. I due si riprendono con una telecamera “del padre” che rimanda un fondale sbiadito per carenze tecniche; lo spazio è delimitato con semplicistiche linee verdi sagomate dalle luci del palco, ogni tanto le azioni sono inframezzate con canzoncine televisive che risultano fuori tempo massimo, dalla D’Avena a Happy Days. Perché presupporre che al bambino basti così poco? Infatti nessuno ci crede e la sala rumoreggia senza sosta.

Arabesk è la produzione del Teatro Abeliano, per la regia di Vito Signorile, lavoro dove la schematicità narrativa si basa sulla stessa mancanza di rispetto aggravata da un’enfasi didattica. La nonna sul lato cuce i fili del tempo scenico, dentro a un ruolo di narratrice che semplifica l’arte del racconto come se chiunque potesse dire: “ora ti racconto una storia!” e risultare credibile, facendo comparire attori che mimano personaggi sbozzati, trattati come macchiette. Ci sono gli animali di Pierino e il Lupo, nella prima parte, con le peripezie fiabesche e con il lupo che grida gracchiando di essere cattivo, il gatto che parla un inglese maccheronico, l’oca cicciottella che cinguetta con la voce stridula, l’uccellina che sorride come se il mondo fosse bello roteando le braccia contenta, con Pierino paffuto, le gote rosse, illuso e sorridente e molleggiato. La nonna è impegnata a spiegare la corrispondenza fra le tracce audio di Prokof’ev e i diversi personaggi, in una lezioncina che corre parallela alle vicende. Tutti sappiamo come andrà a finire e chi verrà mangiato, capiamo da subito che entreranno in scena i cacciatori e risolveranno vicende narrate assecondando un registro recitativo semplificato, smaccatamente ironico, quasi autoparodico. È questo mondo narrativo che stiamo preparando per i nostri bambini? Staranno dentro a questa melassa dove tutti fanno battute e nessuno fa ridere, dove il lupo è cattivo perché è la fiaba che lo prevede (ma a ben vedere è buono anche lui, suvvia), dove il teatro si confonde con uno show televisivo che scimmiotta il musical, come nella seconda parte giustapposta alla prima e introdotta dalla nonna? Probabilmente sì, ed è un grande problema. Il secondo tempo cambia ambientazione ma non registro, è un fantasy ispirato a L’apprendista stregone, attori e attrici entrano nei panni di indispettite scope che allagano le stanze rispettando una maldestra formula magica del mago apprendista, e ci chiedono di credergli perché indossano bizzari costumi e si muovono a scatti senza nessuna invenzione corporea.

Un esempio di “rispetto” lo si è visto a nostro parere in La mia grande avventura del Teatro delle Apparizioni, una scrittura di Fabrizio Pallara e Valerio Malorni, con quest’ultimo in scena. L’attore interpreta un uomo che racconta del se stesso bambino, e del suo “sprofondamento” nel bosco, un al di là dello specchio topos di diverse peripezie fiabesche, come accade per esempio nella versione animata “boschiva” di Hayao Miyazaki in Il mio vicino Totoro. Dobbiamo entrare in un bosco, ci dice l’uomo, invitandoci a sospendere l’incredulità, insieme, bambini, ragazzi e adulti. Lui sta in una scena che odora di resine e che sparge effluvi, riempita di ceste, latte, tronchi, ramazze, cappelli, pentole, ganci, taniche, radio. Ha uno strano accento sudamericano, dentro al bosco incontrerà spiriti maligni che daranno il via a nuove avventure e visioni, dietro a un velo appariranno fantasmi, animali fantastici, occhiacci di fuoco, udiremo gufi e vedremo gorilla, il tutto in uno spazio a portata del nostro sguardo, concreto e tangibile eppure trasfigurato, mentre un percussivo quasi costante riempie l’ambiente sonoro. Qui stiamo tutti (grandi piccoli e medi) di fronte a un rito di passaggio sciamanico, in ascolto di un romanzo di formazione magico, rapiti da quella presenza, scordandoci a volte delle tappe narrative, degli incontri, delle prove, insomma della “storia” che si dipana di fronte a noi. Ed è forse qui l’unico nodo che può essere sciolto del lavoro, anche se i nodi forse non vanno mai del tutto districati.

 

Lorenzo Donati




Quanto teatro c’è nel teatro ragazzi? Prima istantanea da Maggio all’infanzia

Maggio all’Infanzia è molto più di un festival, è un denso momento di ritrovo per un intero ambiente. Sotto un sole incandescente ma temperato dalla brezza spinta avanti dal mare, artisti, operatori e spettatori più o meno giovani si incontrano attorno a una programmazione fitta di spettacoli e attività collaterali (dal 18 al 21 maggio 2017). Non è facile, dunque, dare conto di questa fervida attività, anche perché il ritmo altissimo porta chi attraversi il festival a confrontarsi in breve tempo con una pluralità di linguaggi, di stili, di urgenze tematiche e modalità di presentazione.
In questa prima istantanea da Bari, allora, sperimentiamo un approccio che dai singoli spettacoli parte e che a essi ritorna, ma tenendo come bussole alcune istanze generali che possono forse stimolare un ragionamento più ampio.

