Cosa trovate, cosa vi spinge, cosa vi muove, nel teatro che dialoga con le nuove generazioni? Che cosa ci vorreste trovare? Di quale teatro per le nuove generazioni abbiamo bisogno, oggi?
Mi sono avvicinata all’infanzia con fare cauto, in silenzio, con grande rispetto. Poi sono rimasta lì, perché in quel luogo, in quel modo di essere, con quegli occhi, mi sono sentita bene. Mi sono trovata. Si riconoscono subito gli sguardi di chi è consapevole che non sarebbe potuto nascere altrove. Questo non significa che debba restare per sempre lì. Tutt’altro. Un teatro che dialoga con l’infanzia, non arriva solo a chi è bambino in quel preciso istante, ma tocca tutti: ognuno di noi ha dentro di sé le tracce della propria origine. Per l’adulto questo teatro ha il compito di dissotterrare tali tracce, recuperarle, ricordargliele. Per farlo bisogna essere fedeli all’infanzia, non tradirla, non giudicarla, non presupporre di averla compresa. L’infanzia è, e deve essere, nostra complice nella creazione del mondo, nella ricerca del sapere, insieme ci facciamo testimoni del presente. Di questo abbiamo bisogno: di un teatro che consideri il pubblico suo complice per poter agire. Un teatro onesto dunque, coraggioso, che si prenda cura della relazione che crea, resistente, profondo, meraviglioso, che parli a tutti.
Volendo intendere il didattismo come una trasmissione cattedratica del sapere, unidirezionale, il teatro ha per propria missione la vocazione al coinvolgimento. Come il vostro lavoro riesce a tradurre l’uno nell’altro? Quindi a non dare l’idea di insegnare ma accogliere in una visione?
Questo succede naturalmente se si considera questo teatro arte e non insegnamento. Sono due cose ben distinte. Le visioni nascono a volte da intuizioni, a volte da contenuti, da racconti, e ci si innamora di essi per diversi motivi. Ci attraggono, ci mandano in crisi, suscitano continui interrogativi, ci appassionano. Ci spaventano. Non insegnano mai, non danno risposte, anzi, devono fare esattamente il contrario. Se questa materia viene scelta, trattata, trasformata, modificata, ripensata, ricreata è perché c’è una necessità artistica forte di farlo, ma non dobbiamo essere noi, noi autori, noi creatori, a decidere che a volte, quella materia, trasformata in teatro, insegna anche qualcosa.
Come i temi problematici della contemporaneità possono entrare negli spettacoli e quali strategie possono essere messe in atto per la loro salvaguardia verso un pubblico così particolare?
Credo non si possa evitare il presente: è dappertutto. Sarebbe come far finta di niente, non prendervi parte, non reagire, disinteressarsi. Il teatro ha il compito di chiedere al presente e se per il teatro d’infanzia il presente è bambino, è delicato, fragile, nuovo, è a volte per la prima volta, non potrà fare a meno di farsi custode attento, garbato, gentile. Nel teatro il presente entra sempre, per sua vocazione: è un atto di resistenza, un tentativo di afferrarlo e di sviscerarlo, anche quando lo fa attraverso una favola, una fiaba, una storia antica. Non dobbiamo avere il timore di mostrare paure e incertezze, dobbiamo solo trovare le parole giuste per raccontarle.
Il mondo mainstream dell’intrattenimento culturale va verso rapidità di trasmissione e fruizione. Come tenete conto nella creazione di questi nuovi ritmi del contemporaneo? Più in generale come può il teatro entrare in relazione con essi?
Non possiamo fare a meno di confrontarci con questi ritmi, dobbiamo capirli, studiarli, perché solo in questo modo li possiamo usare: per portare l’attenzione dove desideriamo oppure, per sovvertirli.
Spero di non trovare mai nulla, perché questo significherebbe avere in mano delle risposte, supporre di sapere, avere chiara la direzione. Finirebbe tutto.
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