Abbiamo visto L’arte della menzogna di Manifatture Teatrali Milanesi, un monologo scritto da Valeria Cavalli e interpretato da Andrea Robbiano, che narra di un adolescente tormentato dalle bugie come via d’uscita verso una complessa situazione identitaria. Abbiamo incontrato il regista Claudio Intropido per un’intervista che approfondisce alcune scelte artistiche attorno a una tematica ancora oggi considerata spinosa, quella dell’omosessualità. Glo abbiamo posto due domande legate al procedere drammaturgico e alla scrittura di scena.
La bugia e l’identità
Siamo partiti dall’atto di raccontare bugie. Le bugie ci appartengono, servono per difenderci e per attaccare, per esprimere delle paure e per molte altre cose. È emersa subito questa tendenza a raccontare bugie sulla propria identità, accorgersi a un certo punto che c’è qualcosa dentro che si prova imbarazzo a esprimere. Volendo lavorare sulla menzogna siamo partiti dal desiderio di Diego, il nostro personaggio, di confessare al padre fin da subito questa “menzogna più grande”. Abbiamo pensato a un inizio dove Diego arriva in una sorta di confessionale in cui parla al padre, dunque abbiamo cominciato dalla fine. Da lì Diego si stacca e riavvolge il nastro per ripartire dall’inizio.
Un giorno Valeria mi ha detto che per raccontare la menzogna più grande e tornare indietro a tutte quelle che hanno caratterizzato la vita del protagonista, sentiva la necessità di scrivere la storia di due gemelli. A volte succede che le mamme si sentano in colpa di aver generato un figlio “non giusto”. Ma non c’entra niente il pensiero del “giusto/non giusto”: dalla stessa madre possono nascere, anche contemporaneamente, due figli con due diverse identità sessuali. Sulla base di questo Valeria ha cominciato a scrivere. Una volta istituito tale collegamento abbiamo tradotto in immagine tutto quello che Valeria aveva depositato su carta, partendo dalla sequenza iniziale (che cronologicamente corrisponde al finale) e snocciolando tutto il percorso. Ci è sembrato di essere arrivati a parlare di un argomento delicato senza però porre l’omossessualità come fuoco centrale.
Una storia sull’omosessualità?
Non è questo. Un adolescente a un certo punto si pone delle domande, riceve dei messaggi, sente nascere qualcosa, sente che c’è o un cambiamento o una persona in particolare, una calamita che lo attira, una situazione che lo distrae o lo spinge a pensare, senza giudizio. Questo percorso in cui l’adolescente entra deve sbocciare da qualche parte, il protagonista ha bisogno di uscirne fuori. Abbiamo a un certo punto capito che nel suo gioco – siamo partiti da bugie incredibilmente semplici come la torta della nonna che non piace – inevitabilmente il personaggio si scontrava con la bugia, che Diego scopre quasi senza saperlo. La svolta avviene a una festa, quando la bella Eleonora lo bacia e lui pensa: questo bacio non mi ha fatto pensare a niente, non mi ha fatto né caldo né freddo. Ma a un adolescente può capitare di baciare una ragazza e non sentire niente. Magari quella non è la ragazza che fa per lui: non necessariamente quel passaggio deve diventare così importante nel suo percorso di crescita.
Siamo andati a scomodare Rimbaud e Verlaine perché, secondo Valeria, dal momento in cui l’adolescente sente di aver trovato una scintilla che lo porta alla riflessione, che gli fa pensare di stare finalmente tirando fuori qualcosa, da lì in poi il suo percorso cambia. Nello spettacolo abbiamo voluto infondere un grande rispetto nei confronti di una scelta simile a quella del nostro protagonista, la scelta di mentire a se stesso ma di fedeltà al padre, di lealtà con la famiglia. Diego pensa di essere leale anche con se stesso ma, nel momento in cui scopre l’amore, forse gli si accende la luce che pone una domanda: «Perché mi sono sempre nascosto dietro le bugie? Che cosa nascondevo?» Forse era diventata un’abitudine per difendersi o per compiacere, ma la verità meravigliosa dell’amore sblocca la situazione. Non vale la pena nascondersi, tutto è così bello, semplice, naturale, a portata di mano, condivisibile.