Altrove, soprattutto di fronte a quegli spettacoli che portano temi controversi e che introducono svolte di semantica non del tutto pacificate, ci siamo trovati in passato a domandarci se del teatro venga realmente evidenziata la capacità di offrire una lente caleidoscopica, complessa e stratificata.
Tutti gli elementi che lo caratterizzano – la fruizione collettiva, l’insieme di rituali che lo rendono un evento di socialità, ma anche la straordinaria universalità dei linguaggi – sono di per sé garanti di opportunità di comunicazione ogni volta nuove, in potenza mai davvero prevedibili.
Cerchiamo qui di osservare come i primi spettacoli visti siano aperti a misurarsi con tutto lo spettro della teatralità.

 

 

Lo Schiaccianoci Swing, immaginato da Cosimo Severo per la Bottega degli Apocrifi, riesce davvero a catturare anche i più piccoli, proponendo un ingegnoso miscuglio di performance musicale e teatro fisico. La fiaba originaria di E.T.A. Hoffmann si tramuta in un lungo sogno dadaista, riorganizzato in uno spazio ampio e ben disegnato, con uno schermo di tela e di alluminio, una poltrona che corre su ruote dove si addormenta la piccola Marie. Nell’animarsi, i giocattoli finiscono preda di una sorta di incantesimo che – e lo si capisce nelle note di contrabbasso, percussioni, chitarra e violino e nel modo in cui vengono suonate – minaccia continuamente di mandarli in mille pezzi. L’attenzione degli spettatori – una platea gremita nella sala grande del Kismet – è tenuta da un semplice ma raffinato gioco di luci e controluci, da un utilizzo ritmico e però garbato dello spazio, anche aiutato da una giusta prossemica. In questo tentativo di transizione di linguaggio (da fiaba a concerto) si ripensa in maniera originale lo schema drammaturgico (di Stefania Marrone), si sfruttano gli strumenti del teatro per guidare anche in un’appuntita ricerca musicale, che spazia di genere in genere e finisce per farsi parola.

Per certi versi simile è Biancaneve, la vera storia, il progetto del Crest che produce un allestimento di Michelangelo Campanale pronto a riconsegnare in una nuova veste la figura complessa di Biancaneve. Il punto di partenza è la fiaba originale tedesca, ben lontana dalla “messa in zucchero” di Walt Disney del 1937 (sbeffeggiata nella prima scena) e invece orbitante in un universo cupo e poco rassicurante. Qui la matrigna vanitosa è prima di tutto una madre, che sceglie di ripudiare la figlia per il timore che le usurpi il trono della bellezza. La storia è narrata da uno dei sette nani, ed è mirabile l’uso della struttura drammaturgica, divisa in sette racconti (uno per nano), in grado di regalare al pubblico gli strumenti per dividere cognitivamente sequenze e durata del racconto. Il tema della dualità aspetto esteriore/aspetto interiore (come dire superficie e profondità) è trattato, insieme a un fine ragionamento sul potere, con garbo ed eleganza, anche qui facendo leva sulla sapiente creazione di uno spazio di “maraviglia”, semplice ma efficace, come in molte scene curate in passato da Campanale. Se c’è una piccola resa alla retorica sta nel messaggio lanciato al giovane spettatore, che nell’epilogo viene distanziato e rimesso al sicuro, come se una storia di abbandono così terribile non potesse davvero riguardarlo. Ma in un ritmo incalzante ma non forsennato trovano posto una accanto all’altro comicità e lirismo, si può parlare di morte e di paura, di cattiveria umana e di redenzione.

La questione se i mezzi del teatro ricevano o meno giustizia è materia anche per altri tre lavori visti in questa prima giornata, messi a punto non certo con sciatteria, ma in qualche modo legati da una sorta di compressione delle possibilità.

Quelle ragazze ribelli del Teatro Due Mondi sceglie il teatro per ragionare sulla necessità di opporsi alle «convenzioni, discriminazioni, stereotipi culturali», espressa da cinque donne, diverse per provenienza e per momento storico vissuto. Nelle note si parla di «conferenza spettacolo»: e in effetti la modalità didattica è chiara fin da subito, dall’uso dello spazio, liberato per ospitare solo uno schermo bianco, dove a volte corrono ombre e sagome. Il resto dell’azione è un dialogo con la Storia, apparentemente distaccato, e tuttavia reso più personale dall’effettiva impersonificazione delle due con i vari personaggi. Si tratta certo di simboli più che di personaggi, ma proprio questa minuzia di rappresentazione (soprattutto nell’anziana “staffetta” che ricorda gli scampati pericoli nel passare le informazioni ai partigiani), pur se temperata con l’ironia, rende meno chiara l’impostazione generale. L’abbondanza di esempi, che necessita ogni volta di una spiegazione da zero del contesto spesso gravida di termini complessi, finisce per sovraccaricare di informazioni i piccoli spettatori, senza fornire loro indicazioni di linguaggio sufficientemente coerenti. Allora, pur essendo da lodare il tentativo di approcciare temi complessi, la Resistenza, le proteste punk delle Pussy Riot e una crociata individuale contro la segregazione razziale vengono consegnate all’interno di un sistema di segni non sufficientemente chiaro, che tenta di far rientrare nello schema conferenza un vortice di linguaggi, rischiando di appiattire le profonde differenze di contesto tra gli esempi scelti e lasciando l’archetipo “girl power” come unico appiglio.

