Maggio all’Infanzia è molto più di un festival, è un denso momento di ritrovo per un intero ambiente. Sotto un sole incandescente ma temperato dalla brezza spinta avanti dal mare, artisti, operatori e spettatori più o meno giovani si incontrano attorno a una programmazione fitta di spettacoli e attività collaterali (dal 18 al 21 maggio 2017). Non è facile, dunque, dare conto di questa fervida attività, anche perché il ritmo altissimo porta chi attraversi il festival a confrontarsi in breve tempo con una pluralità di linguaggi, di stili, di urgenze tematiche e modalità di presentazione.
In questa prima istantanea da Bari, allora, sperimentiamo un approccio che dai singoli spettacoli parte e che a essi ritorna, ma tenendo come bussole alcune istanze generali che possono forse stimolare un ragionamento più ampio.
Altrove, soprattutto di fronte a quegli spettacoli che portano temi controversi e che introducono svolte di semantica non del tutto pacificate, ci siamo trovati in passato a domandarci se del teatro venga realmente evidenziata la capacità di offrire una lente caleidoscopica, complessa e stratificata.
Tutti gli elementi che lo caratterizzano – la fruizione collettiva, l’insieme di rituali che lo rendono un evento di socialità, ma anche la straordinaria universalità dei linguaggi – sono di per sé garanti di opportunità di comunicazione ogni volta nuove, in potenza mai davvero prevedibili.
Cerchiamo qui di osservare come i primi spettacoli visti siano aperti a misurarsi con tutto lo spettro della teatralità.
Lo Schiaccianoci Swing, immaginato da Cosimo Severo per la Bottega degli Apocrifi, riesce davvero a catturare anche i più piccoli, proponendo un ingegnoso miscuglio di performance musicale e teatro fisico. La fiaba originaria di E.T.A. Hoffmann si tramuta in un lungo sogno dadaista, riorganizzato in uno spazio ampio e ben disegnato, con uno schermo di tela e di alluminio, una poltrona che corre su ruote dove si addormenta la piccola Marie. Nell’animarsi, i giocattoli finiscono preda di una sorta di incantesimo che – e lo si capisce nelle note di contrabbasso, percussioni, chitarra e violino e nel modo in cui vengono suonate – minaccia continuamente di mandarli in mille pezzi. L’attenzione degli spettatori – una platea gremita nella sala grande del Kismet – è tenuta da un semplice ma raffinato gioco di luci e controluci, da un utilizzo ritmico e però garbato dello spazio, anche aiutato da una giusta prossemica. In questo tentativo di transizione di linguaggio (da fiaba a concerto) si ripensa in maniera originale lo schema drammaturgico (di Stefania Marrone), si sfruttano gli strumenti del teatro per guidare anche in un’appuntita ricerca musicale, che spazia di genere in genere e finisce per farsi parola.
Per certi versi simile è Biancaneve, la vera storia, il progetto del Crest che produce un allestimento di Michelangelo Campanale pronto a riconsegnare in una nuova veste la figura complessa di Biancaneve. Il punto di partenza è la fiaba originale tedesca, ben lontana dalla “messa in zucchero” di Walt Disney del 1937 (sbeffeggiata nella prima scena) e invece orbitante in un universo cupo e poco rassicurante. Qui la matrigna vanitosa è prima di tutto una madre, che sceglie di ripudiare la figlia per il timore che le usurpi il trono della bellezza. La storia è narrata da uno dei sette nani, ed è mirabile l’uso della struttura drammaturgica, divisa in sette racconti (uno per nano), in grado di regalare al pubblico gli strumenti per dividere cognitivamente sequenze e durata del racconto. Il tema della dualità aspetto esteriore/aspetto interiore (come dire superficie e profondità) è trattato, insieme a un fine ragionamento sul potere, con garbo ed eleganza, anche qui facendo leva sulla sapiente creazione di uno spazio di “maraviglia”, semplice ma efficace, come in molte scene curate in passato da Campanale. Se c’è una piccola resa alla retorica sta nel messaggio lanciato al giovane spettatore, che nell’epilogo viene distanziato e rimesso al sicuro, come se una storia di abbandono così terribile non potesse davvero riguardarlo. Ma in un ritmo incalzante ma non forsennato trovano posto una accanto all’altro comicità e lirismo, si può parlare di morte e di paura, di cattiveria umana e di redenzione.
La questione se i mezzi del teatro ricevano o meno giustizia è materia anche per altri tre lavori visti in questa prima giornata, messi a punto non certo con sciatteria, ma in qualche modo legati da una sorta di compressione delle possibilità.