Le domande dei ragazzi
Le tappe che abbiamo percorso per arrivarci sono state una prima lettura, ma soprattutto abbiamo discusso molto l’argomento, come affrontarlo. Volevamo arrivare a fare della crescita un filo conduttore, come se fosse la sua esperienza a portare Diego a essere sincero con se stesso e con quello che gli sta capitando. Quando Diego incontra l’amore pensa di essere arrivato. A questo punto la costruzione del proprio io è compiuta.
Tuttavia, ripeto, non è uno spettacolo sull’omosessualità. Il confronto con i ragazzi – sia i più grandi che quelli delle medie – ci ha dimostrato molta lucidità e chiarezza: parlano anche loro di amore. Quando a un certo punto Diego dice: «Bastavano due parole: sono innamorato», un ragazzo di un liceo ha gridato: «Giulia, ti amo!». Alla fine dello spettacolo si è scusato, ha preso la parola dicendo: «Probabilmente sono frocio anch’io, perché ho pianto tutto il tempo», aggiungendo però che lo aveva fatto perché era un momento così intenso che lo aveva portato necessariamente a esprimersi.
Le domande che i ragazzi pongono sono sempre sul sentimento, sull’esperienza. Non solo sull’esperienza dell’identità sessuale che viene a galla, ma anche sull’amicizia, sulla lealtà, sull’onestà, sull’essere sempre a disposizione. Non solo i ragazzi del liceo, ma anche quelli delle medie. Per esempio a Latina sono rimasti molto silenziosi durante lo spettacolo, ma dalle loro domande finali non è emersa nessuna questione stupida; quasi fatalmente arriva una domanda per l’attore, gli si chiede se anche lui sia omosessuale, ma con il procedere della discussione i ragazzi e le ragazze riflettono sull’amore in forma assoluta, non necessariamente sull’orientamento sessuale.
Si sente di tutto e di più attorno a questo argomento, oggi. Abbiamo portato lo spettacolo a Roma e una sera abbiamo invitato le insegnanti, un centinaio. Abbiamo poi ospitato un piccolo incontro e abbiamo verificato la difficoltà delle insegnanti a proporre – inevitabilmente, aggiungo io – un percorso che conduca a una chiarificazione dell’esperienza e quindi a essere sinceri nel raccontare un fenomeno come questo. Ma che male c’è? Il fatto di poterlo esternare purtroppo ancora oggi è un tabù per i genitori.
Il linguaggio della scena: c’è solo l’attore
Certo, è una scelta, volevamo un racconto in prima persona portato da un personaggio. Andrea Robbiano, come attore, attraverso la parola riesce ad avere un feeling molto diretto, a tenere bene la concentrazione, ha la capacità di farsi ascoltare. Così pensiamo faccia vivere la propria esperienza anche agli spettatori. In quel momento si tratta di spettatori passivi che ascoltano, ma a cui l’attore muove inevitabilmente delle corde emotive. Qualsiasi cosa noi vediamo sulla scena muove delle corde emotive, che sia molto scenografico o molto verbale, muto o musicale.
Siamo partiti dalla storia che va raccontata. Io me lo immaginavo seduto su una sedia a raccontare, nelle prove Andrea ha portato la chitarra, quindi è iniziato un percorso attraverso la musica grazie a delle sue proposte che abbiamo esaminato e discusso. Non ci sembrava assolutamente utile porre qualsiasi elemento scenografico in più, abbiamo deciso di aggiungere solo qualche sedia e un tavolo, per creare una situazione casalinga in cui si muove la storia, articolata anche in una serie di luoghi concreti e metaforici come la stazione, la partenza, il rapporto con il padre ecc. Abbiamo dunque scelto degli elementi semplici, è una storia che l’attore racconta, io credo che la magia del teatro sia proprio quella di un attore che si siede su una sedia e racconta facendo immaginare qualsiasi cosa.
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