L’arco di Atalanta di Luna Comica, in scena alla Casa di Pulcinella, riprende il tema della «eroina in mezzo agli eroi» poggiando sulla scrittura di Gianni Rodari e sul corpo e la voce di Carla De Girolamo. La trama mitologica che fa da colonna è già per sé molto densa e ricca di riferimenti culturali, geografici e tematici. Se nelle prime sequenze il gesto pulito e la voce presente dell’attrice riescono a tenere insieme l’attenzione dello spettatore, è quando da un’avventura si entra nell’altra che il corpo – pur esperto nel gestire la centralità del palco – sembra non bastare più. Il linguaggio della narrazione finisce per plasmarsi troppo sulle cadenze dialettali utili a differenziare i personaggi, dimenticando come le proprietà trasformative degli oggetti e della figura e il disegno delle luci possano essere fondamentali nell’architettura del racconto teatrale. Pur se solide appaiono certe posture dello scheletro e certe inflessioni della voce, il ritmo si appiattisce in una storia troppo ancora ancorata al respiro della letteratura.

 

Le Manifatture Teatrali Milanesi producono invece un interessante «kit didattico» attorno al loro L’arte della menzogna, un monologo scritto da Valeria Cavalli e da lei diretto con Claudio Intropido. I destinatari sono gli insegnanti, sponda per i riceventi primari, gli alunni. Il tema dell’omosessualità è associato alla difficoltà di posizionare un’identità complessa dentro a un mondo che pare organizzare le proprie conoscenze sul principio di riconoscibilità. Il generoso lavoro dell’attore, Andrea Robbiano, consegna al pubblico dai 12 anni in su una narrazione in prima persona che attraversa il vissuto di un giovane milanese tormentato – fin dalla prima adolescenza – da una straordinaria capacità di mentire, risolta solo nell’ultima frase, quando Diego riesce a confessare al padre, severo carabiniere, il suo “peccato originale”. Ma per farlo dovrà prima vomitare tutte le bugie accumulate sullo stomaco, una per ogni importante scelta di vita, dallo sport preferito alla carriera nell’Arma.
È dunque interessante, da un punto di vista drammaturgico, questa sorta di “effetto domino” che, innescato da una giustapposizione di compromessi verso una società conformista, srotola d’un tratto un’intera coscienza. Le perplessità restano però riguardo alla messa in opera del linguaggio teatrale. Se il kit didattico è curato nel dettaglio e disegna uno schema di contatto che dimostra di conoscere alla perfezione il destinatario, la scelta di incaricare un solo attore di un’autobiografia incespica con l’idea di partenza. La definizione di un’identità complessa si realizza qui a contatto con altre identità molto più bidimensionali, proiettando sul lavoro fisico e vocale un mondo interno che non contempla a fondo le ragioni di certe chiusure mentali. Se pur originale è la messa in musica di certi passaggi dentro una narrazione cantata e suonata alla chitarra, la catarsi del personaggio – presentato fin dal principio come fiancheggiatore degli spettatori che a propria volta chiede comprensione – resta allora imprigionata dentro la fatica (emotiva e fisica) del protagonista. Questi accentra su di sé l’attenzione in una narrazione fortemente didattica, a tratti a rischio di non problematizzare a sufficienza il punto di vista contro il quale quella verità rivelata vorrebbe ergersi.

 

Sergio Lo Gatto




Ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Intervista con Beatrice Baruffini

Proviamo a ritessere i fili di una riflessione più ampia sul teatro per e con l’infanzia e, in generale, su quei nodi tematici e di senso che riguardano la “dimensione dell’infanzia” nel suo intero. Guardiamo al rapporto fra infanzia e arte, non solo infanzia e teatro, e più in generale fra arte e giovinezza attraverso le voci di chi si  confronta con tali dimensioni attraversandole con il suo percorso artistico ed esistenziale o analizzandole dal punto di vista teorico.
Pubblichiamo a seguire le riflessioni di Beatrice Baruffini, attrice e autrice del Teatro delle Briciole. L’inchiesta completa, in costante aggiornamento, si può raggiungere seguendo questo link

Cosa trovate, cosa vi spinge, cosa vi muove, nel teatro che dialoga con le nuove generazioni? Che cosa ci vorreste trovare? Di quale teatro per le nuove generazioni abbiamo bisogno, oggi?

Mi sono avvicinata all’infanzia con fare cauto, in silenzio, con grande rispetto. Poi sono rimasta lì, perché in quel luogo, in quel modo di essere, con quegli occhi, mi sono sentita bene. Mi sono trovata. Si riconoscono subito gli sguardi di chi è consapevole che non sarebbe potuto nascere altrove. Questo non significa che debba restare per sempre lì. Tutt’altro. Un teatro che dialoga con l’infanzia, non arriva solo a chi è bambino in quel preciso istante, ma tocca tutti: ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Per l’adulto questo teatro ha il compito di dissotterrare tali tracce, recuperarle, ricordargliele. Per farlo bisogna essere fedeli all’infanzia, non tradirla, non giudicarla, non presupporre di averla compresa. L’infanzia è, e deve essere, nostra complice nella creazione del mondo, nella ricerca del sapere, insieme ci facciamo testimoni del presente. Di questo abbiamo bisogno: di un teatro che consideri il pubblico suo complice per poter agire. Un teatro onesto dunque, coraggioso, che si prenda cura della relazione che crea, resistente, profondo, meraviglioso, che parli a tutti.