Quelle ragazze ribelli del Teatro Due Mondi sceglie il teatro per ragionare sulla necessità di opporsi alle «convenzioni, discriminazioni, stereotipi culturali», espressa da cinque donne, diverse per provenienza e per momento storico vissuto. Nelle note si parla di «conferenza spettacolo»: e in effetti la modalità didattica è chiara fin da subito, dall’uso dello spazio, liberato per ospitare solo uno schermo bianco, dove a volte corrono ombre e sagome. Il resto dell’azione è un dialogo con la Storia, apparentemente distaccato, e tuttavia reso più personale dall’effettiva impersonificazione delle due con i vari personaggi. Si tratta certo di simboli più che di personaggi, ma proprio questa minuzia di rappresentazione (soprattutto nell’anziana “staffetta” che ricorda gli scampati pericoli nel passare le informazioni ai partigiani), pur se temperata con l’ironia, rende meno chiara l’impostazione generale. L’abbondanza di esempi, che necessita ogni volta di una spiegazione da zero del contesto spesso gravida di termini complessi, finisce per sovraccaricare di informazioni i piccoli spettatori, senza fornire loro indicazioni di linguaggio sufficientemente coerenti. Allora, pur essendo da lodare il tentativo di approcciare temi complessi, la Resistenza, le proteste punk delle Pussy Riot e una crociata individuale contro la segregazione razziale vengono consegnate all’interno di un sistema di segni non sufficientemente chiaro, che tenta di far rientrare nello schema conferenza un vortice di linguaggi, rischiando di appiattire le profonde differenze di contesto tra gli esempi scelti e lasciando l’archetipo “girl power” come unico appiglio.
L’arco di Atalanta di Luna Comica, in scena alla Casa di Pulcinella, riprende il tema della «eroina in mezzo agli eroi» poggiando sulla scrittura di Gianni Rodari e sul corpo e la voce di Carla De Girolamo. La trama mitologica che fa da colonna è già per sé molto densa e ricca di riferimenti culturali, geografici e tematici. Se nelle prime sequenze il gesto pulito e la voce presente dell’attrice riescono a tenere insieme l’attenzione dello spettatore, è quando da un’avventura si entra nell’altra che il corpo – pur esperto nel gestire la centralità del palco – sembra non bastare più. Il linguaggio della narrazione finisce per plasmarsi troppo sulle cadenze dialettali utili a differenziare i personaggi, dimenticando come le proprietà trasformative degli oggetti e della figura e il disegno delle luci possano essere fondamentali nell’architettura del racconto teatrale. Pur se solide appaiono certe posture dello scheletro e certe inflessioni della voce, il ritmo si appiattisce in una storia troppo ancora ancorata al respiro della letteratura.
Le Manifatture Teatrali Milanesi producono invece un interessante «kit didattico» attorno al loro L’arte della menzogna, un monologo scritto da Valeria Cavalli e da lei diretto con Claudio Intropido. I destinatari sono gli insegnanti, sponda per i riceventi primari, gli alunni. Il tema dell’omosessualità è associato alla difficoltà di posizionare un’identità complessa dentro a un mondo che pare organizzare le proprie conoscenze sul principio di riconoscibilità. Il generoso lavoro dell’attore, Andrea Robbiano, consegna al pubblico dai 12 anni in su una narrazione in prima persona che attraversa il vissuto di un giovane milanese tormentato – fin dalla prima adolescenza – da una straordinaria capacità di mentire, risolta solo nell’ultima frase, quando Diego riesce a confessare al padre, severo carabiniere, il suo “peccato originale”. Ma per farlo dovrà prima vomitare tutte le bugie accumulate sullo stomaco, una per ogni importante scelta di vita, dallo sport preferito alla carriera nell’Arma.
È dunque interessante, da un punto di vista drammaturgico, questa sorta di “effetto domino” che, innescato da una giustapposizione di compromessi verso una società conformista, srotola d’un tratto un’intera coscienza. Le perplessità restano però riguardo alla messa in opera del linguaggio teatrale. Se il kit didattico è curato nel dettaglio e disegna uno schema di contatto che dimostra di conoscere alla perfezione il destinatario, la scelta di incaricare un solo attore di un’autobiografia incespica con l’idea di partenza. La definizione di un’identità complessa si realizza qui a contatto con altre identità molto più bidimensionali, proiettando sul lavoro fisico e vocale un mondo interno che non contempla a fondo le ragioni di certe chiusure mentali. Se pur originale è la messa in musica di certi passaggi dentro una narrazione cantata e suonata alla chitarra, la catarsi del personaggio – presentato fin dal principio come fiancheggiatore degli spettatori che a propria volta chiede comprensione – resta allora imprigionata dentro la fatica (emotiva e fisica) del protagonista. Questi accentra su di sé l’attenzione in una narrazione fortemente didattica, a tratti a rischio di non problematizzare a sufficienza il punto di vista contro il quale quella verità rivelata vorrebbe ergersi.
Sergio Lo Gatto
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