Volendo intendere il didattismo come una trasmissione cattedratica del sapere, unidirezionale, il teatro ha per propria missione la vocazione al coinvolgimento. Come il vostro lavoro riesce a tradurre l’uno nell’altro? Quindi a non dare l’idea di insegnare ma accogliere in una visione?

Questo succede naturalmente se si considera questo teatro arte e non insegnamento. Sono due cose ben distinte. Le visioni nascono a volte da intuizioni, a volte da contenuti, da racconti, e ci si innamora di essi per diversi motivi. Ci attraggono, ci mandano in crisi, suscitano continui interrogativi, ci appassionano. Ci spaventano. Non insegnano mai, non danno risposte, anzi, devono fare esattamente il contrario. Se questa materia viene scelta, trattata, trasformata, modificata, ripensata, ricreata è perché c’è una necessità artistica forte di farlo, ma non dobbiamo essere noi, noi autori, noi creatori, a decidere che a volte, quella materia, trasformata in teatro, insegna anche qualcosa.

Come i temi problematici della contemporaneità possono entrare negli spettacoli e quali strategie possono essere messe in atto per la loro salvaguardia verso un pubblico così particolare?

Credo non si possa evitare il presente: è dappertutto. Sarebbe come far finta di niente, non prendervi parte, non reagire, disinteressarsi. Il teatro ha il compito di chiedere al presente e se per il teatro d’infanzia il presente è bambino, è delicato, fragile, nuovo, è a volte per la prima volta, non potrà fare a meno di farsi custode attento, garbato, gentile. Nel teatro il presente entra sempre, per sua vocazione: è un atto di resistenza, un tentativo di afferrarlo e di sviscerarlo, anche quando lo fa attraverso una favola, una fiaba, una storia antica. Non dobbiamo avere il timore di mostrare paure e incertezze, dobbiamo solo trovare le parole giuste per raccontarle.

Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come tenete conto nella creazione di questi nuovi ritmi del contemporaneo? Più in generale come può il teatro entrare in relazione con essi?

Non possiamo fare a meno di confrontarci con questi ritmi, dobbiamo capirli, studiarli, perché solo in questo modo li possiamo usare: per portare l’attenzione dove desideriamo oppure, per sovvertirli.
Spero di non trovare mai nulla, perché questo significherebbe avere in mano delle risposte, supporre di sapere, avere chiara la direzione. Finirebbe tutto.




Fiabe melanconiche dei nostri giorni tristi: sesta istantanea da Segnali

Cari cuccioli di Compagnia Rodisio
Cari cuccioli è uno spettacolo tenero, pieno di poesia e delicatezza, un haiku che contiene immagini emozionanti, create con una perfezione scenica dove ogni elemento è pesato nei minimi dettagli. Manuela Capece e Davide Doro – fondatori della compagnia Rodisio, ideatori e interpreti del lavoro qui presentato – appaiono come figure  smussate e indefinite dalla fitta nebbia che accoglie il pubblico appena entra nella sala teatrale. Rivolto ai bambini dai 2 ai 5 anni, accompagnati dalle loro famiglie, lo spettacolo non utilizza parole, ma si affida alla potenza di immagini visionarie che, intrecciate a una colonna sonora dai toni fortemente lirici, affascinano piccoli e adulti conducendoli al di là del bosco, in un territorio impalpabile e soffice, un posto segreto dove vi sono cura e dolcezza. I due attori  attraverso gesti coreografici e pochi oggetti che piano piano appaiono dal nulla e si collocano nello spazio – una finestra, una poltrona, un materasso, un fuoco acceso, un albero fiorito, la luna piena – ricreano una casa essenziale, un ambiente pronto ad accogliere ciò che verrà, il futuro che cresce. Cari cuccioli lavora su più livelli interpretativi e intreccia elementi ripresi dalle fiabe classiche e archetipi ancestrali: si attraversa il bosco e si bussa alla porta perché il nuovo è ciò che non si conosce e che proviene da fuori. Se lo spettacolo per i bambini può rappresentare un’iniziazione all’esperienza teatrale, per i genitori è il racconto della condizione che si attraversa quando ci si prepara a diventare genitori. La casa è pronta, il latte è nella tazza, il fuoco è acceso e si aspetta che la nuova vita, il caro cucciolo, bussi a quella porta. Il rito è iniziato. (c.t.)

Alan e il mare di Giuliano Scarpinato
Ci sono spettacoli che dividono il pubblico in maniera netta. O almeno l’impressione, all’uscita, è che vi siano punti di vista contrapposti. Raramente capita, come nel caso di Alan e il mare, ultimo lavoro di Giuliano Scarpinato, che la spaccatura sia così marcata che si trovino spettatori in lacrime, perché commossi e altri paonazzi, perché arrabbiati. Alan e il mare è – almeno questa la sensazione al debutto a Segnali di Milano, con un pubblico però solo di adulti e di addetti ai lavori – uno di quegli spettacoli che non lascia indifferenti e che pone subito alcune domande cruciali, anche metodologiche, che sono poi le domande che riguardano il settore del teatro ragazzi, ma che in realtà comprendono tutto il teatro. Dopo il polverone di Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, spettacolo sull’identità sessuale, Scarpinato, sempre per un pubblico a partire dai 7-8 anni, sceglie un argomento altrettanto scottante, come i viaggi tragici dei tanti stranieri che scappano dalle guerre. Una provocazione o il desiderio di spingere il teatro ragazzi dentro le grandi questioni dell’attualità? Una mossa à la page o “necessaria”?

La prima domanda riguarda dunque la tematica: è opportuno raccontare a bambini di sette-otto anni le tragedie degli immigrati che muoiono in mezzo al mare? Un po’ frettolosamente, a rischio di ideologia, si può rispondere di sì, basta trovare la forma giusta (d’altronde Art Spiegelman ha  raccontato l’olocausto con i fumetti, riuscendoci, Benigni con il cinema, meno convincente…). E dunque: qual è la forma giusta? Come si racconta una tragedia? Lo spettacolo parla di un padre (Federico Brugnone) che si imbarca con il proprio figlio a Bodrum per fuggire dai bombardamenti. Una terribile tempesta colpisce lo scafo e il bambino muore affogato. La storia si sviluppa dal punto di vista del padre che, in preda a deliri o sogni o visioni, mantiene un filo, un dialogo, un rapporto con il figlio, trasformatosi in una sorta di pesce. Il padre tenta invano di trascinarlo fuori dall’acqua, fino a che, in un processo doloroso di accettazione del lutto, si immerge nelle profondità marine, alla scoperta di un nuovo mondo. Ci sono sentimenti di angoscia, di paura, ma anche molta dolcezza e immaginazione. La tragedia viene infatti strutturata con le dinamiche della fiaba. Il figlio – interpretato dal bravo Michele Degirolamo – sguscia sul palcoscenico come un pesce fuor d’acqua, e il pensiero va subito a Colapesce, antichissima storia siciliana e di tutto il meridione, di cui esistono decine di varianti (oggi disponibili per Donzelli con le bellissime immagini di Fabian Negrin, probabilmente il più bravo e costante illustratore di fiabe dei nostri anni). E allora la domanda potrebbe diventare: è opportuno trasformare una realtà tragica in una fiaba (dai risvolti tristi in questo caso, ma che contiene in sé, quasi per statuto, una sorta di “cura”, di catarsi, di rielaborazione?). Le “fiabe sono vere”, diceva Italo Calvino, ammonendoci, in un certo senso, rispetto alle derive più evasive e inconsistenti. Le fiabe cioè andrebbero prese sul serio, perché rispondono ad elementi profondi dell’animo umano. Ma che tipo di processo educativo si può innescare nella dinamica che trasforma la realtà in fiaba? Quali i pericoli? Come si evita la rappresentazione ammiccante e finzionale, inevitabilmente fallace? La “cura” di cui è portatrice la fiaba, anche quando parla di morte, di cosa è fatta? Come evitare la retorica sentimentale?

Scarpinato ha talento e coraggio, ma sceglie di camminare su una strada scivolosa e per mantenere il giusto equilibrio è obbligato ora a togliere, ora ad aggiungere elementi; è costretto a pigiare su uno stato emotivo, per ottenere un primo piano efficace, ma qualcosa sullo sfondo va inevitabilmente a perdersi. La guerra e l’iniziale disperazione sono appena accennate e lo spettacolo si concentra sul rapporto padre e figlio (la madre, con il velo, è solo un’immagine virtuale, muta, che sembra vivere ormai in un altro mondo, una vera alterità nella sua assenza…). La scenografia è composta da pannelli, organizzati come fossero le schegge di uno specchio rotto, sui quali sono proiettate immagini che riscaldano il clima emotivo, spesso contraddistinto da forti elementi di pathos e di commozione, e da momenti ludici. Ad esempio il viaggio verso il mare si segue sullo schermo in soggettiva, come un videogioco, con bonus da guadagnare e nemici da sconfiggere. Qualcuno si lamenta, sostenendo che trasfigurare questi viaggi disperati con il filtro del game è una falsificazione o una mancanza di rispetto. È però vero che, di fronte al pubblico dei più piccoli, il video gioco è una porta di ingresso fortissima, una sintesi visiva molto efficace, che trasmette, metaforicamente, l’idea di pericolo e di viaggio. Che il viaggio dei migranti oggi sia l’unico riconducibile in qualche modo alle narrazioni picaresche è un fatto evidente e che, anche nella disperazione assoluta, possa entrare l’avventura, come genere letterario, lo ha dimostrato Primo Levi con il suo romanzo forse più bello, La tregua. Il genere dell’avventura non è il videogame, ma che nell’immaginario collettivo vi sia stato questo slittamento è assodato e con questa immagine è giusto forse fare i conti. Ma è questo – l’avventura – che si vuole trasmettere? Solo in piccola parte, perché lo spettacolo è ricco di tante altre invenzioni ed è costruito con abilità nella mescolanza di registri e di tecniche, con una sensibilità tutta contemporanea, concentrandosi soprattutto sul rapporto padre-figlio. Forse è addirittura troppo pieno di elementi, che rischiano di confondere qualche passaggio e forse, a tratti, è teso a sedurre e a sorprendere. Ad esempio i tentativi di riportare “in vita” il figlio, l’idea di una sopravvivenza oltre la morte (nel ricordo), sono allo stesso tempo visioni di un uomo impazzito per troppo dolore, sogni, miraggi, cortocircuiti temporali tra passato, presente e futuro… La parabola fiabesca impone in qualche modo una conclusione, una chiusura, per cui si corre nell’elaborazione del lutto. In questo caso storia e fiaba stridono tra loro: da una parte il lutto che ferma tutto, blocca la storia, fa precipitare lo stato emotivo, dall’altra la fiaba che deve trovare una conclusione, far ripartire la vita e che perciò rischia di apparire una scorciatoia.

La cifra un po’ barocca dello spettacolo può infastidire, perché per una vicenda del genere ci si aspetterebbe più sobrietà, così come apparentemente avviene per altri lavori presenti al festival Segnali. In realtà lo stile è la forza dello spettacolo. I due attori, in dialogo con la scena, riescono a dar vita a un linguaggio vivace e convincente. La forma è sofisticata ed è padroneggiata con sicurezza. Certe invenzioni visive e gestuali non possono che avvicinare la “storia” al pubblico dei più piccoli. L’intenzione è chiara. E anche le nuove tecnologie, oltre che per gusto, vengono utilizzate come “ponti”: si sta parlando dell’oggi, non dell’Odissea, e questi stranieri usano gli stessi nostri oggetti.

Più che insistere sulla disperazione della guerra o su differenze culturali tutto lo spettacolo punta sulle similitudini. E il dolore di un padre per la morte del proprio figlio è cosa universale, propria della natura umana. È come se tutta la storia volesse concentrarsi su questo aspetto e quindi paradossalmente subisse un processo di “normalizzazione”. L’impressione finale è che la forza di questo lavoro (che ha senz’altro forza) coincida con il suo stesso limite, cioè l’ambizione. L’ambizione di camminare sul filo di tante cose: dei sentimenti dei padri e dei figli, della cronaca e della fiaba, della politica e dell’indignazione, dei nuovi media e del nostro immaginario. È una bella ambizione, che in parte trova risposta concreta e in parte lascia qualche dubbio, che vale la pena tenere sospeso. Tra le altre cose pare un po’ insistito il riferimento al “caso” mediatico suscitato dalla foto, che ha fatto il giro del mondo, di Aylan Kurdi, il piccolo profugo senza vita sulla spiaggia, da cui lo spettacolo prende spunto. Un riferimento che forse porta fuori strada. Piuttosto rimane grande la curiosità delle reazioni che potrebbe avere un bambino. I bambini sono immersi dentro questa trasformazione epocale ancor più degli adulti. Nelle scuole dei più piccoli storie di stranieri giunti in Italia in modo rocambolesco sono all’ordine del giorno. Ecco che di fronte a un richiedente asilo che si incontra per strada un bambino può chiedere cento cose: chi è? Da dove viene? Come ha fatto ad arrivare fin qui? In un certo senso con questo spettacolo è come se si dicesse che dietro a un’immagine mediatica, dietro a un volto si può nascondere un grande lutto, un grande dolore, una storia terribile di ingiustizia, un essere umano come noi, ma a tutte le altre domande dovranno rispondere genitori, insegnanti, educatori. (r.s.)

Mister Green di Elsinor-Vat Teater
Qual è il rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura? È ancora possibile trovare un contatto con l’ambiente prendendo le distanze dalle sovrastrutture che la contemporaneità ci impone? Siamo disposti a ritrovare un dialogo “ecologico” con la realtà, rinunciando alle comode mediazioni della modernità? Queste domande sembrano essere al centro del progetto Mister Green, seconda presenza internazionale a Segnali, frutto di una coproduzione di Elsinor con la compagnia estone Vat Teater. Si tratta di un lavoro dal forte impatto visivo, con una scenografia fatta di videoproiezioni che accompagnano un uomo comune totalmente “urbanizzato” (interpretato da Rauno Kaibiainen) in un’avventurosa prova di sopravvivenza, dalla città alla foresta e ritorno. La sfida per lui sarà affrontare un’intera notte in mezzo a una natura selvaggia prima di riuscire a tornare alla civiltà, cercando di compiere azioni apparentemente elementari (accendere un fuoco o allontanare un animale) o di trovare un complice dialogo con le piante. Imprese in cui, forse, i ragazzi del pubblico sarebbero ben più abili dell’adulto che si trovano davanti. L’interpretazione mette in luce goffaggini e inadeguatezze, sconfinando a tratti nella macchietta. Se l’articolazione delle tematiche e l’apertura di domande proposte dalla drammaturgia rischiano di restare legate all’evidenza della pura vicenda, ad accompagnare gli spettatori verso nuove sollecitazioni è l’uso delle videoproiezioni: la suggestiva sovrapposizione di immagini a grande scala e movimenti scenici avrebbe potuto tuttavia indagare maggiormente le potenzialità di un’interazione, andando oltre la definizione di un’ambientazione. Tra scenari apocalittici e visioni oniriche, la domanda sul rapporto dell’uomo con la natura può trovare spazio per sconfinare in un immaginario da inventare e allargare il suo significato. (f.s.)

Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazzanetti, Carlotta Tringali




Maggio all’infanzia. Intervista a Teresa Ludovico

Dal 18 al 21 maggio avrà luogo a Bari Maggio all’infanzia, storica rassegna dedicata al teatro ragazzi organizzata dai Teatri di Bari. Abbiamo raggiunto telefonicamente Teresa Ludovico del Kismet, con lei attraversiamo le domande curatoriali alla base della rassegna, soffermandoci anche su alcuni snodi estetici e poetici che legano le arti della scena e l’infanzia.

Cominceremmo con un’introduzione al festival di quest’anno. Quali sono le linee di lavoro, tenendo anche in considerazione la lunga storia di Maggio all’Infanzia?

 

Maggio all’Infanzia nasce vent’anni fa al Rossini di Gioia del Colle, teatro che gestivamo in quel periodo. Come è noto, il Kismet ha una grande tradizione nel teatro dedicato all’infanzia e alle nuove generazioni: adesso siamo un Teatro di Rilevante Interesse Culturale, ma prima eravamo un Stabile d’Innovazione per le nuove generazioni. Subito il festival ebbe un grande riscontro, accogliendo tantissimi organizzatori, ma in seguito la gestione del teatro è tornata a essere comunale; per questo Maggio all’Infanzia è stato spostato a Bari. Tre anni fa c’è stata una ulteriore evoluzione: è nata una fondazione, il SAT (Spettacolo – Arte – Territorio) insieme al Teatro le Nuvole di Napoli, con l’obiettivo di coinvolgere un territorio allargato. Le molteplici attività, didattiche e soprattutto formative, sono state estese a tutto il mese, riservando alla terza settimana la presentazione degli spettacoli.

L’aspetto formativo è dunque al centro delle vostre azioni…

In questi vent’anni è maturata una maggiore attenzione verso le problematiche educative. I bambini, ovviamente, non vanno da soli a teatro, qualcuno li deve accompagnare, i genitori oppure, più spesso, gli insegnanti. Quindi, la necessità di avere relazioni privilegiate con gli insegnanti, soprattutto con i più giovani.

A questo proposito quali sono i progetti in essere?

Abbiamo la fortuna di avere una collaborazione di lunga data con Giorgio Testa, una persona straordinaria che ha una vocazione per la pedagogia  e che, dopo la chiusura dell’ETI dove dirigeva il Centro Teatro Educazione, ha fondato la Casa dello Spettatore. Da tre anni sta seguendo, insieme a Sara Ferrari, sia a Napoli che a Bari, il progetto Esplorazioni, un laboratorio destinato agli insegnanti sulla didattica della visione.
Per questa ventesima edizione ci sono poi tutta una serie di progetti speciali. Negli ultimi tre anni il festival ha accolto anche i nuovi linguaggi: il rapporto con la letteratura (allargandosi alle librerie e le piazze, incontrando scrittori, grafici, fumettisti) e con il cinema (vengono scelti dei film attorno ai quali, insieme all’Associazione I bambini di Truffaut, si organizzano incontri e approfondimenti).
È stata accolta una proposta sui temi della Costituzione e dell’Utopia, curata da Graziano Graziani (giornalista di Rai5 e Radio3), un progetto rivolto agli adolescenti invitati a scrivere la propria Costituzione ideale. Altra novità di quest’anno è l’organizzazione di una giornata di eventi e spettacoli dedicati ai bambini dai 0 ai 3.
L’associazione Europea dei Festival, che quest’anno ha insignito il Maggio di un riconoscimento di qualità, ha dedicato tre giornate alla formazione sul management culturale, che ospiteremo.

Come intrecciate tali ragionamenti con l’incontro tra i ragazzi e gli spettacoli? Quali chiavi scegliete?

Il programma è attraversato da quattro fil rouge. Il primo concerne la musica: inaugureremo con uno spettacolo dei Teatri di Bari diretto da Vito Signorile ispirato a Pierino e il lupo, con musiche di Prokoviev, e a L’apprendista stregone, quindi alla musica di Dukas. C’è anche un omaggio a Emanuele Luzzati, il Pulcilele di Paolo Comentale con musica di Rossini, poi programmiamo Lo schiaccianoci della Bottega degli Apocrifi, Eroine all’opera della compagnia pugliese Il carro dei comici, un’operina con attori, teatro di figura e cantanti lirici. Il teatro ragazzi sta andando anche verso un’esigenza di conservazione del patrimonio della lirica: Seicentina, del gruppo lucano L’albero, è un’operina per attrice, voce e basso continuo; in forma di musical, invece, è La gabbianella e il gatto del Teatro Vascello. Torna sempre anche il tema del racconto, con la prima nazionale del lavoro di Francesco Niccolini e Flavio Albanese, L’universo è un materasso; la Compagnia Burambò si confronta con L’arca di Atalanta di Gianni Rodari, partendo dai miti; La grande avventura del Teatro delle Apparizioni è un viaggio nel bosco che racconta le paure dell’infanzia e il tema dell’iniziazione. Ma anche Le dodici fatiche di Ercole del Teatro della Tosse o Cammelli a Barbiana, ancora scritto da Niccolini con Luigi D’Elia, sulla figura di Don Lorenzo Milani.

Si delinea un quadro variegato e polifonico. Quali possono o devono essere le tematiche da portare all’attenzione di un pubblico di bambini?

Gli altri due filoni individuati nella visione delle proposte ricevute sono legati alla fiaba e alle scritture originali, e con questi rispondo anche alla domanda. Le scritture originali in qualche modo rispecchiano i temi forti del nostro tempo, come ad esempio la diversità. Volentieri il festival ospitò sia Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato che La bella Rosaspina addormentata di Emma Dante. Sono convinta che per il pubblico infantile sia necessario incontrare i grandi temi della vita. Le paure da superare, le stesse raccontate nelle fiabe, sono spesso legate a quelle ancestrali e mitiche. Ben vengano, dunque, tutte quelle scritture originali che conducono i bambini in un percorso iniziatico a partire dalle grandi domande dell’oggi: l’altro, l’estraneo, lo straniero, la diversità sessuale e religiosa. Tra gli spettacoli che abbiamo inserito c’è L’arte della menzogna delle Manifatture Teatrali Milanesi, dove un ragazzo mente al padre perché non ha il coraggio di affrontare la sua diversità. Gli artisti dovrebbero darsi il compito di intercettare le domande dei bambini, senza dare risposte, ma invitando al confronto; grazie a percorsi esperienziali il bambino acquisisce gli strumenti per poter comprendere, anche da solo e senza l’aiuto degli adulti. Una volta messo a punto un linguaggio teatrale “che accoglie” ci dobbiamo fidare della loro capacità di decodifica, dobbiamo rispettarli e non avere paura di affrontare argomenti che consideriamo difficili.

Attorno alle potenzialità della fiaba possiamo forse spendere qualche altra parola…

Le fiabe sono nate e sopravvissute per l’esigenza dei nostri antenati di trasmettere il sapere della vita. Per esempio le paure sono sempre le stesse perché sono archetipiche, ma cambiano il linguaggio e gli strumenti per superarle.

La fiaba può dunque metterci di fronte al terribile, senza consolare. In che modo il teatro può ottenerlo?

Secondo il mio punto di vista la fiaba deve affrontare le zone buie, deve portare il bambino ad avere paura, a provare un’emozione forte in una condizione protetta. Nella fiaba il protagonista è impegnato in un viaggio di formazione, il bambino compie il viaggio dell’eroe, identificandosi con tutte quelle “prove” da superare in un mondo che include il male. Il teatro ha un valore educativo, ha la responsabilità di portare l’infanzia alla conoscenza del mondo e della vita. Attraverso la fiaba, tu bambino scenderai in quegli inferi (incontrerai la strega, sarai mangiato da quel mostro ecc) sapendo che, se sei determinato e fedele a te stesso come un Pollicino, troverai la tua strada. Questo è il senso del teatro per l’infanzia, è un linguaggio che deve accompagnare ma anche mostrare ai piccoli che possono farcela da soli nonostante le cadute, gli errori, le ferite.

C’è una questione che stiamo ponendo anche agli altri festival partner di Planetarium. Prima parlavi di un teatro che va incontro alle domande, alle paure del pubblico di oggi. Ma il pubblico di oggi, anche questo così giovane, è immerso in un contesto mediale iper-veloce e iper-frammentato. Il teatro può forse rappresentare un’alterità, una specie di sosta “antica” ma che rischia sempre di essere vissuta come vecchia.

Penso ci sia una caratteristica del teatro che non ha confronti con nessun’altra arte e che non lo farà mai invecchiare: è il rapporto diretto tra lo spettatore e l’attore. Io non ho mai paura della concorrenza di un computer o di un video.
Nel 2000 ho creato uno spettacolo, Bella e Bestia, che ha girato il mondo e ha generato una collaborazione che ancora va avanti con il Giappone. Quello giapponese è, senza dubbio, tra i popoli più tecnologici del mondo, eppure la scena che ha emozionato maggiormente è stata una caduta di centinaia di bigliettini, messaggi d’amore che la Bestia lanciava dall’alto alla Bella. È il linguaggio poetico, quel qualcosa di semplice e impalpabile che esiste anche senza la tecnologia. Una polverina dorata che scende stupisce più di un grande video perfettamente proiettato. È l’azione più semplice che sorprende, noi di questo dovremmo farci esperti. La tecnologia non può mai sostituire l’immaginazione. È necessario riportare al centro della scena l’umanità dell’interprete, il suo corpo con tutta la sua bellezza e fragilità.

 

Lorenzo Donati e Sergio Lo Gatto